Ho ricevuto in dono un affascinante saggio scritto a quattro mani da Stefano Orlando Puracchio, che abbiamo avuto la gioia di premiare al “Voci”Città di Roma 2023, e dal napoletano Andrea Parente. L’opera, che si intitola “Multiforme ingegno” - Attila Zoller e il jazz -, è edita dai tipi della Demian Edizioni, e vuole essere un omaggio al chitarrista
Ungherese,
nato a Visegrad nel 1927. Come precisa, con acribia e competenza, il prefatore
Pietro Condorelli, il musicista magiaro è stato l’esempio dell’artista europeo
che riesce a emergere nel mondo del jazz statunitense nonostante la sensibilità
musicale avulsa dai cliché tipici del linguaggio jazz. In effetti Attila Zoller,
si contraddistingue come musicista vagabondo,
restio a fermarsi nello stesso posto. Vive a Vienna, in Germania e solo nel
1959 si trasferisce negli Stati Uniti, per migrare in Giappone negli anni ’70. Ha
suonato con grandissimi jazzisti e ha avuto allievi di alto rilievo, come Pat
Metheny. La leggenda vorrebbe che si facesse pagare tramite il baratto, ma
Puracchio e Parente non hanno avuto modo di verificare questa storia e un po’ se
ne dolgono, perché arricchirebbe la figura del chitarrista di altri aspetti. Si
tratta, senza dubbio di un uomo dall’ingegno poliedrico, che eccelleva nella
musica, nello sport, nell’amore per il cibo e che tendeva a dare il massimo, ma
non a competere. Si può considerare un raro esempio di artista che ha colto ante
litteram l’etimologia del verbo competere, che significa ‘andare verso,
incontro’. Attila Zoller è una figura straordinaria e non stupisce che due giornalisti
della levatura di Puracchio e Parente abbiano voluto dedicargli questo superbo
tributo. Il testo è corredato di magnifiche foto in bianco e nero e la
copertina è un ritratto del jazzista con la sua chitarra. I saggisti spendono
lunghe affascinanti pagine nella descrizione della cittadina natale del
musicista, Visegrad, e il testo in parte, è strutturato in forma di interviste. La prima
è ad Alicia Zoller, figlia dell’ artista. Apprendiamo che lei respirava
atmosfera di musica in famiglia, in quanto il nonno e il padre erano maestri di
violino. Puracchio le chiede se si è recata in Ungheria per visitare il paese
natale ed ella risponde in modo positivo. D’altronde all’interno della casa
dov’è nato il padre, che oggi, purtroppo, è diventata un ristorante, sono
esposte sue foto e una breve biografia. Gli scatti ci permettono di vedere la dimora
in forma originaria e le immagini alle pareti dell’esercizio di ristoro. Alicia
asserisce che a suo avviso non fu l’avvento del comunismo a determinare la
decisione del padre di lasciare l’Ungheria nel 1948, anche se determinate
notizie hanno sapore di verità se si apprendono dal genitore stesso, non
attraverso il passaparola. Nel Vermont, a Battleboro, Attila Zoller si circonda
di molti musicisti e fonda il Vermont jazz Center. Nel 1997 passa il testimone
al pianista Eugene Uman, che insieme alla moglie, dà continuità al centro jazz.
Stefano Puracchio intervista proprio il successore di Zoller e tra gli altri
quesiti, gli domanda come sia possibile che la fama del jazzista non si sia mai
estesa al pubblico generalista. Il pianista risponde che a suo avviso l’amico,
eclettico, dotato di numerose forme di talento, non era mai andato incontro
alla musica popolare del momento. In effetti Zoller non è stato un chitarrista
tradizionale, tant’è che oggi è considerato un ponte tra lo swing classico e
l’avanguardia. Puracchio si sofferma sul disco “Common Language”, nel quale il
jazzista magiaro decide di suonare con un suo pupillo, Helmut Kagerer,
annullando i ruoli maestro - allievo. L’intervista successiva riguarda proprio
Kareger, che ha ottenuto dall’artista una borsa di studio e lo descrive come un padre spirituale estremamente saggio
ed esigente. Zoller era molto stimato e rispettato dai colleghi e dagli
allievi, tant’è che nel 2015 David Becker ha voluto produrre un album in suo
onore: “Message to Attila”, al quale hanno preso parte musicisti del calibro di
Jim Hall, Pat Metheny e lo stesso Becker. Leggendo il saggio sorge spontaneo
chiedersi come Stefano Orlando Puracchio sia riuscito a ottenere interviste da
personaggi tanto illustri e così lontani geograficamente. Il suo lavoro
monografico si può senza dubbio definire un libro d’arte, non solo perché tratta
di un musicista, ma per dirla con J. Pollock
“per il lavoro teso a esprimere il mondo interiore di un uomo attraverso
il movimento, l’energia, le relazioni e ogni altra forma di forza che lo
circonda”. Egli intervista anche David
Becker, uno dei più grandi chitarristi jazz di tutti i tempi, che dedica molto
tempo alla sua storia con Attila Zoller,
all’incontro, all’invito che ha ricevuto da quest’ultimo a recarsi nel Vermont,
purtroppo rimasto inevaso per la scomparsa del jazzista, e al lungo periodo
dedicato al disco, che è stato concepito nel
2013. Nel testo, a proposito del multiorme ingegno di Zoller, viene
messa a fuoco la sua attività di turnista, ovvero di artista che va in appoggio
a gruppi dei quali non è membro stabile. Svolgono questa professione musicisti
di lusso come il nostro giovane Nicola Cipriani e il famosissimo chitarrista
Eric Clapton. Il mestiere di turnista è
senz’altro nato con il jazz, infatti il nostro Zoller ha la prerogativa di
suonare in collettivi con maestri di altri strumenti, che condividono le scelte
creative. Gli autori si soffermano proprio sulla sua attività di sideman -
turnista - nella seconda parte del libro. Le sue collaborazioni sono state
numerose, in virtù di un carattere propenso alle relazioni e a quella che viene
definita in modo seducente ‘una scelta di tranquillità’. Egli ha prediletto le
lezioni di vita a quelle di carriera, convinto di non dover dimostrare niente a
nessuno, se non a sé stesso. Ho trovato questo passaggio dell’opera
particolarmente avvincente. Forse il talento del jazzista ungherese non è
arrivato al pubblico di massa proprio in virtù della sua visione della musica e
dell’esistenza. Analizzando i vari album Puracchio e Parente hanno avuto modo
di cogliere il forte aspetto altruistico dell’artista, la volontà di stringere
relazioni e di avventurarsi in territori nuovi. D’altronde, come Eugene Uman
conferma, a proposito della collaborazione tra Zoller e Don Friedman, i due si
volevano bene e amavano sperimentare l’improvvisazione, una delle
caratteristiche peculiari del jazz. A New York il nostro musicista fu assunto
come turnista da Benny Goodman, artista prolifico, del quale gli autori
segnalano il disco “Benny Goodman & Paris - Listen to the magic!” del
1967. L’artista magiaro accettò la
collaborazione soprattutto per mettersi alla prova con lo swing. Il saggio
analizza con cura le numerose collaborazioni di Zoller e consente a noi lettori
di viaggiare attraverso i più famosi musicisti e i loro dischi. Un’esperienza
arricchente per una profana come la sottoscritta, innamorata della musica.
Puracchio si sofferma su Gabor Szabò, ungherese come Zoller, espatriato,
jazzista. L’autore sembra metterlo a confronto con il magiaro di cui si è
dissertato a lungo, in realtà non esiste un opposizione tra i due, Szabò è
degno di nota perché scappa dall’Ungheria a soli vent’anni, approda negli Stati
Uniti, dove riesce ad affermarsi, ma a causa della prematura scomparsa, rischia
di cadere nell’oblio. Nonostante fosse naturalizzato statunitense, grazie al
suo modo di suonare e del richiamo al folk europeo, non è stato mai considerato
‘degno di sedersi allo stesso tavolo di grandi maestri’ - tratto dal libro -. In
realtà è stato uno dei chitarristi più creativi e poliedrici di tutti i tempi.
Gli va riconosciuto il merito di aver condotto il jazz in territori come
l’ambient, la fusion, il rock psichedelico, il funky. Il tutto senza
dimenticare le proprie origini magiare e unendo influenze ungheresi e
orientali. Szabò e Zoller hanno il merito di sdoganare i compositori
celeberrimi, come Bartòk. Lo hanno fatto in modo diverso, perché Szabò è stato
più palese, l’altro meno diretto. Puracchio ha intervistato una leggenda del
jazz, come Ron Carter, che ha suonato con entrambi e questi ha detto di non
aver mai pensato di metterli a confronto, ma è stato evasivo, definendosi un
bassista, e gli ha consigliato di interpellare Doug Payne. Quest’ultimo ha
dichiarato che l’unico tratto in comune tra i due gli sembra l’origine
ungherese, per quanto riguarda la formazione Zoller ha studiato chitarra,
mentre Szabò era autodidatta. Definisce il secondo un ‘melodioso senza sosta’,
mentre Zoller si avvicinava di più allo stile di Haruki Murakami. Sugli
autodidatti si potrebbe aprire un lungo discorso, mi limiterò ad asserire che
vengono considerati i contrabbandieri della cultura e proprio per questo
forniscono la merce più rara e genuina. Puracchio, per completare il quadro,
ritiene opportuno intervistare Ime Koszegi, connazionale di entrambi i
jazzisti. Egli afferma che le differenze fondamentali tra i due sono nel tipo
di musica e nel carattere. Zoller non cercava una musica che piacesse a tutti,
Szabò era più commerciale. A livello di indole il primo era un compagnone di
mangiate e di bevute, il secondo non poteva esserlo, perché minato nel fisico
dalla malattia. Il testo continua con l’analisi di vari dischi, che evito per
non essere ripetitiva rispetto agli autori. Posso concludere la mia lettura
appassionata di questo testo, che mi compensa dal non aver gustato le pagine di
Purachio dedicate a Franco Califano, valutate dalle biblioteche romane,
inchinandomi di fronte ai due scrittori, che da giornalisti di razza, hanno
intrapreso un cammino difficile e affascinante. E nonostante le donne si siano
dilettate nella musica jazz quasi esclusivamente come cantanti, Paolo Conte abbia scritto nella canzone “Sotto
le stelle del jazz” che “Le donne odiavano il jazz / e non si capisce il
motivo”, io adoro questo genere, privo di schemi e strutture precise, che
infonde un senso di libertà, e sono certa che sia la musica sulla quale balla Dio quando nessuno lo
vede.
Maria
Rizzi
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