Un benvenuto caleidoscopico all’ ESTATE
con la pittura informale di Mida
(Massimo Dini)
e una mia poesia
“Il mio dipingere non è mosaico! La mia è pittura e della pittura ha
tutti gli ingredienti, le metodologie, i tempi, la magia. Tessere, rombi,
quadrati, pentagoni, esagoni irregolari, dipinti uno ad uno, sono maniacalmente
disposti uno accanto all'altro e si muovono in libertà sulla tela o qualunque
ne sia il supporto”. Da una conversazione-intervista tenuta con il pittore
umbro di Città di Castello Massimo Dini, alias Mida, dopo anni di
collaborazione e di amicizia, emerge la fisionomia più autentica del suo mood
artistico informale che il suo ex docente e direttore dell’Accademia di Belle
Arti di Perugia, il pittore Giorgio Ascani, alias Nuvolo (componente insieme a
Mida della stessa cerchia artistica tifernate di cui faceva parte anche Alberto
Burri), definì simile a un “Jackson Pollock rallentato” in virtù di quella sua
peculiarissima “pittura gestuale al rallentatore” che di Pollock non ripropone
certo il dripping, la gocciolante tecnica dell’action painting,
quanto piuttosto ciò che noi definiremmo uno slow painting pazientemente
conseguito a forza di pennello tessera dopo tessera e che di musivo ha solo
l’apparenza, di qui l’accalorata precisazione del nostro pittore. In effetti il
suo sapiente cromatismo lenticolare restituisce la fisionomia ultima di
variegati mosaici come pure della tecnica del Trencadís di cui è
intarsiata l’architettura liberty del catalano Antoni Gaudì. La paziente
tessitura pittorica del processo compositivo dei quadri di Mida acquista un
ruolo preponderante rispetto alla tappa finale della composizione stessa,
motivo per cui, è da supporre, il nostro artista dichiari di attribuire un
titolo alle sue creazioni solo dopo l’ultima pennellata e neppure a ridosso di
questa, ma procrastinandolo in tempi lunghi, forse anche perché, osserva
giustamente Mida, “una stessa opera può svilupparsi in tempi lontani” (e anche
chi scrive, soprattutto prosa, sa che è vero).
Prosegue il pittore: “Da sempre dare il titolo è il momento conclusivo
nelle mie opere, spesso addirittura dopo la firma e rigorosamente da apporre
sul retro della tela. L’ultima ‘non pennellata’ che mette fine all’atto
artistico, alla creatività, dando al dipinto nascita, nome, anima”.
Dalla
disposizione grafica a serpentina di alcune “tessere” di quest’opera ha
istintivamente preso spunto la mia lirica in una sorta di rudimentale
calligramma nel quale il processo associativo con la lettera “esse” è stato
così prorompente da informare di sé anche la scelta lessicale di un’invadente
allitterazione. Un siffatto percorso stilistico di tipo ludico mi ha spinta
anche a far sì che le lettere dei versi si impregnassero dei colori dell’opera,
identificando in un certo senso il segno iconico con il segno verbale. Va detto
altresì che il fraseggio compositivo di questo quadro scorre entro uno schema
meno astratto della maggioranza dell’abbondante produzione pittorica del nostro
artista, offrendomi così la possibilità di ipotizzare una specie di poesia
visuale nella quale tuttavia, non pretendendo certo di creare un’anacronistica
opera futurista alla Marinetti, la forma non prevale sul contenuto. Anzi,
l’evoluzione dei corpuscoli cromatici del dipinto ha evocato in me l’idea di
una fine-estate che getta ombre sulla solarità dell’impianto, come si evince
dall’ultimo verso. In forza di questa
libertà interpretativa, nel corso della nostra collaborazione la natura non figurativa dei suoi quadri non ha
rappresentato un ostacolo alla realizzazione della mia impresa in versi, al
contrario, sembra accogliere, nell’organizzata struttura di tasselli di colore,
l’intuizione primigenia del messaggio poetico evocato. La nostra sinergia ha
sperimentato anche il processo inverso, cioè suoi dipinti generati da mie
poesie e approdati anni fa alla realizzazione della fortunata Mostra di Arti “Ars gratia artis: il colore delle parole” allestita come evento
collaterale al Festival delle Nazioni di Città di Castello.
Componente
focale, a mio avviso, delle creazioni di Mida è la luce, sostanza primaria che,
come nelle vetrate policrome delle cattedrali, permea e dà rilievo allo spazio
cromatico. Il tutto in un modello compositivo che non è mai emotiva pulsione
informale affidata al caos o al caso. Asserisce infatti il nostro artista: “Nel mio lavoro cerco, molto più che
agli inizi, d’inserire le sensazioni di movimento, spazialità, tempo, dando
preziosità al colore nella libertà di un ‘caso’ fine e ricercato e il soddisfacimento
catartico che ne traggo è il senso di un’estrema creatività”. L’apparentemente
ossimorica definizione del “caso ricercato” fa eco alla nota affermazione di
Braque “amo la regola che corregge
l’emozione” e di questo stesso paradigma paiono sostanziarsi le tele di Mida,
in corrispondenza con la cifra stilistica dei miei versi nei quali il
sentimento (tedioso termine ormai abusato in campo poetico) risulta sempre
incanalato, come Wordsworth insegna, nel tunnel della disciplina formale:
“Poesia è emozione rivisitata in tranquillità”. Se sostituiamo il termine
“poesia” con “arte”, le suggestive, originali composizioni informali di Mida
enucleano, mutatis mutandis, lo stesso concetto elaborato dal grande esponente
del romanticismo lirico inglese nei confronti dell’atto creativo.
Angela Ambrosini
Foto e poesia pubblicati nel n. 185
del Bollettino on-line del CENTRO LUNIGIANESE DI STUDI DANTESCHI.
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