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sabato 3 dicembre 2022

PATRIZIA STEFANELLI: "LA POESIA E' LOCUS MOBILIS"

La poesia è Locus mobilis? Forse, per fortuna.

 

Massimo rispetto per ogni poesia, amici miei, purché essa sia. La ricerca di nuove forme che attualizzino la poetica, cioè l'insieme delle forme espressive-contenutistiche, è sempre apprezzabile. Occorre essere pronti e aperti alle intuizioni poco riconoscibili perché, come in fisica, ciò che si riconosce è una conferma, ciò che non si riconosce è una scoperta. La poesia può essere ancora centrale nella cultura odierna, ma soltanto se riesce a conservare il valore del verso. Detto questo, tenendo conto del fatto che amo molti stili poetici e, soprattutto, amo sorprendermi, ciò che possa o non possa definirsi poesia, è alla base di una discussione sulla quale molti teorici si dibattono da sempre. Così è anche per il teatro che nel ‘900 ha visto una grande rivoluzione. Teatro è locus mobilis, scrive il mio ex prof. universitario Raimondo Guarino, storico del teatro; poesia è locus mobilis allo stesso modo? mi chiedo. Un poeta ispirato, spesso scrive un testo come fosse sotto dettatura. All’improvviso, dal silenzio interiore, la partenogenesi poietica ha inizio. La poiesis è quanto di più complesso possa esserci: un dialogo tra il poeta e il mondo. Tutto, dagli elementi naturali alle pulsioni istintive del sistema rettile, diventa una rivelazione, invenzione che non ha un prima né un dopo. La parola poetica è locus mobilis. Sì. E' un operaio, il poeta, che ha imparato il valore della duttilità della parola e la forgia secondo la sua visione, il suo sentire. Accade a pochi fortunati, magari ignari di tanta eleganza ma un critico "deve" rintracciarne la struttura fonica e metrica (se c'è la voglio vedere riconosciuta bella o brutta che sia poiché incontrovertibilmente ci dà il ritmo esatto, l'andamento fonico che il poeta vuole). La musicalità non è solo la rima (facile farla saltare all'occhio), ma l'uso di assonanze e consonanze, allitterazioni ecc. che sicuramente risaltano anche in una composizione eterometrica, in un verso lungo alla Whitman, per intenderci. Un critico sa distinguere frammenti, metafore, anafore, correlativi oggettivi, metonimie, personificazioni... e molto di più. Non basta certo dire: bella poesia, arrivante! Emozionante! No, da un critico vorrei sentire cosa ha scritto il poeta e come. Se ha usato una struttura ipotattica o paratattica, qual è il suo scarto linguistico, il valore semantico delle parole che assumono infiniti significati armonici. Questo è insegnare, questo il commento che ci si aspetta da chi comprende. Positivo o negativo non importa, aiuta a crescere ma, che sia sostanziale, didattico. Cosa mi ha trasmesso il poeta, al di là delle parole? Questo occorre che ci si chieda. Cosa mi resta del testo? E allora serve andare dentro al testo, trovarne i sottostrati, le concatenazioni, la prima la seconda e la terza lettura. Se, per un critico, un fiume che scorre è un fiume che scorre, è finita.

Poesia è soprattutto ciò che riusciamo a condividere con il lettore. Per la sua proprietà legata alla parola scritta, al ritmo, al suono, al verso, a differenza del teatro di parola, la poesia, che nasce per la musica, fa del linguaggio ordinario qualcosa di straordinario. Le immagini e i suoni sono diegetici al testo, sono un tutt’uno. La parola scritta conduce la lettura, l’andare a capo di un verso conduce alla pausa, all’attesa. La lettura ad alta voce, consente l’ascolto del fonema, il ritmo (metrico come da canoni o libero) consente alla parola scritta di rendere il significato esatto dell’intenzione timbrica dell’autore. Dal ritmo, cioè dall’armonia che è propria della poesia, capiamo il tono solenne o ironico o martellante, ecc. di un testo poetico.  La voce che si appoggia in maniera naturale sugli accenti tonici, ci dà l’esatta lettura di un testo. Quando una poesia è ben scritta, si lascia leggere così com’è, rispettando le pause, la punteggiatura, gli enjambement. A differenza della prosa, poetica o no, la poesia si consente frammenti, visioni diverse nel tempo, sintassi personale. Come in teatro, giorno e notte stanno in clic. Suono, ritmo e significato sono un tutt'uno, e se hanno la forza di coinvolgere il lettore, si attualizzano e diventano poesia. Certamente conta il contesto umano sensibile al testo, la cultura di riferimento, la capacità del testo di essere condivisibile. Purtroppo le traduzioni delle poesie dei poeti stranieri hanno portato molti a pensare che basti scrivere bei pensieri per fare poesia. Basterebbe, invece, leggere i testi originali per accorgersi di ampie sonorità e onomatopee. Anche le vocali hanno la loro importanza. Da noi si direbbe in dialetto: Pure glie puce tènne la tosse.

Pur lasciandosi andare alle sensazioni spontanee che sorgono immediate alla percezione dello scrittore attraverso metafore ardite e sinestetiche visioni, il testo poetico ha necessità dell'arte “messa da parte” per la costruzione di una forma che sia coinvolgente. Comunque, ogni tempo ha dileggiato la poesia che non riconosceva. I fattori sono tanti, da quelli sociologici a quelli legati a un’editoria di costume che illude la massa.

La forma da sola conta poco, così come conta poco un buon contenuto in assenza di una buona forma. In verità anche la forma è contenuto. È bello emozionarsi per armonia. Mi viene in mente X agosto del Pascoli. Pascoli è un Maestro senza pari. In questa sua poesia il ritmo è franto e singhiozzante grazie ai versi spezzati da punti, punti e virgole, due punti; e, senza addentrarci troppo nelle intense figure retoriche del testo, vogliamo dire dell’iconismo fonosimbolico del dodicesimo verso che riproduce il cinguettio degli uccelli: “pigola”, “più”, “piano”? mentre la metrica del verso alterna decasillabi anapestici o manzoniani (accenti principali in terza, sesta e nona sillaba) a novenari dattilici con attacco giambico (accenti principali in seconda, quinta e ottava sillaba). Versi parisillabi e imparisillabi insieme (apparentemente) che continuano in enjambement; da leggere ad alta voce per gustare l’appoggio della stessa sugli accenti tonici principali. Che spettacolo di ritmo! La cadenza ricorsiva lo rende armonioso. Vi riporto la terza strofe, con lo schema mutuato dalla metrica classica, rappresentata da una ripetizione del piede anapesto (dattilo ascendente - al contrario) che si compone di due sillabe brevi, che formano l'arsi del piede, e di una sillaba lunga, che ne è la tesi: ∪∪.  In metrica italiana l’anapesto indica una successione di due sillabe atone e una tonica. Da notare come nella lirica il primo e il secondo verso, e il terzo e il quarto di ogni strofe, si leghino in continuum.  La rima è alternata. La musica assicurata.

 
Anche un uomo tornava al suo nido:

∪∪∪∪∪∪

l'uccisero: disse: Perdono;

∪∪∪∪

 


e restò negli aperti occhi un grido:

∪∪∪∪∪∪

portava due bambole in dono...

∪∪∪∪

 

Va bene, quanto ci sarebbe da dire e studiare! C’è anche altro, molto altro; ma la bellezza di una vera poesia sta nella semplicità con cui infine si dona al lettore col suo messaggio subliminale. La poesia evoca quando l'io poetante diventa chi si fa risuonatore, quando è armonia anche dissonante, quando trasmette una poetica emozionale: unico lascito interessante per il mondo. Il resto è grafomania, un nonsoché, magari con una metrica superlativa, ma senza poesia; oppure con strampalate stranezze, senza costrutto né forma.

In fondo, mi viene da pensare che siamo il frutto di negazioni; le poesie lo sono, imbastite di quanto chi comanda ci propina insieme a un’editoria di costume che illude la massa. Noi tutti siamo l’interpretazione del personaggio che siamo, convinti di essere liberi. Come diceva Proust, è necessaria la netta separazione tra l’io artistico e l’io mondano. O forse dovremmo superare l’io? Oggi questa moda fa tendenza: dunque non vale. Pazienza.

Vi propongo di leggere, tenendo conto dei limiti delle traduzioni (quella di Paolo Statuti mi pare molto buona) la poesia di Majakovskij dedicata a Esènin, alla sua morte da suicida. I due non si apprezzavano. Il primo era un rivoluzionario politico, il secondo un romantico lirico naturalista. Ho cercato di seguire, nella lettura, le pause dell’autore. Egli va a capo spessissimo, il ritmo è frammentato, martellante, ricco di punteggiatura ad aumentare la pausa; la sonorità è altissima: voleva che così si leggesse e, a mio modesto parere, il segno regge, non lo avrei mai detto, ma regge: è diegetico. Majakovskij morì cinque anni dopo ‘l’odiato’ Esènin, allo stesso modo: suicidio/omicidio.
Da “ In morte di Esènin” una breve pericope:

 

Ebbene,
si fosse trovato
l’inchiostro all’ “Angleterre”,
non avreste avuto motivo
di tagliarvi
le vene.
Si sono rallegrati i plagiari:
bis!
Poco è mancato
che litigassero
tra loro.
Perché mai
aumentare
il numero dei suicidi?
Meglio
produrre
più inchiostro!

 

Il filosofo tedesco Adorno nella “Teoria estetica” scrive che la poesia di un autore è sempre in rapporto di ostilità con la poesia di un altro autore. Comunque, ogni tempo ha dileggiato la poesia che non riconosceva. Così è e così sarà, per fortuna

Patrizia Stefanelli

 

 

1 commento:

  1. Grazie a Patrizia Stefanelli per quest’ acuta analisi critica sul poetare, da vero manuale. Un’analisi basata non solo su conoscenze teoriche, ma anche sulla pratica, essendo Patrizia una voce poetica tra le più valide e accreditate di oggi. E da vera esperta del settore, ribadisce a chiare lettere la necessità di una lettura a strati del testo poetico, dato che il sostrato è molto più pregnante della superficie. “E allora serve andare dentro al testo, trovarne i sottostrati, le concatenazioni, la prima la seconda e la terza lettura. Se, per un critico, un fiume che scorre è un fiume che scorre, è finita”, scrive la Stefanelli. Il connubio di forma e contenuto, il loro equilibrio osmotico rappresentano forse l’ostacolo più grande da superare per chi si accinge a scrivere versi non avendo però una pratica di lettura e di meditazione sui testi del patrimonio lirico universale (evenienza purtroppo molto diffusa, a dispetto della sempre più inflazionata pratica di scrittura in versi...). “Il resto è grafomania, un nonsoché, magari con una metrica superlativa, ma senza poesia; oppure con strampalate stranezze, senza costrutto né forma”. Insomma, giustamente asserisce la Nostra, non basta certo “scrivere bei pensieri per fare poesia”, poiché “la forma da sola conta poco, così come conta poco un buon contenuto in assenza di una buona forma”, e, nelle mani di un sapiente cesellatore, “anche la forma è contenuto”, osserva la Stefanelli addentrandosi in un’ esemplare analisi di alcuni versi della famosa lirica del Pascoli "X agosto". E ancora: “È un operaio, il poeta, che ha imparato il valore della duttilità della parola e la forgia secondo la sua visione, il suo sentire”. Il riferimento a Majakoskij, citato in altro àmbito, è chiaro: in Il poeta è un operaio, il cantore della Rivoluzione Russa arriva a paragonare anche nel lessico il lavoro del poeta a quello dell’operaio negli altiforni: “Noi limiamo i cervelli / con la nostra lingua affilata”. Far leva sul pensiero anche attraverso la forma, qualcosa di simile all’oraziano "labor limae", sia pure in chiave moderna, è lo stesso concetto che animò, in altra temperie letteraria, Garcìa Lorca : “Se è vero che sono poeta per grazia di Dio -o del demonio- altrettanto vero è che lo sono per grazia della tecnica e dello sforzo”, rivela il grande autore spagnolo, non senza però tralasciare “di rendersi perfettamente conto di cosa sia una poesia”. E riguardo invece a cosa sia, o possa essere, “la” poesia, Patrizia Stefanelli ci propone, nel titolo del suo articolo, la splendida definizione di "locus mobilis" desunta dal concetto di critica teatrale del suo ex professore di storia del teatro Raimondo Guarino. Una sollecitazione affascinante, soprattutto in considerazione dell’involucro formale in versi del teatro delle origini in ogni civiltà letteraria.


    Angela Ambrosini

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