Maria
Rizzi su “La promessa” di Gianlivio Fasciano - IOD edizioni
Ho
ricevuto in dono da Gianlivio Fasciano la sua ultima Opera, il romanzo “La Promessa”di IOD Edizioni,
e ho rivisto in una serie di flash back la lunga storia di amicizia con
l’Autore. Attraverso la lettura dei testi precedenti, come “La vite e la vela”,
“Il tempo delle ciliegie”, il racconto “Tempo, sì grazie…”, e grazie alla frequentazione
di Gianlivio, presi atto che si trattava di un giovane che rispondeva a un’
infanzia e a un’adolescenza sofferte sfidando se stesso. Era cresciuto con il
proposito di ottimizzare ogni attività che intraprendeva. E si può dire che è
riuscito nell’impresa, visto che ha ottenuto nel 2021 il riconoscimento di
“Avvocato dell’anno per il Diritto del lavoro e delle relazioni individuali”
e si è affermato nello sport arrivando ai
massimi livelli in pallamano e in altre discipline nel Circolo Canottieri
Napoli. La scrittura mi sembrava rappresentasse la sua isola libera, il luogo
nel quale dava voce al fanciullo che portava in sé. I suoi testi erano
surreali, umoristici, originali, freschi, anche se nascondevano le verità
dell’esistenza. Con quest’ultimo libro la sua ars narrandi compie passi da
gigante, L’opera è tratta da una storia vera, ma a mio umile avviso non è importante
sapere che ruolo rivesta il protagonista nella vita di Gianlivio Fasciano, è
importante e dannatamente attuale la vicenda in se stessa. Romolo Di Meo del
1921, nasce a Mastrogiovanni, una frazione di Filignano, in provincia di
Isernia nel Molise, ed è la voce narrante della sua storia di pastore
senz’altra ambizione di recarsi sul Monte Pantano con le vacche, i vitelli e
qualche capra. Per introdurre il romanzo credo sia indispensabile parlare della
cifra stilistica. La si potrebbe definire verista, neo-realista nel senso crudo
dell’espressione. Leggendola si ascolta C. Dickens e il suo assunto “Di fatti
c’è bisogno nella vita. Piantate nient’altro, estirpate tutto il resto. Solo
con i fatti si educano le menti di animali razionali, nient’altro riuscirà mai
loro di alcuna utilità”. Romolo non ha tempo per pensare a ciò che non ha, si
concentra su ciò che può fare con quello che ha. Ma l’Autore, pur evocando le
correnti citate, va oltre. Si caratterizza per un lessico duro, aspro, pervaso
di termini dialettali, coniato su misura per i protagonisti della storia.
Romolo, Tata e Tatella, - nel sud esisteva l’abitudine di chiamare i genitori
con questi lemmi che sono la duplicazione della sillaba ‘ta’, consueta nel
balbettio e nel richiamo dei bambini -, le sorelle del pastore e tutti i
personaggi si esprimono nel loro gergo e aiutano noi lettori a comprendere a
fondo la loro realtà. Gianlivio non ha scritto un romanzo, ha studiato usi,
costumi, abitudini della gente che ha conosciuto da piccolo, in epoca molto più
recente. Si è documentato sul mondo contadino, su quanto sia importante il
tempo nello scandire le fasi dell’esistenza: “un buon pastore tiene il tempo
meglio di un pianista” - tratto dal romanzo. Il ragazzo impara subito che sono
la vita e il tempo a decidere per gli uomini, per i contadini in particolare.. L’Autore
non rinuncia a voli di struggente dolcezza, alle aperture d’ali, sufficiente
citare l’estratto: “pure le pecore lo capiscono che le bocche sono sorelle
quando si ha fame”, ma torna sempre sui passi del vero per non tradire il focus
della vicenda. Il padre, Tata, che è un reduce della Grande Guerra e nel
conflitto ha avuto il polso trapassato da un proiettile, rappresenta la quercia
dell’infanzia di Romolo, che lo idealizza, lo ammira, spera di poter essere
alla sua altezza. Le donne della famiglia sono figure sullo sfondo che, nel
corso del romanzo, prendono consistenza. Giovanna, l’unico grande amore del
protagonista, al primo incontro gli piace ‘non perché sapeva sorprenderlo, ma
perché era sorpresa’. Cito alcune frasi che mettono in luce la capacità
dell’Autore di coinvolgerci con il verismo, la cruda realtà contadina e una
creatività che implica vari livelli inconsci. Romolo si sposa giovanissimo e,
come tutti i coetanei, viene reclutato per il secondo conflitto. La narrazione
in prima persona rende l’intero libro e, in particolare la lunga descrizione
dei quattro anni di guerra, a dir poco superba. Gianlivio Fasciano si cala
perfettamente nella pelle di un giovane di meno di vent’anni che non comprende
perché deve recarsi a Trieste dove viene assegnato agli Alpini della Brigata
Julia. Lui conosce il pericolo degli orsi, temuti più dei lupi sui suoi monti, non sa nulla delle mine, delle trincee, dei
nemici. La promessa che dà il titolo al testo è riferita a Tatella, la madre,
alla quale il giovane assicura che non si sarebbe mai lamentato, ma esiste un
secondo possibile titolo, ‘la rassicurazione’ di Tata, che gli ripete che andrà
tutto bene. Romolo per fronteggiare lo strazio del conflitto si appoggia a
queste due stampelle. Come ogni ventenne mandato in trincea non sa perché deve
combattere, porta le ferite e le cicatrici senza comprendere il grande non
senso della crudeltà che è costretto a infliggere e a subire, non gliene frega
niente di Mussolini, si rende conto soltanto che nulla frantuma la dignità di
un essere umano quanto la guerra. Il soldato Di Meo ricorda più volte la
promessa fatta alla madre e dopo la morte di un altro pastore come lui, si
sfoga dicendo: “in guerra non tieni un amico uno fino a quando non lo conosci.
Perché quando lo conosci rischi di diventare pazzo. Anzi ci devi diventare
pazzo dopo che, lasciata la tua terra, tua moglie e la tua famiglia per andare
a rendere omaggio a Mussolini e alla Patria, poi ti ritrovi a fare la guerra
con altri caprari come te che neanche sanno cosa ci stanno a fare là”… e
conclude: “Ecco è questo il momento in cui ho capito perché non dovevo
lamentarmi. Perché era tutta una bugia”. E dopo i quattro anni trascorsi
svolgendo vari ruoli il giovane scopre per caso, mentre obbedisce agli ordini come
sempre, che Badoglio ha firmato l’armistizio, e che può tornare a casa.
L’avventura purtroppo non è finita. Il giovane sente parlare di alleati, che
non conosce, di tedeschi che nel ritirarsi continuano a vendicarsi e affronta
una vera e propria odissea per raggiungere il suo paese. Scopre che Venafro non
esiste più, che stanno bombardando i comuni del Molise, diventa eroe sentendosi
solo un assassino, e impara che la rassicurazione del padre tanto amato non era
vera. Non va tutto bene. Vorrebbe addirittura farla finita. Romolo dà fiato
alla propria disperazione: “Non solo quella guerra non era la mia, soprattutto
quella cagna bastarda aveva cambiato i connotati di casa senza avvisarmi. Mi
aveva fottuto due volte”. Dagli estratti del romanzo si evincono le laceranti
verità dei conflitti, di ogni conflitto. Il testo scava le anime di noi
lettori, le trascina in uno scenario di rabbia, di dolore, di stupore. Non si
combatte mai in nome di ideali, si va in guerra per assecondare gli interessi
di persone definite ‘potenti’. Romolo si dimostra un uomo perbene, che rispetta
i valori che gli sono stati inculcati, protegge i propri amori e sente il peso
delle morti inflitte. Il libro in questo momento storico è didattico e il nerbo
narrativo di Gianlivio Fasciano travolge, rende visibili i personaggi e, a
tratti, commuove. Credo che con un romanzo come questo l’Autore abbia chiuso il
cerchio. Non ha rinunciato al fanciullino, tant’è che scrive favole e ha un
carattere gioioso, ma ha dato prova di autentica, altissima Letteratura, quella
che prevede studio e storia, e che si ribella ai tempi puri della grammatica
per rendere giustizia alla vita.
Maria Rizzi
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