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domenica 8 settembre 2024

Maria Rizzi legge :" Il tempo rappreso " di Angela Ambrosini


 

MARIA RIZZI

Prefazione

 

a Angela Ambrosini, Il tempo rappreso, LuoghInteriori, 2024

 

   Il segreto della vita sta nel diventare adulti mentre la bellezza, ironicamente, si avvicina e accarezza l’anima. L’innocenza e tutto quanto hai ignorato o non compreso appieno da giovane entrano dentro come una danza, senza fermarsi mai.

   Angela Ambrosini nella sua silloge recupera liriche concepite in precedenza per cucire il tessuto artistico della memoria a quello presente e sconfiggere l’assunto dell’inaffidabilità dei ricordi e di un futuro sul quale sia concesso fare solo speculazioni. Introduce il testo con i versi seguenti: “Tutto quello che ho imparato / tutto quello che so ora, / prima vorrei fosse stato, /negli arpeggi di gioventù, / nel tempo che il tempo ignora” che si legano all’incipit e rendono chiara l’idea di un’interpretazione del tempo non immobilizzato, ma ‘condensato’, in modo da lasciare tracce visibili. Non una speranza, quella dell’autrice, ma una volontà di redimere il passato attraverso la rielaborazione delle esperienze vissute. Si pensa al filosofo George W. F. Hegel che allude alla forma, “allo spirito dell’età che pensa se stesso”, e si riferisce proprio a un tempo rappreso, densamente popolato di significati e, soprattutto, di immagini.

   L’Opera non è divisa in sezioni proprio per attuare un procedimento di consecutio. E il tempo della Ambrosini, presente in tutte le poesie, declinato in ogni accezione, cantato con rara padronanza dell’arte lirica, rifugge il movimento del mondo esterno, quello delle lancette dell’orologio, diviene tempo interiore, quantitativo, mezzo attraverso il quale si svolgono gli stati di coscienza. Attraverso la sua esperienza artistica, che potrebbe definirsi un romanzo in musica, noi lettori proiettiamo lo spirito in una nuova consapevolezza del passaggio terreno e intuiamo insospettati, possibili potenziali.

   La poesia che apre la silloge Ruit hora è annuncio dell’ora che precipita, ma la Nostra elude il dissolversi delle stagioni, recitando: “…adesso tra briciole / di vita più forte m’assale / soffio d’infinito / e altro sole schianta / al respiro di domani”.

    Ci troviamo di fronte a una voce appassionata, commossa, inarrestabile, che trascina i relitti dell’esistere verso un lido insperato: la nostalgia del futuro. L’autrice, nell’indietreggiare, fluttuando, di fronte al conto alla rovescia, raccoglie frammenti di giorni, di elementi del creato, per farne dono all’amato, per rileggere insieme i capitoli di una storia che non accenna a sfiorire: “Ascolta. Qui, a quest’ora, /sussurra il canneto /e il lago immagine è / ferma di cielo tra salici / e case di seta. / Nel bagnasciuga / fra odorose melme / trova adagio / la sua radice l’alga / e grazie a te io ritrovo / il tempo rappreso / nel frodo dei giorni / sgranarsi lieve /a dimenticate paludi: /com’è giusto che sia” (da Al Trasimeno sul lungolago).

   Lirica in levare, dal sapore di preghiera, l’alga torna al lago, sua origine, e in amore, si percepisce il tempo della coscienza, elastico, estraneo alla frode perpetrata dalla scienza. Ogni verso di quest’autrice raffinata, seducente, è intriso di potere immaginifico. Ci si può librare in dimensione atemporale, scegliere la metafora, la similitudine, l’allegoria, per posare con levità le urgenze del vivere e nascere nuovi, tra ‘case di seta’ e ‘pagine terse come cristallo d’acque abissali’. La spiritualità vena lo spartito, è vento dolce di risacca, approdo di ogni malinconica nostalgia. Le isole dei ricordi trascinano nei vortici cari, consentono di distillare linfa per fronteggiare i furti del tempo. “Rimbomba il tempo da stanza a stanza, /da quadro a quadro e scrigno s’apre /al dolore e resa accorata è il foglio stinto di grafie amate, /ciò che resta del nostro passaggio, /del nostro fare. /Del nostro voler esserci.” (versi tratti da La casa del tempo). In questa poesia, permeata di saudade, è rilevante l’atteggiamento di acuta attenzione per gli oggetti, - ‘foglio stinto di grafie amate’ - unita a una valorizzazione della loro umiltà e a un religioso rispetto. Infatti non solo certe cose esistono, ma sono quelle che abbiamo visto usare spesso, strumenti buoni della vita, ai quali noi, distratti in precedenza da preoccupazioni apparentemente più complesse, non abbiamo saputo prestare il dovuto riconoscimento.

   Lo pseudo-materialismo della Ambrosini palesa un’esperienza delle cose quotidiane di natura estatica e visionaria. A rigore, anche il troppo usuale sarebbe ignorato e ineffabile, al pari dello straordinario, se non ci fosse la rivelazione del Poeta. Le parti dell’Opera legate alle memorie dell’infanzia sono caratterizzate da una capacità inesausta di variazione del timbro, nell’ambito di uno stile omogeneo e inconfondibile. Pur nell’inesauribile mutare della cifra stilistica i componimenti autobiografici riescono spesso a trascendere gli oggetti cari e a divenire ‘museo di forme incostanti, simili a specchi rotti’ (J. Luis Borges).

    D’altronde la memoria tiene il lupo dell’insignificanza fuori dalla porta. La morte, quella vera, comincia quando nessuno può più sognare di te. “Parlami, dimmi di te, del tuo sonno greve, / del mio sogno lieve, /dell’acre rimpianto che come stormo /dal mio cuore migra per quel Dio /che di te ha fatto preda, benché d’amore.” (da A mia madre). Una lirica nella quale la figura retorica è esaltata nel contenuto, nella parola e a livello fonetico, evocando in modo superbo lo scorrere del tempo. L’autrice sa divenire clessidra, misurarlo con piena consapevolezza, ma sa anche renderlo di luce, con la litote della chiusa, che scuote le fronde dei cuori.

 “Tu eri la mia radice, padre, /la mia sola radice tardiva.” (da 2 Novembre).  Il padre, figura che torna e torna ancora, cara al cuore della poetessa, e soprattutto della donna, il padre in esilio, senza più dimora, gettato lontano vero l’infinito. “Tempo sarà del ritorno, /dicevi, /ma fu solo vagare /da estate a estate, /come gabbiano smarrito” (da Esule). Nonostante l’autrice abbia compiuto un viaggio a ritroso per includere liriche relative a periodi trascorsi, non si rileva alcun salto temporale, il continuum di significanti rende il testo di rara coerenza e originalità. La parola, nel senso del verbo greco poiein, produrre, creare, è pregnante, tant’è che l’Autrice cita in esergo Camillo Sbarbaro: “A noi che non abbiamo / altra felicità che di parole”. Si comincia a morire tacendo le cose che contano, le verità dell’esistenza, “Solo la parola, la parola / già detta / soffia roghi di luce /nel baratro illune.” (da Solo la parola). Gli elementi poetici del creato sono vivi, palpitanti, talvolta travolgenti nel suo canto, ispirato a un sentimento panico, a un misticismo naturalistico. “Sono qui, in questo buio scheggiato /da grappoli d’albe dopo la furia /redenta dell’onda. Inesplorato / il giorno brulica oltre gli spazi / liquidi d’una pace che arsura / si fa al vento e degli anni nostri / custodia tenace è d’infinito.” (Dopo la tempesta).

   I quadri danno vita, talvolta, a una realtà figurativa, non soggetta ad alterazioni rappresentative, in altri casi, come nella poesia riportata, a un repertorio di simboli con componenti tragiche e misteriose, nella consapevolezza che gli eventi investiti di luce proiettano altrettanta ombra. Ogni stella ha il suo lutto, ogni porto il suo naufragio. L’autrice non è esente da impegno civile, non volta lo sguardo, è tesa a superare il muro dell’indifferenza. La sua parola non diviene tirtaica, bruciante di furore, resta densa di pathos, di autentica compassione e di quella levità che equivale alla ragione per cui gli angeli sanno volare. “Giuseppe lui si diceva, di casa in casa, / di strada in strada, / barattando il suo nome /algerino per una manciata d’avvenire/… italiano” (da Un giorno come tanti).

   Unica eccezione, la lirica dedicata all’olocausto delle foibe. Angela Ambrosini, di fronte alla barbarie che ha visto protagonista la terra della famiglia paterna, diviene voce di sangue e inchiostro, di rabbia e filo spinato. Il suo mondo lirico addestra i sensi, li rende adatti a realtà che pochi percepiscono: “Noi, progenie sconosciuta, / taciuta, azzerata / nel limbo di terre di confine, /terre martirio, terre matrigne /noi qui sotto, da questa profondissima, / inesausta verità, /noi, tralci di storia, della vostra storia, /noi, qui, sappiatelo, / silentes loquimur.” (da Memento). 

   Le vittime “parlano in silenzio” e ci si chiede quanti sanno ascoltarli, ricordare i loro sacrifici, in una realtà elusiva, tesa a negare, a rimuovere. Credo che non esistano sepoltura ed eredità più vere della memoria dei vivi.

   Il Verbo di Angela Ambrosini è caratterizzato da un rapimento estatico che vede il passaggio dalla vita temporale, imperfetta, legata alle spine ostili delle radici, all’esistenza che attua teneri furti sul tempo tramite gettiti incontenibili di note che la connotano come maga della parola ed eccezionale animatrice dell’inanimato. Terminata la silloge mi sono resa conto che i poeti, certi Poeti, custodiscono nel loro dire una forza che non immaginano: la capacità di invertire il corso delle vite altrui.

 

          MARIA RIZZI

Presidente del Circolo I.P.la.C-Insieme per la Cultura-,

operatrice culturale, poetessa, narratrice, critico letterario

                                                           

 

 

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1 commento:

  1. È stato un grandissimo Onore scrivere la prefazione della Silloge di questa vera, immensa Poetessa, che concepisce versi che trafiggono e , come affermo nella chiusa, possono invertire le vite dei prescelti che le leggono. Io e Angela ci conoscevamo da molti anni, ma questa Silloge ha rappresentato l'occasione per instaurare un rapporto bellissimo. Lei è un'artista e una donna speciale e non sempre le due caratteristiche si coniugano. La ringrazio ancora, pubblicamente, per avermi scelta e auguro al suo tempo lontano dalla scienza e vicino alla coscienza, il successo che merita. Ringrazio altresì con smisurato affetto il nostro Nume Tutelare per aver dato spazio al testo di Angela e alla mia esegesi. Li abbraccio entrambi!
    Maria Rizzi

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