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martedì 31 maggio 2022

GIAN PIERO STEFANONI: "IL GIARDINO DI SOPHIA" DI MELLO BREYNER ANDRESEN



Sophia de Mello Breyner Andresen, Il giardino di Sophia.

Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2022.


Va dato merito alla giovanissima casa editrice romana "Il ramo e la foglia" nella cura delle pubblicazioni selezionate, l'attenzione sempre rivolta a un dire incisivo e non costretto tra le maglie di una contemporaneità alla prova, interrogante, strattonante diremmo, e dunque non mai banale, nelle dinamiche delle sue richieste e dei suoi investimenti. Come, anche, nella collana dedicata alla poesia che va a raccogliere in queste pagine una indovinata, e partecipata nella traduzione e nella curatela di Roberto Maggiani, antologia di Sophia De Mello Breyner Andresen (Premio "Camões" nel 1999),

figura tra le più rilevanti della poesia lusitana del novecento. Ad un esordio col dettato poetico di Manuel de Freitas, altro autore di questa terra ricchissima per preziosità del verso, ecco in quarta uscita la scelta di un'autrice forse nel nostro paese poco raccontata, poco frequentata eppure nella sostanza certamente di primaria importanza ed allora paradigmatica anche per noi, per espressione di una cultura che ha saputo far intrecciare nelle sue corde etica e sacralità del vivere di stampo classico (Grecia) e tensione di un mistero, quello della condizione umana, rimesso nella circolarità di una bellezza che ha soprattutto nel giardino e nel mare, nella simbologia di un richiamo, di una presenza sempre frontale, il suo passaporto e, non a caso, la sua nostalgia. Presenza cui la De Mello ha saputo dar corpo, oltre che voce, anche entro un'attività politica che l'ha vista, seppur brevemente, come deputata tra le file del Partito Socialista nel 1975 per la neonata costituente alla caduta della dittatura di Salazar (fu lei a redigere il preambolo della nuova costituzione) in una aderenza che venendo proprio dalla poesia come la più profonda implicazione dell'uomo nel reale (e fondamento della politica stessa come va a ricordarci lo stesso Maggiani nella presentazione) ha nel legame di verità e giustizia con la terra la sua concreta rappresentazione , la sua ricerca. Ed è la parola,  a partire da questo nell'aspirazione di un'abitata e naturale creaturalità degli elementi, a farsi veicolo e incarnazione di una non più rimandabile, perché da sempre immanente, ricongiunzione. Per questo così la poesia nella De Mello, come ha ben rilevato Claudio Trognoni nella postfazione, nella capacità di agire modificando  attivamente in questo senso il mondo ha in sé quella grazia di salvezza che le viene da un umano richiamato e reintegrato là dove nascendo è atteso e acceso alla luce stessa dei suoi simboli ("là dove pietra stella e tempo/ sono il regno dell'uomo"). Se l'incisione, scrive in "Omero", debba come il bue arare "il campo/senza che inciampi nella metrica il pensiero/senza che niente sia ridotto o esiliato/senza che niente separi l'uomo dal vissuto" puntuale ci sembra questa antologia nel testimoniarla nella sua struttura di una ottantina di testi che vanno dagli anni dell'esordio, il 1944, al 1997. Quello che ci viene restituito della De Mello, nota anche come traduttrice e autrice di racconti e favole per bambini, è quel percorso tra una naturalità carezzata come ricordo, e fonte, di un ordine trasceso nella sua corrispondenza e malia di poteri, di fantasmi raccontati nell'evidenza di un'umanità bloccata cui la parola nell'eco ordinario del gesto, nella singolarità della evocazione prova scuotendo a riaccendere ("Preservare da decadenza morte e rovina/l'istante reale di apparizione e di sorpresa/ guardare in un mondo chiaro/il gesto chiaro della mano toccando la tavola"- come esemplarmente sottolineato in "Nella poesia"). Il tutto, soccorrendoci ancora Maggiani, concorrendo "a riportare l'essere umano al suo centro, nel momento presente ed esatto della vita attuale in cui la verità sembra, per un attimo brillare, e con essa il mondo intero, pur rimanendo tuttavia velata e irraggiungibile" e dunque a tentare nel proprio suono col creato una risonanza nel silenzio dell'elemento divino. Esserci allora, come ebbe a ricordare la stessa De Mello è proprio in questa remissione, in questo esposto avanzare, di cui la donna (che qui ha soprattutto il volto di Catarina Eufemia, bracciante agricola uccisa dalla Guardia Nazionale nel 1954 durante uno sciopero) e il poeta ne sono la perfetta incarnazione nella ricerca di una salvezza che "non può essere distinta dalla ricerca di una forma concreta e pratica di giustizia", le stesse parole non purificabili senza prima non aver purificato anche " la relazione dell'uomo con la realtà". Questo è il giardino cui siamo invitati a entrare abilitati "per diritto naturale" ad una libertà e ad una dignità dell'essere di cui oltre che eredi siamo responsabili e che progressivamente, come evidenziato da Sophia, forse andiamo perdendo. Leggerla in conclusione ha allora anche il significato di vedere nel mondo, del mondo pur nella rovina cui va affondando come nel primo uomo la sua viva possibilità, l'eco- ancora- "senza fondo/dell'ascesa nella terra degli spazi".

 

 

GIANCARLO BARONI: "LA FATICOSA NECESSITA' DELLA SCRITTURA"

 

Giancarlo Baroni, La faticosa necessità della scrittura

D’altra parte gli scrittori stessi hanno sempre dimostrato un interesse vivissimo per le testimonianze di altri scrittori, per i loro diari, taccuini, carteggi e scritti teorici, e oggi sempre di più anche per tutto quello che contribuisce a svelare ‘le segrete cose della loro fucina’.


(Ingeborg Bachmann, Letteratura come utopia)


«Cammino, gesticolando e gorgogliando appena, senza parole quasi: ora rallento il passo per non turbare il gorgoglìo, ora grugnisco più in fretta al ritmo dei miei versi. Così si pialla e prende forma il ritmo, fondamento di ogni opera poetica, ch’esso percorre tutto come un rimbombo. A poco a poco dal rimbombo si comincia a estrarre le parole. Alcune parole fanno semplicemente uno scarto e svaniscono per sempre; altre invece indugiano, girano e rigirano decine di volte, fino a che non si sente che la parola ha trovato il suo posto… Quando l’essenziale è ormai pronto, si ha di colpo la sensazione che il ritmo sia spezzato: manca una sillaba, un suono. Si rifanno allora tutte le parole, e il lavoro vi precipita in una condizione di delirio esasperato. Quasi vi applicassero, per la centesima volta, su un dente una corona che non vuole reggere! Alla fine, dopo cento riprove, va a posto! La somiglianza è per me aggravata dal fatto che, quando infine la corona va a posto, i miei occhi stillano lacrime…di dolore e di conforto», scrive nel 1926, in Come far versi, Vladimir Majakovskij. Siamo un poco stupiti, in lui ci saremmo aspettati furori ideologici anziché stilistici, un’attenzione acuta al ritmo della vita piuttosto che a quello del verso. Ma, a prescindere dai nostri pregiudizi e aspettative, egli descrive esemplarmente, con precisione e intensità, la concentrazione e lo sforzo occorrenti per scrivere, e ritrae l’attività del poeta come tanto difficile, gravosa e totalizzante da possedere risvolti maniacali e dolorosi. «Una rima che stai per afferrare per la coda, ma di cui ancora non disponi», confida ulteriormente Majakovskij, «ti avvelena l’esistenza: si parla senza sapere quel che si dice, si mangia senza sapere quel che si mangia e non si dorme perché la rima sembra volteggiare dinanzi agli occhi».

Le dichiarazioni precedenti sulla pesantezza di scrivere rinviano a quelle, addirittura più afflitte, che Gustave Flaubert, paragonato da Conrad ad «una specie di santo eremita delle lettere», faceva epistolarmente all’intima amica Louise Colet. Ottobre 1847, notte di sabato, ore 2: «Lo stile, che è una cosa che mi sta a cuore, mi tende orribilmente i nervi, mi stizzisco, mi rodo. Ci sono giorni in cui ci sto male e la notte ne ho la febbre…Che strana mania quella di passare la vita a consumarsi su delle parole, e a sudare tutto il giorno per cesellare dei periodi. Ci sono volte, è vero, in cui si gode enormemente, ma con quanti scoraggiamenti e amarezze non si paga quel piacere!». Ottobre 1847, giovedì sera: «L’idea mi impaccia, la forma mi resiste. A mano a mano che studio lo stile mi accorgo di quanto poco lo conosca e a volte ne sono così intimamente scoraggiato da esser tentato di lasciar lì tutto e di mettermi a fare cose più facili…Oh! povera amica se potessi assistere a quel che succede dentro di me avresti pietà di me, nel vedere le umiliazioni che mi fanno subire gli aggettivi e le offese di cui mi coprono i "che" relativi». La letteratura gli procura insomma sofferenza e tensione e, ammette, «pesa molto di più di tutte le malattie del mondo».

Le confessioni flaubertiane a loro volta rimandano a quelle, ancora più tormentate e dolenti, affidate da Franz Kafka ai suoi diari. Ora folgoranti: «Salterò dentro la mia novella, anche se ciò dovesse tagliarmi il viso» scrive il 15 novembre 1910. Ora invece analitiche e dettagliate: «La condanna», spiega, «l’ho scritta nella notte fra il 22 e il 23 [settembre 1912], dalle dieci di sera alle sei del mattino, in un fiato. Non riuscivo quasi a ritirare di sotto alla scrivania le gambe irrigidite dallo star seduto. Sforzo spaventevole e gioia di veder svolgersi davanti a me la narrazione e di procedere navigando in un mare. Più volte portai questa notte il mio peso sulle spalle… Soltanto così si può scrivere, con una così completa apertura del corpo e dell’anima. La mattina a letto. Occhi sempre chiari».

Con Kafka ci inoltriamo nei territori magmatici e misteriosi della colpa, della diversità e della malattia intesa non più solo in un senso fisico e psicologico ma simbolico. Caratteristiche che appartengono anche al vasto universo letterario manniano, con la sua profonda, complessa e contraddittoria riflessione sull’arte e sull’artista. Tonio Kroger, che rappresenta il tipo di scrittore solitario e distaccato ma sinceramente innamorato della gente comune, in un momento di sconforto esclama: «La letteratura non è affatto una vocazione; è una maledizione…».

In Poesia triste alla poesia, Vittorio Bodini spiega delusioni e turbamenti dell’artista: «Poesia, struggenti inchieste / sulla verità dell’essere, / scegliemmo la tua scorciatoia. / Non ci ha portati lontano, / no davvero. / Sì, qualche volta l’ebrezza / d’esser vicini a qualcosa / ma in che rari momenti / e a che prezzo / d’insofferenze, di rotture / d’ogni più delicata trama d’affetti! / Odio financo il delicato verde dell’estate / che attornia le mie finestre. / Venga la mano di chi so e liberi / dall’angoscia i miei risvegli».

Lo statunitense Thomas Wolfe in Storia di un romanzo confida che «scrivere è stato per diversi anni l’aspetto essenziale, il più coinvolgente della mia vita e mi è costato lo sforzo, la fatica, l’incertezza e la sofferenza più forte che io abbia mai conosciuto». A proposito della vocazione letteraria Mario Vargas Llosa, in Lettere a un aspirante romanziere, avverte: «È una dedizione esclusiva ed escludente, una priorità a cui non si può anteporre nulla».

Per la verità, non sempre le posizioni risultano così netti e radicali; l’argomento viene trattato anche in maniera più rilassata e distesa. In Come far versi, poche pagine prima dei due brani già citati, Majakovskij riferisce un aneddoto divertente, con cui ironizza sui tic e sulle proprie manie di poeta: «Nel ’13, di ritorno da Saratov a Mosca, per fornire le prove dell’onestà delle mie intenzioni a un’occasionale compagna di viaggio, dissi che non ero un uomo ma una nuvola in pantaloni. Detto questo, pensai che l’espressione mi sarebbe servita in seguito, e che forse sarebbe stata ripetuta, logorata. Sconvolto, per una buona mezz’ora interrogai perfidamente la ragazza, e ritornai in me solo quando mi convinsi che le mie parole le erano entrate da un orecchio per uscire dall'altro. Due anni più tardi la “nuvola in pantaloni” mi servì per intitolare un intero poema».

Joseph Conrad, nell’autobiografia Una cronaca personale, descrive, con un misto di umorismo e di sgomento, le impressioni provate durante la visita inattesa di una zitella petulante e invadente, sua vicina di casa e figlia di un generale. Con risolutezza, a passo di marcia, la donna entra nello studio proprio mentre lo scrittore è sprofondato nella stesura dei capitoli finali di Nostromo, romanzo che lo tiene occupato interamente da quasi due anni. «”Come state?” Era il saluto della figlia del generale», racconta Conrad. «Nulla avevo udito - né fruscio, né rumore di passi. Avevo solo provato un attimo prima come una premonizione di male…e poi ecco il suono della voce e lo stridore come di una terribile caduta da grande altezza - una caduta, diciamo, dalla più alta fra le nuvole che galleggiavano in dolce processione nella debole bava di vento di quel pomeriggio di luglio. Mi alzai rapidamente, s’intende; in altre parole, saltai su dalla mia sedia attonito e intontito, con tutti i nervi vibranti per il dolore d’esser sradicato da un mondo e scagliato giù in un altro…”Come state? Non volete accomodarvi?” Questo è quanto le dissi».

Ne L’isola lacustre, Ezra Pound scherza con arguzia sul faticoso lavoro di scrittore: «O Dio, o Venere, o Mercurio, protettore dei ladri, / Prestatemi una piccola tabaccheria, / o avviatemi in un mestiere qualsiasi / Purché non sia questo maledetto mestiere di scrittore / in cui bisogna sempre spremersi il cervello».

George Orwell, nel saggio Perché scrivo, individua quattro motivi: la vanità e l’ambizione, il piacere estetico e formale, l’interesse storico, il fine politico. Letteratura è descrizione della realtà, ricerca della verità dei fatti, comunicazione di idee, denuncia di falsità e scelleratezze ma anche bellezza e ritmicità delle frasi, limpidezza dello stile. «Tutti gli scrittori sono vanitosi, egoisti e indolenti e al fondo delle loro ragioni c’è un mistero», conclude Orwell. «Scrivere un libro è una lotta orribile ed estenuante, come un lungo periodo di dolorosa malattia. Non bisognerebbe mai intraprendere una attività del genere a meno di non essere guidati da un qualche demone incomprensibile al quale non si può resistere. Per quel che se ne sa, tale demone è semplicemente lo stesso istinto che fa strepitare un bambino allo scopo di richiamare l’attenzione. E, tuttavia, è anche vero che non è possibile scrivere qualcosa di leggibile se non si lotta costantemente per tenere in disparte la propria personalità, dato che la buona prosa è trasparente come il vetro di una finestra».


La letteratura è faticosa e insieme necessaria, probabilmente diventa faticosa perché necessaria. Se la si considera un valore autentico e un bene indispensabile, se si ritiene che abbia a che vedere con la morale, la conoscenza, la bellezza, e che mantenga un legame indefinibile con la verità e la perfezione, allora dedizione, disciplina e sacrificio sono inevitabili. «Esiste in Europa una scuola di spiriti… in cui ci si è abituati a fondere insieme i concetti di artista e di pensatore…L’artista di questo genere», precisa con la consueta maestria Thomas Mann in Bilse e io, «… vuol conoscere e rappresentare: conoscere in profondità e rappresentare in bellezza». Secondo Orwell, lo scrittore scrupoloso ha l’obbligo, mentre compone, di porsi almeno queste domande: «cosa sto cercando di dire? quali parole possono esprimerlo? quali immagini o espressioni lo renderanno più chiaro? è questa immagine fresca abbastanza da suscitare un certo effetto?».

Nel saggio L’artista serio, Pound sostiene che la letteratura è una specie di scienza il cui compito consiste nell’indagare e fornire dati attorno alla natura spirituale dell’uomo, e lo scrittore una specie di scienziato a cui compete lealtà e accuratezza. Conrad crede che gli artisti e gli scienziati debbano ricercare la verità e poi diffonderla, ma che quella dei primi sia più indecifrabile e segreta della verità dei secondi.

Più di tutto Elias Canetti odia e disprezza la morte: «Fintanto che esiste la morte, tutto ciò che vien detto è detto contro di lei», scrive ne La coscienza delle parole, «…Fintanto che esiste la morte, il bello non è bello, il buono non è buono». Canetti assegna perciò allo scrittore la responsabilità, la missione di contrastare e di opporsi alla violenza, alla guerra e al nulla. «Non può essere compito dello scrittore lasciare l’umanità in balia della morte», dichiara. «Apprenderà con sgomento, lui [lo scrittore] che non si chiude di fronte a nessuno, che la morte sta assumendo in molti uomini un potere crescente. Anche se dovesse apparire a tutti un’impresa disperata, egli a questo si ribellerà, e mai, in nessun caso, sarà disposto a capitolare…Lo scrittore vivrà secondo una legge che non è stata tagliata su di lui, ma è lo stesso la sua legge. Eccola: Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri. Si indaghi sul nulla con l’unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri ad ognuno». Con altrettanta intensità, Kafka paragona il libro ad un’ascia che serve per frantumare «il mare ghiacciato che è dentro di noi».

Scrivere si dimostra dunque un’attività che rifiuta superficialità e negligenza. Prima di intraprenderla e di esercitarla converrebbe forse domandarsi se è proprio indispensabile farlo, o se non è invece possibile astenersene. «Guardi dentro di sé», consiglia Rainer Maria Rilke a un giovane poeta. «Si interroghi sul motivo che le intima di scrivere… si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice io devo questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità… Un’opera d’arte è buona se nasce da necessità». In maniera perentoria, nella Prefazione a Il negro del Narciso, Conrad asserisce: «Un’opera d’arte che aspiri, per quanto umilmente, alla sfera dell’arte, deve dare giustificazione di sé in ogni sua riga».

La letteratura non è utile soltanto a chi ne fruisce, al mondo e ai lettori, ma anche a chi la fa, agli autori, dei quali diventa la passione principale e l’identità. Senza lei, Flaubert soffre di tedio («Tutto quello che è vita mi ripugna, tutto quello che mi travolge e mi ci rituffa mi spaventa… Ho in me, in fondo a me, un tedio radicale, intimo, acre e incessante che mi impedisce di assaporare qualunque cosa e che mi riempie l’anima fino a farla scoppiare»); Kafka non riesce a immaginarsi («Il mio posto è insopportabile perché è in contrasto con il mio unico desiderio e con la mia sola professione che è la letteratura. Siccome non sono altro che letteratura e non posso né voglio essere altro»); Canetti senza di lei si sente condannato all’infelicità («Respiro liberamente soltanto sopra un foglio bianco. Nella carta è il mio atman, l’anima del mondo», scrive ne La rapidità dello spirito e aggiunge, «Fintanto che scrivo mi sento sicuro…Se però non ho scritto niente per qualche giorno, sono smarrito, disperato, cupo, vulnerabile, diffidente, minacciato da cento pericoli») e Camillo Sbarbaro sostiene addirittura di non riuscire a vivere («A noi che non abbiamo / altra felicità che di parole / … / se non è troppo chiedere, sia tolta / prima la vita di quel solo bene.»).

Il rapporto fra scrittore e scrittura sembra contraddistinta dall’ambiguità, dalla contraddizione e dalla duplicità. Le lacrime di Majakovskij sono di dolore e di conforto, Flaubert considera lo stile una mania capace di generare godimento, e Kafka, componendo La condanna, avverte, oltre alla pesantezza, un po’ di gioia. In un volumetto intitolato Scrivere, Marguerite Duras ritrae tale lavoro simultaneamente come passione dispotica e liberazione. «La liberazione», chiarisce, «è quando si fa buio. Quando fuori cessa il lavoro. Rimane il nostro lusso di poter scrivere nel buio. Possiamo scrivere a qualunque ora. Non siamo penalizzati da ordini, da orari, da capi, da armi, da multe, da insulti… e ancora da capi». Per Antonia Pozzi, le parole poetiche costituiscono la «voce profonda» e il «profondo rimorso». Contrita e superba, umile e presuntuosa, Marina Cvetaeva chiama i poeti «noi paria e pari a Dio». Da marinaio esperto, Conrad sa rendere visibile lo sforzo creativo, «una cosa», dice, «di cui si può trovare un parallelo materiale soltanto nell’interminabile e cupa tensione di un passaggio invernale di Capo Horn in direzione ovest». Ciononostante ama talmente la letteratura da gridare: «Datemi la parola giusta… e vi sollevo il mondo».

La scrittura si presenta quindi contemporaneamente come sofferenza e piacere, malattia e terapia, vizio e virtù, condanna e salvezza, schiavitù e libertà. La figura retorica che meglio la rappresenta non è l’antitesi ma l’ossimoro. Mentre la prima affianca due termini opposti, il secondo ne tenta una sintesi paradossale, ingegnosa e intuitiva. Grazie all’ossimoro possiamo definire la scrittura per esempio una necessità faticosa, un piacere tormentato, una disperazione allegra e in qualunque altro modo adeguato. A cominciare da «doloroso amore», l’ossimoro che Umberto Saba, in una lirica pregevole dedicata all’avventuroso e contraddittorio Ulisse, riferisce alla vita e noi estendiamo alla letteratura.


MARCO ZELIOLI LEGGE: "LIRICHE SCELTE" DI PASQUALE D'ALTERIO

 


Pasquale D’Alterio

LIRICHE SCELTE

 

Recensione di Marco Zelioli

 

 

Queste Liriche scelte di Pasquale D’Alterio, che Guido Miano Editore propone nella sua collana Analisi Poetica Sovranazionale del terzo millennio (suddivise secondo le tre tematiche più rilevanti: “Liricità della natura”, “Problematiche esistenziali”, “Il tema dell’amore”), ci riportano ad assaporare la vena nostalgica del poeta napoletano, che dal 2014 ha prodotto interessanti raccolte: La Vita, il Tempo, l’Amore, la Morte (AbbìAbbè Edizioni, Giuliano in Campania 2014); Il canto dell’anima (ivi, 2016); Ancora nel cuore (Guido Miano Editore, Milano 2019) e Le pagine della nostra vita (pubblicata in Opera omnia, ivi 2020). Nostalgia che affiora anche quando tratta dell’amore, anzi de L’amore vero: “Dolce come miele d’acacia / è il vero amore, / caldo, come d’inverno, / il fuoco d’un camino, / fresco e dissetante / come acqua di montano torrente, / morbido come di un bimbo l’abbraccio, / eterno come dei cari defunti il ricordo, / carezzevole come il mare d’estate, / lieve come, sulle labbra, un bacio fugace, / non caduco come le umane illusioni” (p.74).

Nella prima parte spicca, come nota Enzo Concardi, “il gruppo di liriche in cui avviene il colloquio - talvolta diretto, altre volte mediato dalla meditazione - tra l’uomo e la natura” (p.8), con qualche eco nerudiana. Ma forse ancor più emblematico del modo di sentire, e di scrivere, del poeta è l’accostamento tra il tempo dell’attesa ed il peso della disillusione: “Nel grigiore dell’alba, / quando ancor sulla luce / il buio prevale, si schiude l’animo / alla vana attesa / d’un sorriso che per breve / rischiari il buio della vita. / E giunge alfine il sole, / ma dall’animo / non scompaiono le tenebre” (L’alba 1, p.13). La natura stessa si fa compartecipe della fragilità umana, come La quercia caduta (titolo dal forte richiamo pascoliano), che “… sol resterà un legno / ormai per sempre senza vita” (p.11); ed è il mare che più si avvicina all’immagine dell’umana ventura: “Liquida interminabile distesa, / specchio del cielo e delle stelle / ed anche dei nostri pensieri, / di quelli più profondi e malinconici, / abisso insondabile, tale è il mare. / Riflesso del nostro animo / nelle sue più inconfessate paure, / anche del volto della morte” (Il mare, p.17).

La seconda parte presenta alcuni temi-chiave, che il prefatore Floriano Romboli individua nei “limiti del disorientamento intellettuale, della privazione affettiva, in una situazione di sconforto e di solitudine, nella forte inclinazione all’auto-annullamento”, già tutti condensabili nella prima strofa della prima lirica della raccolta (“Tra opposte sponde / la nostra esistenza fluisce, / la luce ed il buio / …”, Tra opposte sponde, p.33), che ben si raccorda al finale di A che, o donna…: “…Di noi sol resterà / un tenue e fugace ricordo / che si dileguerà col tempo” (p.35): in un sentire quasi leopardiano, che conduce il poeta a meditare così: “…Nel silenzio sol si ode / il lieve stormire del vento tra le foglie; / unica compagna la solitudine.” (Meriggi d’estate, p.40). Cenni a una vita che nel tempo inesorabile passa: “Languidi e pigri / scivolano i giorni / e trascolora la vita, // così rapida / nella clessidra / scorre la sabbia, // né rivoltarla / richiama / il tempo che fu” (Clessidra, p.45), perché all’uomo non si addice l’eternità della vita (“Dall’interno il tempo / corrode e dissolve / ogni umana pretesa / di costituire la vita / come qualcosa di eterno” - Il tempo, p.50) e Mortali nascemmo (“Mortali nascemmo. / Può alcun forse dire/ se un bene o un male/ sia il vivere più a lungo?”, p.42).

La terza parte del libro è introdotta da Nazario Pardini, che accosta il Nostro al poeta al crepuscolare Sergio Corazzini (1886-1907), asserendo a ragione che il D’Alterio ci coinvolge “nella sua malinconica voce poetica dove il memoriale fa da padrone nell’opera” (p.54). Ed è così: basti leggere Le pagine della nostra vita: “Sempre con rimpianto rileggo, / indelebilmente in me scolpite, / le pagine della nostra vita. / Pur se il tempo, / ora veloce, ora lento scorre / sempre vivide balzano ai miei occhi / né mai cadranno nell’oblio / fino a che un soffio di vita / aleggerà in me” (p.69).

Nel complesso queste Liriche ci restituiscono un bel ritratto interiore di Pasquale D’Alterio, noto anche per le sue traduzioni poetiche dei maggiori lirici greci dell’antichità classica, e confermano che il suo radicamento nella classicità non gli impedisce mai di essere “nel presente”. Ciò è, del resto, caratteristico di molti grandi Autori, la cui parola è sempre un po’ più avanti (“più in là”, per dirla con Montale) anche quando riecheggia il passato: e questo è forse il più bel mistero della vera poesia, che anche da cose minime apre il cuore e la mente a meditazioni che hanno un che di cosmico, e di nostalgico assieme: “L’erba tagliata di fresco / esala un profumo / come di cose perdute” (p.22, da La Vita, il Tempo, l’Amore, la Morte, 2014).

Marco Zelioli

 

 

Pasquale D’Alterio, Liriche scelte, prefazioni di Enzo Concardi, Nazario Pardini, Floriano Romboli, Guido Miano Editore, Milano 2022, pp.96, isbn 978-88-31497-34-3, mianoposta@gmail.com.