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giovedì 9 maggio 2024

Angela Ambrosini :"Divagazioni Sulla Metapoesia"


 

Quel peculiare risvolto della poesia che attua una riflessione in fieri sulla poesia stessa, la metapoesia, affiora sia pur di nicchia (ma più spesso di quanto si possa immaginare) in un percorso trasversale a ogni cultura e procede da molto lontano, laddove la proprietà di “riflessione” si dilata nella duplice accezione del termine, sia inteso come consapevolezza cognitiva che come sdoppiamento, riproduzione verbale autoreferenziale di un aspetto del poiein. A volte il poeta si pone domande sulla propria identità di “poeta”, come nel conosciutissimo scanzonato verso di Aldo Palazzeschi che nella poesia Chi sono? (in Poemi, 1909) risponde a sé stesso “Il saltimbanco dell’anima mia”, prendendosi indirettamente gioco della Desolazione del povero poeta sentimentale di Sergio Corazzini che affermava, negando apofaticamente, “Io non sono un poeta”. In entrambi i casi, il poeta “specula”, riflette cioè su sé stesso e sul proprio ruolo. Come la lingua attraverso la grammatica indaga su sé stessa, dando origine al “metalinguaggio”, così ai poeti di ogni epoca e latitudine piace ogni tanto guardarsi allo specchio per riflettere sullo stesso genere letterario di cui sono agenti attivi. E la nota di rilievo è che tale auto-osservazione non si esplicita in prosa critica (come parrebbe più logico), ma in poesia stessa. Nel caso del succitato Palazzeschi l’intento è di dichiarata giocosità, quasi un’eco del giullare medioevale, sia pur specificando di voler “mettere una lente davanti al cuore per farlo vedere alla gente”. Torniamo all’immagine dello specchio, lo speculum, strumento per esplorare, anche in ambito medico, cavità altrimenti inaccessibili. A proposito del simbolo dello specchio, un paragone forse ardito, ma plausibile, si potrebbe instaurare mutatis mutandis con il famoso quadro Las meninas di Velázquez la cui figura campeggia mentre dipinge nel suo laboratorio personale alla Corte di Re Filippo IV, riflesso invece in uno specchio in secondo piano insieme alla Regina Marianna d’Austria. La critica ipotizza che a sua volta lo stesso pittore di corte sia riflesso in uno specchio immaginario situato al posto dell’osservatore per realizzare un autoritratto in modo da esaltare non solo la personalità di colui che ritrae la coppia reale, cioè il pittore stesso, ma persino quel processo pittorico del caos compositivo in cui è immersa la scena, una delle inquadrature più innovative e anomale della storia della pittura, soprattutto se pensiamo all’anno di composizione, 1656. Ma è proprio questo caos che innesca uno stupefacente gioco prospettico tra il pittore, l’osservatore e i personaggi del dipinto.  Il concetto di caos, cardine del barocco, concorre a riformulare in altri termini il processo artistico interiore che conduce al Cosmos, all’ordine del risultato finale nel quale anche ogni poeta di ogni epoca spesso si dà uno scopo quando non una specie di programma. Ricordiamo il celebre verso Hominem pagina nostra sapit, (“la nostra pagina sa di uomo”) con cui Marziale (40 d.C.) rivendica l’impegno etico e sociale dei suoi Epigrammi poetici dopo i vagheggiamenti e vaneggiamenti mitologici della fase dei “mostri”. Nella storia della nostra letteratura, il primo conosciutissimo esempio di rudimentale metapoesia in lingua volgare è l’Indovinello veronese (XI sec.) che, in una catena di metafore a visualizzare dita, penna, pagina bianca e inchiostro, (il “seme nero”), allude comunque solo all’aspetto materico della scrittura, tipica dell’amanuense. (Se pareba boves, /alba pratalia arabat/et albo versorio teneba/et negro semen seminaba”, cioè “anteponeva a sé i buoi, /bianchi prati arava, /un bianco aratro teneva/ e un nero seme seminava).  Ma, a parte questo caso storicamente noto per una datazione più o meno attendibile della comparsa del volgare in Italia, ovviamente l’attenzione di chi scrive si focalizza più spesso sulla funzione della poesia e del poeta. Esistono varie modalità di approccio metapoetico di cui sarebbe davvero interessante fare una rassegna ampia, ma ora limitiamoci ad alcune tra le più originali, anche se non tutte esattamente “poetiche”, come il tono precettistico di Tristan Tzara in Per fare una poesia dadaista: “Prendete un giornale. /Prendete un paio di forbici./Scegliete nel giornale un articolo…./Ritagliate l’articolo/…/Agitate dolcemente ecc. ecc.”. Altre volte il tono si fa declamatorio, come nella celebre Art poétique nella quale Verlaine, inaugurando la stagione simbolista all’insegna della musicalità, si scaglia contro la retorica: “Prendi l’eloquenza e torcigli il collo!”. In altri autori emerge la modalità esplicativa. Pensiamo a Vladimir Majakovskij, il poeta della Rivoluzione russa, che in Il poeta è un operaio paragona anche nel lessico il lavoro del poeta a quello dell’operaio negli altiforni: “Noi limiamo i cervelli / con la nostra lingua affilata”. Quasimodo si definiva in tono più intimista “Uno come tanti, operaio di sogni” (in Epitaffio per Bice Donetti). L’opera di Quasimodo offre una messe di sottili richiami metapoetici, spesso ad alto indice di metaforicità, per cui a una prima lettura il significato metapoetico rimane non immediatamente percepibile. Citiamo il bellissimo verso “Tu ridi che per sillabe mi scarno”, nel quale il poeta (nella lirica non a caso intitolata Parola, tratta da Oboe sommerso) afferma proprio quel processo di scarnificazione che dal caos si placa nel cosmos della creazione poetica. La stessa immagine dell’oboe rimanda metaforicamente alla poesia il cui suono “sommerso” va esplicitato e tratto alla luce dall’inconscio. Celeberrima è la lirica Alle fronde dei salici (dalla raccolta Col piede straniero sopra il cuore) di ispirazione etico-civile, elemento tematico ravvisabile anche nel passaggio formale dall’io della fase ermetica al “noi” che evoca l’Italia dell’occupazione nazista. Tuttavia, solo dopo una lettura attenta della breve lirica, se ne percepisce la valenza interamente metapoetica, evidenziata dal celeberrimo incipit “E come potevamo noi cantare…?” , con cui il poeta si discolpa per il lungo silenzio poetico negli anni drammatici del secondo conflitto mondiale, utilizzando questa volta lo strumento musicale della cetra, simbolo della poesia classica, come elemento-lessema di aperta intertestualità con il famoso lamento biblico 137 degli ebrei in esilio a Babilonia dopo la caduta di Gerusalemme: “Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre”. In un altro testo autoreferenziale, metapoetico, meno conosciuto, Quasimodo torna al concetto di “scarnificazione”, cioè sostanzialmente di labor limae in senso sottrattivo, consustanziale all’equilibrio nel genere poetico: Ma se scarnire non sapevo un tempo / la voce primitiva ancora rozza, /avidamente allargo la mia mano: /dammi dolore cibo cotidiano” (da Avidamente allargo la mia mano, in Ed è subito sera). Affiora con prepotenza la relazione necessaria e diremmo quasi religiosa, tra la poesia, quella autentica, e il dolore. “Dammi dolore cibo cotidiano” suona quasi come una parafrasi del Padre Nostro e in questa “necessità” del dolore quale seme della creazione poetica, sembra fargli eco la poetessa Alda Merini nei suoi versi “Le più belle poesie/si scrivono sopra le pietre/coi ginocchi piagati/ e le menti aguzzate dal mistero”.  Il senso esperenziale del mistero si ravvisa nella parola “abisso” evocata da Ungaretti con il suo quid di inesplicabile, irraggiungibile aderenza alla realtà. Ogni poeta che non si limiti a una modalità puramente ornamentale, araldica e sensoriale della poesia sperimenta un senso di inadeguatezza della parola. Sono certa che molti di noi che scrivono avranno in un certo senso “patito” questa sensazione. Arriva un momento in cui chi scrive si guarda in questo specchio interiore di cui dicevamo e inizia a interrogarsi sul senso della propria scrittura. C’è sempre qualcosa che non salda compiutamente il significante al significato; chi nutre una concezione consapevole e non epidermica della poesia sa che sovente qualcosa sfugge alla parola. Di qui la famosa invocazione del poeta spagnolo Juan Ramón Jiménez che si rivolge implorante alla “intelligenza” (che altro non è che il Logos, opposto al semplice abbinamento significante-significato) “Intelligenza, dammi / il nome esatto delle cose! / Che la mia parola sia / la cosa stessa”. Simile senso di impotenza, ma amplificato e sperimentato difronte alla visione divina, era stato motivo di cruccio in Dante che nel canto 33 del Paradiso esclama “Ormai sarà più corta mia favella” (vv 106-108) rammaricandosi (121-122) “Oh quanto corto è il dire e come fioco/ al mio concetto”, consapevole del misero tentativo di dire in modo comprensibile ciò che è ineffabile. È un esempio del cosiddetto sublime rovesciato mediante il quale ciò che è smisurato si manifesta nel parlare semplice. In un altro celebre caso, quello di Montale in Ossi di seppia, affiora la modalità metapoetica in negativo “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco/ lo dichiari e risplenda come un croco/ perduto in mezzo a un polveroso prato/…/ Non domandarci la formula che mondi possa aprirti/…/ Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Altrove Montale scrive che “la poesia non è fatta per nessuno, /non per altri e nemmeno per chi la scrive. /Perché nasce? Non nasce affatto e dunque/non è mai nata. Sta, come una pietra, / o un granello di sabbia. Finirà / con tutto il resto” (da Asor in Diario del ’71 e del ‘72)

Nella poesia contemporanea si avverte spesso infatti un senso di spersonalizzazione, già da Thomas Eliot enunciato come motore della vera poesia. La poesia non è un modo di liberare l'emozione, ma una fuga dall’emozione; non un’espressione della propria personalità, ma una fuga dalla personalità. Ma, naturalmente, solo coloro che hanno personalità ed emozioni sanno cosa significa voler fuggire da queste cose” (dal saggio Tradizione e talento individuale). Scrivere poesia, vera poesia, per il grande poeta statunitense non equivale a esaltare l’io, ma a fuggire da esso, non ad esprimere la propria interiorità, ma ad anelare all’universalità evitando quindi le emozioni, non rincorrendole (Eliot ricorre ai termini dry hardness, asciutta durezza). Borges addirittura, da parte sua, nel suo amore per il paradosso, arriva a dire che la vera poesia è impersonale. Avvicinandoci al nostro tempo, il Premio Nobel della letteratura 2012, lo svedese Tomas Tranströmer annota: “Stupendo sentire come la mia poesia cresce/mentre io mi ritiro. / Cresce, prende il mio posto./ Si fa largo a spinte. /Mi toglie di mezzo./ La poesia è pronta.” Si celebra così l’autosufficienza della poesia rispetto alla stessa volontà del poeta, incapace a contenerne tutta la portata.

Il grande poeta francese Yves Bonnefoy, profondo conoscitore e traduttore di Shakespeare, ben conosceva l’inadeguatezza della parola a colmare lo scarto semantico non solo tra una lingua e l’altra, ma anche in ambito intralinguistico, il divario tra ciò che si desidera esprimere e ciò che invece rimane imbrigliato dalla e nella parola. Nei bellissimi versi di Le nostre mani nell’acqua ripropone il motivo di questa insoddisfazione atavica che il linguaggio consegna all’uomo nella sua ansia conoscitiva: “Noi immergevamo le mani nel linguaggio, / vi afferrarono parole delle quali non sapemmo/che fare, non essendo che i nostri desideri. / Noi invecchiammo. Quest’acqua, nostra trasparenza. /Altri sapranno cercare più nel profondo / un nuovo cielo, una nuova terra”.

A voler ribadire questo senso di impotenza nel tematizzare perfettamente il reale, concludiamo il nostro breve percorso sdrammatizzandolo, così come lo avevamo iniziato, con altri versi scanzonati, questa volta di Giorgio Caproni: “Buttate pure via/ ogni opera in versi o in prosa/nessuno è mai riuscito a dire/ cos’è, nella sua essenza, una rosa” (Elogio della rosa)

Angela Ambrosini

 

 

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