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lunedì 10 giugno 2024

Luisa Martiniello legge :" Servi e Satrapi " di Raffaele Bussi, Marcianum Press, Venezia, 2023

 

La prima nota amara e filo rosso di questo romanzo è data dalla citazione di Gramsci ad esergo: L’illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la Storia insegna, ma non ha scolari.

Il protagonista è l’anziano Nikolaj Smirnov, sagrestano della Basilica di Santa Sofia a Kiev, che conduce il lettore a ripercorrere la sua esistenza tra rammarico per il passato e la paura per il futuro, a stargli a lato mentre lascia la sua terra per accompagnare chi sta per fuggire dalla guerra, profughi del suo paese alla volta dell’abbazia benedettina di Plankestetten in Baviera, nella speranza di un rapido ritorno: il rischio della morte è meno pesante della condizione di fuggitivo.

I termini fuga, fuggitivi, esilio connotano le pagine dense di angoscia, ma anche di speranza, se si ricorda, come fa Padre Beda, in quanti esili e fughe ha navigato anche il figlio di Dio per portare a termine la sua missione.

Attraverso gli occhi di Nikolaj con le nubi accarezziamo la cupola centrale, della Basilica di Santa Sofia, dorata per ricordare il Nazzareno e le dodici di color verde cobalto associate ai dodici apostoli. L’autore non può fare a meno di annotare che gli arabeschi non hanno confini da violare, né frontiere da abbattere e sono proprio queste nuvole che nel penultimo capitolo tornano ad essere citate, dopo la visita al Tribunale di Norinberga, quali bellezze del creato , perché molte volte l’anziano volge lo sguardo fiducioso al cielo: mi intrigano le loro danze, il loro muoversi in libertà senza condizionamenti, ignorando confini che lassù non offuscano la vera libertà, quella che il povero umano richiede per una dignità perduta.

Il termine confini è la chiave di lettura del romanzo, giacché, violati i confini dal satrapo di turno, nuovamente l’Europa assiste ad orrori, che macchiano le coscienze. E il passo dal Vangelo secondo Luca, letto dal Rettore della basilica, … si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno …., rimanda per analogia alla situazione che vive il popolo ucraino, quale solo ultima delle violenze subìte. Il Rettore parla, ai profughi prima della partenza, di satrapi odierni, che hanno un retroterra antico, un elenco interminabile di violenze per impossessarsi della terra altrui. Hanno creato le Nazioni…mentre l’intenzione del buon Dio nell’atto della creazione era quello di dar vita ad un popolo che potesse vivere in armonia, senza confini e steccati, quasi degli apolidi.

I termini globalizzazione, libero mercato, inclusione, accoglienza, rispetto delle diversità e multiculturalismo ci avevano abituato a pensare a una terra comune, a voli liberi tra meridiani e paralleli solo fittizi e invece Nikolaj, novello Foscolo, teme di lasciare le sue spoglie in una terra non straniera, ma che non è la sua, è attanagliato da quel nòstos, quella nostalgia, ovvero quel dolore del ritorno, mai sopito in quanti sono stati e sono ancora vittime del dittatore di turno.

Nel capitolo Inizia il viaggio i racconti dei compagni diseredati sul treno diretto in Baviera, vengono lasciati sullo sfondo: immagini di palazzi sventrati, fosse comuni, fughe notturne, l’ansia nei rifugi sotterranei, le sirene, perché sono solo occasione per ricordare la fuga del protagonista dal monastero benedettino di Mariupol, prima che arrivassero le truppe di Mosca, che hanno portato via ogni bene, compresi gli oggetti sacri per celebrare l’Eucarestia. Addormentatosi, la surrealtà si impossessa dell’anziano, una figura diafana di nome Mikajl lo condurrà nei luoghi del dolore, dove sono stati commessi i delitti più atroci, per comprendere il nuovo disastro. Ed ecco l’udito sollecitato dai salmi che provengono da chiese e cattedrali della Polonia, a ricordo di chi ha subito l’invasione dell’esercito tedesco prima e sovietico poi: da un lato lo sterminio nei campi di concentramento, dall’altra “la campagna di liberazione”. Nikolaj è condotto di fronte alla cattedrale di San Giovanni Battista dove riposa il cardinale Wyszyziski e qui come a Danzica, Cracovia c’è gente che invoca e

prega tra un mare di lacrime: è il dolore di un popolo che non vuole e non può cancellare la memoria. E poi di fronte a un altro inferno in terra: il carcere centrale di Budapest in Ungheria, lì fu portato nel ’58 Imre Nagy e vi fu giustiziato, era stato nominato primo ministro dal partito dei lavoratori a seguito di una rivolta contro la dittatura di Ràkosi; e poi Praga per far rivivere per pochi attimi la fatidica “Primavera”, e poi il muro di Berlino con il suo crollo festoso, mentre nuovi venti di guerra dilaniano il popolo iugoslavo.

L’autore, seppure dovizioso di particolari, in una dosata sinteticità, ripercorre le tragedie che hanno costellato di fili spinati, morti cruente, strani incidenti la storia più recente, risvegliando e rendendo compartecipe delle ansie della storia il lettore, che scopre gradualmente, ma inesorabilmente che esistono purtroppo servi e satrapi, che il potere di pochi “folli” annichilisce i più, ma è pur vero che sempre qualcuno prende il vessillo caduto della libertà e osa sfidare il terrore di turno e innalzarlo, perché altri lo seguano e di qui il risorgere anche dalle polveri chiese, abbazie, come quella che ospiterà Nikolaj, Plankestetten, distrutta nella Guerra dei Trent’anni e riedificata dai fedeli.

Nel capitolo Alla volta di Norimberga la visita al tribunale dà l’occasione di ripercorrere altre tappe significative. La sala 600 vide condannati i rappresentanti di quella classe dirigenziale nazista nei settori diplomatico, economico, politico e militare al termine di una guerra che aveva procurato 55 milioni di morti, 35 milioni di feriti. Chi, si chiede Nikolaj, giudicherà i vincitori del conflitto? Sia Roosevelt che Churchill sapevano chi fosse Stalin, che era al tavolo sia della Conferenza di Teheran, che di Yalta, chi giudicherà Truman per quel fungo atomico, mentre l’imperatore nipponico stava trattando?

L’autore attraverso un fitto scambio di vedute tra l’anziano e Don Beda, opera una disamina di quanto accaduto dopo la creazione delle due zone di influenza: si rammenta Breznev per una strategia permanente di prudenza in politica estera, per l’interruzione della ricerca di dialogo con l’occidente; Gorbaciov , quale fautore, invece, di una politica di avvicinamento, che negoziò la fine della guerra fredda, la caduta del muro di Berlino, il disarmo nucleare e il ritiro dall’Afganistan; il crollo dell’URSS nel ’91; Eltsin che affida il potere a Putin, che se fosse stato uno statista avrebbe dovuto far sua l’idea di Gorbaciov di portare la Russia in Europa. Nikolaj rammenta l’uccisione di Allende da parte di Pinochet, i 35 mila oppositori di Vileda spariti nel nulla, le madri di Plaza de Mayo; il regime teocratico dell’Iran degli Ayatollah. La rassegnazione si fa largo nel cuore di Nikolaj: non è possibile cambiare un mondo che da sempre ha prodotto nefandezze andate poi nel dimenticatoio, per mantener saldo il gioco del potere nelle mani dei satrapi, ai danni dell’umanità ridotta al rango di servi. Ma prenderne atto non significa arrendersi… è un dovere per chi si batte per i diritti negati contribuire allo sforzo di rendere meno pesante il fardello di un mondo squilibrato.

Ritornare è perentorio, dopo che si fugge da una vita per decisione altrui, con la speranza nel cuore che la volta celeste non sia ancora arrossata e trovare pace nella terra degli avi.

Si prende atto che l’esilio è una condizione dell’umanità, ma anche necessario non trascurare le radici dell’esistenzialità che dovrebbe unire i popoli piuttosto che armarli l’uno contro l’altro.

Il diafano riporterà Nikolaj tra i suoi conoscenti, parenti, ma il sogno cede il passo alla cruda verità: il suo paese è un sepolcreto, le persone incontrate sono morte: marciano in processione con il rosario tra le mani invocandola misericordia divina.

Nell’ultimo capitolo Il ritorno a Kiev si assiste ad un prodigio divino, sia l’anziano Nikolaj Smirnov che Don Beda incontrano il diafano che viene riconosciuto come l’arcangelo Michele, che issa la spada per combattere il maligno e ricacciarlo nelle viscere della terra, e ha la bilancia nell’altra mano per soppesare gli uomini e decidere se consegnarli alla misericordia divina o destinarli all’eterna dannazione.

La speranza è che gli uomini acquisiscano consapevolezza che prioritario è salvare il pianeta, che il male si può sconfiggere educando alla salvaguardia dell’umanità, al consorzio di affinità elettive, alla rispetto dell’Amore che risplende al di sopra di ogni confuso libero arbitrio.

La speranza e la preghiera offrono spunto di riflessione: il bene non ha prezzo, basti pensare al sacrificio di Cristo per la salvezza dell’umanità, al riscatto dalle tenebre.

Non vorremmo che le pagine del giorno fossero macchiate da altro sangue fraterno, che la conta diventi freddo report statistico, grafico di alti e bassi passaggi di alterne decisioni, prese al tavolo di turno, che i giornali riportino foto di nuovi satrapi, che il male diventi pane quotidiano. Non vorremmo che solo la descrizione particolareggiata su pagine ingiallite ci dia la descrizione di luoghi architettonicamente spettacolari, vittime anch’essi della furia sgretolatrice del nulla che si siede:

Non diventi

polveroso frammento

quanto edificato.

Luisa Martiniello

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