2023 BLOG VERSANTE RIPIDO —
A tentoni nel buio di Paolo Polvani | Tutto è mistero. Alcune domande a
Giancarlo Baroni a proposito del libro Come lucciole nel buio. Dieci
riflessioni sulla vita e sulla letteratura, puntoacapo
editrice2022, e A occhi aperti sogno di essere
un castoro. Alcune cose che posso dire di me, puntoacapo ed. 2023
Gli argomenti di questa raccolta di brevi saggi e riflessioni dichiarano una passione per la lettura e per lo studio della letteratura, per la sua intima essenza, che ha attraversato tutta la tua esistenza. Come nasce Come lucciole nel buio?
Il senso della vita, la conoscenza, l’inesorabilità del tempo e
l’ineluttabilità della morte, la memoria e i suoi guasti, la menzogna creativa
della letteratura, la passione-ossessione per i libri e per la poesia, la
fatica dello scrivere e la necessità di farlo, il rapporto con la realtà,
eccetera. Temi su cui ragiono e medito da decenni.
A 70 anni ho sentito e capito che era arrivato il momento di mettere tutti
quei pensieri su carta dando loro una forma quasi definitiva. Come lucciole nel
buio nasce da lontano ma subisce una accelerazione relativamente recente. Mi
spiego meglio.
Ho l’abitudine di sottolineare i libri che leggo e di riportare sul
frontespizio le pagine che mi hanno coinvolto e interessato maggiormente
indicando con una parola l’argomento di cui trattano. Durante la pandemia,
nell’isolamento di casa, ho risfogliato i volumi della mia libreria alla
ricerca di una frase, di una storia, di un verso memorabili, e soprattutto alla
scoperta di un brano che potesse servirmi, stimolarmi, illuminarmi. Il mio
lavoro e il mio progetto crescevano lentamente e si definivano con più
chiarezza: le “lucciole” cominciavano a illuminare i fogli che scrivevo e i
miei pensieri. Inoltre, come un archeologo e investigatore, esploravo i
cassetti della scrivania sperando di trovare qualche appunto prezioso
dimenticato dentro a una carpetta trascurata. Infine è arrivato il momento
della sintesi, indispensabile per non farsi travolgere dall’accumulo di
dettagli.
Nelle Note di Come lucciole nel buio con un pizzico di autoironia scrivo: «Cari lettori, qui trovate buona parte di quello che ho imparato. È poco a settant’anni? Un proverbio dice: “piuttosto che niente (è meglio) piuttosto”».
Questo titolo esprime
molto bene il senso del libro. Raccontaci il percorso che ti ha portato a
sceglierlo.
Cito a questo proposito un brano de libro che mi sembra particolarmente esplicito
e significativo:
«Ci sono dei momenti, degli istanti in cui proviamo la sensazione di essere
vicini alla verità: una intuizione come un lampo, una visione magica di
qualcosa di più profondo e di più nascosto. Come i bagliori delle lucciole rimandano
a una luce primigenia da cui sembrano originare, così le nostre illuminazioni
passeggere sembrano per un attimo collegarsi a una verità più ampia e
universale. Cerchiamo di afferrare quelle intuizioni e trattenerle, ma di
solito riottose sbiadiscono come al risveglio certi sogni che durante la notte
ci erano apparsi incredibilmente nitidi».
I nostri occhi sono cannocchiali puntati sul buio.
Una citazione di T. S. Eliot a
pagina 22: «ho cercato di precisare l’importanza del rapporto tra un componimento
poetico e i componimenti poetici di altri autori, e ho proposto il concetto di
poesia come unità vivente di tutta la poesia che sia mai stata scritta»; questa
frase nobilita e giustifica il lavoro dei tanti poeti destinati a rimanere
nell’ombra, nonostante i loro risultati siano decorosi e a volte molto buoni.
Condividi quanto affermato da Eliot?
Sarò sincero, anche a costo di sembrare ingenuo. Mi sento partecipe di una
vasta comunità che comprende scrittori, artisti e poeti scomparsi, ancora in
vita, non ancora nati, famosi e poco noti; sensazione che mi fa sentire meno
solo e isolato.
Credo che ogni libro pubblicato entri a fare parte di una rete e stabilisca dei contatti con le opere che lo hanno preceduto, che lo circondano e che seguiranno; un libro non è un corpo autosufficiente e separato.
Trovo molto interessante
l’affermazione secondo la quale la figura retorica che meglio rappresenta la
letteratura è l’ossimoro. Puoi chiarirne il significato?
Scrivere per me è piacere e allo stesso tempo fatica, è una “incerta
beatitudine”. Alla fine di una delle dieci riflessioni intitolata “La faticosa
necessità della scrittura”, dopo avere raccolto su questo argomento
testimonianze, dichiarazioni e confessioni di diversi scrittori ed essermi
immedesimato in loro, dico: «La scrittura si presenta contemporaneamente
come sofferenza e piacere, malattia e terapia, vizio e virtù, condanna e
salvezza, schiavitù e libertà. La figura retorica che meglio la rappresenta non
è l’antitesi ma l’ossimoro. Mentre la prima affianca due termini opposti, il
secondo ne tenta una sintesi paradossale, ingegnosa e intuitiva. Grazie
all’ossimoro possiamo definire la scrittura per esempio una necessità faticosa,
un piacere tormentato, una disperazione allegra e in qualunque altro modo
adeguato. A cominciare da “doloroso amore”, l’ossimoro che Umberto Saba, in una
lirica pregevole dedicata all’avventuroso e contraddittorio Ulisse, riferisce
alla vita e noi estendiamo alla letteratura».
Cito dal tuo libro:
«Fra le diverse inquietudini che affliggono gli scrittori ce n’è una
particolarmente pungente, una specie di perenne malcontento che li spinge a
migliorare, correggersi, competere, una scontentezza che li trascina verso una
condizione d’insaziabilità».
Scrive nel 1926, in Come far versi, Vladimir Majakovskij: «Cammino,
gesticolando e gorgogliando appena, senza parole quasi: ora rallento il passo
per non turbare il gorgoglìo, ora grugnisco più in fretta al ritmo dei miei
versi. Così si pialla e prende forma il ritmo, fondamento di ogni opera
poetica, ch’esso percorre tutto come un rimbombo. A poco a poco dal rimbombo si
comincia a estrarre le parole. Alcune parole fanno semplicemente uno scarto e
svaniscono per sempre; altre invece indugiano, girano e rigirano decine di
volte, fino a che non si sente che la parola ha trovato il suo posto…Quando
l’essenziale è ormai pronto, si ha di colpo la sensazione che il ritmo sia
spezzato: manca una sillaba, un suono. Si rifanno allora tutte le parole, e il
lavoro vi precipita in una condizione di delirio esasperato. Quasi vi
applicassero, per la centesima volta, su un dente una corona che non vuole
reggere! Alla fine, dopo cento riprove, va a posto! La somiglianza è per me
aggravata dal fatto che, quando infine la corona va a posto, i miei occhi
stillano lacrime…di dolore e di conforto».
Questa confessione mi ha un poco stupito, in Majakovskij mi aspettavo
furori ideologici anziché stilistici, un’attenzione acuta al ritmo della vita
piuttosto che a quello del verso. Ma tanti poeti, me compreso, hanno provato
sulla propria pelle cosa significa questa insoddisfazione, questa inquietudine
che ha dei risvolti maniacali e dolorosi, e sanno quanta concentrazione e
quanto sforzo occorrano.
«Una rima che stai per afferrare per la coda, ma di cui ancora non
disponi», confida ulteriormente Majakovskij, «ti avvelena l’esistenza: si parla
senza sapere quel che si dice, si mangia senza sapere quel che si mangia e non
si dorme perché la rima sembra volteggiare dinanzi agli occhi».
Però quanta soddisfazione, gioia e beatitudine quando finalmente affiorano
e sbocciano i versi giusti, proprio quelli che desideravamo comporre.
In un’intervista Brodskij afferma: -Chi ha letto
Dickens difficilmente sparerà al suo vicino -. Pensi anche tu che la letteratura
abbia il potere di migliorare gli esseri umani?
«Scriverò non solo / per non morire, / ma per aiutare / gli altri a vivere»
promette Pablo Neruda in Ode all’invidia.
Ogni scrittore può cercare di aiutare se stesso e i suoi pochi o molti
lettori a migliorarsi, ad essere più autenticamente umani.
Tu hai dichiarato
che se Come lucciole nel buio fosse un disco sarebbe la
facciata A e invece A occhi aperti sogno di essere
un castoro ne costituirebbe la facciata B. Puoi chiarire questa
affermazione?
Alle soglie dei miei 70 anni (sono nato il 28 marzo 1953), puntoacapo ha
gentilmente pubblicato, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, i due libri.
Li considero due testimonianze autonome ma complementari, distinte ma
inseparabili. Nella prima (Come lucciole nel buio) prevale la riflessione,
nella seconda (A occhi aperti sogno di essere un castoro) invece
l’emozione; nella prima parlo della vita, nella seconda della mia vita:
ragionamento e confessione si integrano senza fondersi. Si potrebbe immaginare
Come lucciole nel buio e A occhi aperti sogno di essere un castoro
non come due libri distinti ma come le facciate A e B dello stesso 45
giri.
Perché ho sentito la necessità di scrivere e pubblicare quasi
contemporaneamente questi due testi e soprattutto il secondo? La risposta più
simpatica me l’ha fornita un amico poeta, Daniele Beghè, riferendomi un
proverbio che gli aveva raccontato la sua bisnonna e che diceva: “Carne giovane
non può star ferma, carne vecchia non può tacere”.
In uno dei capitoli affermi: «I libri che scrivo e le fotografie che scatto mi aiutano a ricordare». Quindi la scrittura come memoria?
La letteratura, intesa nel suo significato più ampio, è uno strabiliante,
gigantesco, straripante e rigoglioso, archivio e scrigno di storie e ricordi,
di sogni e racconti, di realtà vere e immaginate. Senza la letteratura ci
sentiremmo più fragili e abbandonati, ci sentiremmo privati di una parte
essenziale della nostra memoria.
La mia frase si riferisce al primo capitolo di A occhi aperti
sogno di essere un castoro, capitolo intitolato I guasti della memoria dove
racconto, in maniera anche ironica e spero divertente, la mia frequente
smemoratezza, le mie quotidiane dimenticanze e distrazioni. È allora scrivo:
«Insomma tendo facilmente a dimenticare, per ogni ricordo che entra un altro
abbandona l’archivio della mia memoria; un archivio-magazzino stipato e poco
capiente. I libri che scrivo e le fotografie che scatto mi aiutano a ricordare.
I libri trattengono e fissano sulle pagine pensieri, sentimenti e riflessioni;
le fotografie (fotografare è meno di una passione ma più di un passatempo)
custodiscono immagini, soprattutto di luoghi, che altrimenti
sbiadirebbero».
«Nelle mie poesie non gradisco raccontare in modo
esplicito di me», mi sembra una bella dichiarazione di poetica in un tempo in
cui molti non fanno che circoscrivere il racconto al proprio ombelico.
Nello stesso capitolo dedicato alla memoria completo la citazione
precedente rivelando che «Nelle mie poesie non gradisco raccontare in modo
esplicito di me, preferisco parlare di altre persone e personaggi, stabilire
con loro un contatto, una relazione e uno scambio, riferire storie e vicende
che li riguardano, mimetizzarmi e mettermi nei loro panni, guardare il mondo
attraverso i loro occhi e farli esprimere direttamente. La mia carente e
lacunosa memoria mi spinge probabilmente a immedesimarmi in loro. Possono
essere viaggiatori ed esploratori (come Marco Polo), eroi del mito (come
Ulisse), scienziati (soprattutto Darwin), una serie di pittori (da Masaccio a
Basquiat), singole persone comuni, come un’anonima signora affacciata alla
finestra e alle prese con il rito quotidiano del caffè. Con l’avanzare degli
anni, però, è riaffiorata l’urgenza di dire io, di parlare anche di me, di
rivelare ciò che è possibile confidare».
Una mia raccolta, intitolata Contraddizioni d’amore e pubblicata nel
1998, si chiudeva con questi versi (un omaggio ad Antonio Porta): «Sparisca il
poeta-io nel gesto conservando / tuttavia logica e stile […]». Una scelta
che riguardava esclusivamente me e quanto e come avevo intenzione di raccontare
in versi, che orientava il mio percorso senza ingabbiarlo. L’ho rispettata per
un quarto di secolo ma ora desidero dire io senza eccessivi pudori e ritrosie.
Nel capitolo finale di A occhi aperti sogno di essere un castoro dichiari che tutto è mistero. Affermazione sicuramente affascinante, come sei arrivato a questa conclusione?
Sia nel primo capitolo di Come lucciole nel buio sia, più dettagliatamente,
nel capitolo conclusivo di A occhi aperti sogno di essere un castoro
parlo di mistero. Immagino in entrambi i casi che, prima della partenza
definitiva e degli addii, vengano dati a ciascuno di noi un foglio e una
matita, oppure una lavagnetta e un gessetto, e ci venga chiesto di scrivere la
parola o la breve frase che riteniamo fondamentali per comprendere la vita, le
cose, il mondo, l’universo. Restituiremmo il foglio pulito e intatto o emergerebbe
una parola che riteniamo decisiva?
Per quanto mi riguarda «Dopo essermi interrogato e avere abbastanza
riflettuto, ho capito soddisfatto – probabilmente parecchi altri l’avranno
usata – che avrei restituito la mia lavagnetta con una frase, esattamente
questa: “Tutto è mistero”. Indecifrabili la nascita e la morte, l’universo e
gli universi, l’aldilà e l‘infinito […] A volte fantastico di salire sopra
un’astronave che, violando le leggi della fisica, viaggia a una velocità
decisamente superiore alla luce. Dopo avere percorso uno spazio inaudito in un
tempo relativamente breve, raggiungo finalmente il cuore e il centro del cosmo.
Il suo volto oscurato dalle tenebre oppure irradiato da una luce abbacinante.
Se avessi la possibilità di interrogarlo chiedendo quali sono la sua essenza,
il principio, la causa, il nucleo primordiale occultato nei suoi inesplorabili
meandri, mi viene il sospetto che risponderebbe “non lo so”. Credo che neppure
l’universo conosca fino in fondo e distintamente se stesso; mi convinco sempre
più che il mistero non sia il prodotto dell’ignoranza e dei limiti umani ma la
sostanza insondabile e ineffabile che anima, nutre e feconda il mondo.
Il mistero è l’invisibile senza il quale il visibile non esisterebbe, è un
enigma sconosciuto anche a se stesso; ha a che fare con la paura vertiginosa
dell’ignoto e con il miracolo stupefacente dell’esistere».
Giancarlo Baroni abita a Parma, dove è nato, nel 1953. Ha pubblicato due romanzi brevi, racconti, un testo di riflessioni letterarie e sette libri di poesia. Le ultime tre raccolte di versi: I merli del Giardino di san Paolo e altri uccelli (Mobydick editore, 2009; nuova edizione illustrata e ampliata, Grafiche STEP Editrice, 2016, prefazioni di Pier Luigi Bacchini e Fabrizio Azzali), Le anime di Marco Polo (Book Editore, 2015), I nomi delle cose (puntoacapo, 2020). Ha coordinato, assieme a Luca Ariano, l’antologia Testimonianze di voci poetiche. 22 poeti a Parma (puntoacapo, 2018).
Il Dizionario critico della poesia italiana 1945-2020,
curato da Mario Fresa e pubblicato nel 2021 dalla Società Editrice Fiorentina,
contiene una scheda critica scritta da Giuseppe Marchetti; è inoltre presente
nel saggio di Paolo Briganti, Dopo l’Officina Poesia da ieri
a oggi (Storia di Parma, Le lettere, Monte Università Parma
Editore, 2012). Nel 2009, 2010 e 2011 ha letto a «Fahrenheit» (Rai Radio
3) diverse liriche, alcune in occasione del Festival della Filosofia di Modena.
Ha scritto quasi trecento
recensioni, la maggior parte pubblicate nella pagina culturale della «Gazzetta
di Parma» a cui ha collaborato per vent’anni. Sue poesie sono presenti in siti,
blog, riviste cartacee e on line, antologie. Un’ampia scelta di versi si trova
in «Ossigeno Nascente. Atlante dei poeti contemporanei». Sul sito «Italian
Poetry» le poesie sono accompagnate da una traduzione in lingua inglese
del poeta Max Mazzoli. Diverse altre sono state tradotte in francese, in blog
riviste e antologie, dalla poetessa Marilyne Bertoncini.
Sulla rivista on line «Pioggia
Obliqua. Scritture d’arte» cura una pagina intitolata Viaggiando in Italia; collabora a «Margutte.
Non-rivista on line di letteratura e altro». Suoi testi e foto sulle città
italiane appaiono sulla rivista cartacea «dalla parte del torto».
Poeta per passione e fotografo
per diletto, ha pubblicato, fuori commercio, quattro piccoli libri
fotografici: Sguardi dell’arte, Bologna, Due volti di Parma e Foglie senza rami. Del 2020, anch’esso fuori commercio,
è il volume di poesie e fotografie Il colore del tempo (Quaderni
della Fondazione Daniele Ponchiroli, a cura di Gabriele Oselini, prefazione di
Fabrizio Azzali).
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