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Angela Ambrosini :"Divagazioni Sulla Metapoesia"


 

Quel peculiare risvolto della poesia che attua una riflessione in fieri sulla poesia stessa, la metapoesia, affiora sia pur di nicchia (ma più spesso di quanto si possa immaginare) in un percorso trasversale a ogni cultura e procede da molto lontano, laddove la proprietà di “riflessione” si dilata nella duplice accezione del termine, sia inteso come consapevolezza cognitiva che come sdoppiamento, riproduzione verbale autoreferenziale di un aspetto del poiein. A volte il poeta si pone domande sulla propria identità di “poeta”, come nel conosciutissimo scanzonato verso di Aldo Palazzeschi che nella poesia Chi sono? (in Poemi, 1909) risponde a sé stesso “Il saltimbanco dell’anima mia”, prendendosi indirettamente gioco della Desolazione del povero poeta sentimentale di Sergio Corazzini che affermava, negando apofaticamente, “Io non sono un poeta”. In entrambi i casi, il poeta “specula”, riflette cioè su sé stesso e sul proprio ruolo. Come la lingua attraverso la grammatica indaga su sé stessa, dando origine al “metalinguaggio”, così ai poeti di ogni epoca e latitudine piace ogni tanto guardarsi allo specchio per riflettere sullo stesso genere letterario di cui sono agenti attivi. E la nota di rilievo è che tale auto-osservazione non si esplicita in prosa critica (come parrebbe più logico), ma in poesia stessa. Nel caso del succitato Palazzeschi l’intento è di dichiarata giocosità, quasi un’eco del giullare medioevale, sia pur specificando di voler “mettere una lente davanti al cuore per farlo vedere alla gente”. Torniamo all’immagine dello specchio, lo speculum, strumento per esplorare, anche in ambito medico, cavità altrimenti inaccessibili. A proposito del simbolo dello specchio, un paragone forse ardito, ma plausibile, si potrebbe instaurare mutatis mutandis con il famoso quadro Las meninas di Velázquez la cui figura campeggia mentre dipinge nel suo laboratorio personale alla Corte di Re Filippo IV, riflesso invece in uno specchio in secondo piano insieme alla Regina Marianna d’Austria. La critica ipotizza che a sua volta lo stesso pittore di corte sia riflesso in uno specchio immaginario situato al posto dell’osservatore per realizzare un autoritratto in modo da esaltare non solo la personalità di colui che ritrae la coppia reale, cioè il pittore stesso, ma persino quel processo pittorico del caos compositivo in cui è immersa la scena, una delle inquadrature più innovative e anomale della storia della pittura, soprattutto se pensiamo all’anno di composizione, 1656. Ma è proprio questo caos che innesca uno stupefacente gioco prospettico tra il pittore, l’osservatore e i personaggi del dipinto.  Il concetto di caos, cardine del barocco, concorre a riformulare in altri termini il processo artistico interiore che conduce al Cosmos, all’ordine del risultato finale nel quale anche ogni poeta di ogni epoca spesso si dà uno scopo quando non una specie di programma. Ricordiamo il celebre verso Hominem pagina nostra sapit, (“la nostra pagina sa di uomo”) con cui Marziale (40 d.C.) rivendica l’impegno etico e sociale dei suoi Epigrammi poetici dopo i vagheggiamenti e vaneggiamenti mitologici della fase dei “mostri”. Nella storia della nostra letteratura, il primo conosciutissimo esempio di rudimentale metapoesia in lingua volgare è l’Indovinello veronese (XI sec.) che, in una catena di metafore a visualizzare dita, penna, pagina bianca e inchiostro, (il “seme nero”), allude comunque solo all’aspetto materico della scrittura, tipica dell’amanuense. (Se pareba boves, /alba pratalia arabat/et albo versorio teneba/et negro semen seminaba”, cioè “anteponeva a sé i buoi, /bianchi prati arava, /un bianco aratro teneva/ e un nero seme seminava).  Ma, a parte questo caso storicamente noto per una datazione più o meno attendibile della comparsa del volgare in Italia, ovviamente l’attenzione di chi scrive si focalizza più spesso sulla funzione della poesia e del poeta. Esistono varie modalità di approccio metapoetico di cui sarebbe davvero interessante fare una rassegna ampia, ma ora limitiamoci ad alcune tra le più originali, anche se non tutte esattamente “poetiche”, come il tono precettistico di Tristan Tzara in Per fare una poesia dadaista: “Prendete un giornale. /Prendete un paio di forbici./Scegliete nel giornale un articolo…./Ritagliate l’articolo/…/Agitate dolcemente ecc. ecc.”. Altre volte il tono si fa declamatorio, come nella celebre Art poétique nella quale Verlaine, inaugurando la stagione simbolista all’insegna della musicalità, si scaglia contro la retorica: “Prendi l’eloquenza e torcigli il collo!”. In altri autori emerge la modalità esplicativa. Pensiamo a Vladimir Majakovskij, il poeta della Rivoluzione russa, che in Il poeta è un operaio paragona anche nel lessico il lavoro del poeta a quello dell’operaio negli altiforni: “Noi limiamo i cervelli / con la nostra lingua affilata”. Quasimodo si definiva in tono più intimista “Uno come tanti, operaio di sogni” (in Epitaffio per Bice Donetti). L’opera di Quasimodo offre una messe di sottili richiami metapoetici, spesso ad alto indice di metaforicità, per cui a una prima lettura il significato metapoetico rimane non immediatamente percepibile. Citiamo il bellissimo verso “Tu ridi che per sillabe mi scarno”, nel quale il poeta (nella lirica non a caso intitolata Parola, tratta da Oboe sommerso) afferma proprio quel processo di scarnificazione che dal caos si placa nel cosmos della creazione poetica. La stessa immagine dell’oboe rimanda metaforicamente alla poesia il cui suono “sommerso” va esplicitato e tratto alla luce dall’inconscio. Celeberrima è la lirica Alle fronde dei salici (dalla raccolta Col piede straniero sopra il cuore) di ispirazione etico-civile, elemento tematico ravvisabile anche nel passaggio formale dall’io della fase ermetica al “noi” che evoca l’Italia dell’occupazione nazista. Tuttavia, solo dopo una lettura attenta della breve lirica, se ne percepisce la valenza interamente metapoetica, evidenziata dal celeberrimo incipit “E come potevamo noi cantare…?” , con cui il poeta si discolpa per il lungo silenzio poetico negli anni drammatici del secondo conflitto mondiale, utilizzando questa volta lo strumento musicale della cetra, simbolo della poesia classica, come elemento-lessema di aperta intertestualità con il famoso lamento biblico 137 degli ebrei in esilio a Babilonia dopo la caduta di Gerusalemme: “Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre”. In un altro testo autoreferenziale, metapoetico, meno conosciuto, Quasimodo torna al concetto di “scarnificazione”, cioè sostanzialmente di labor limae in senso sottrattivo, consustanziale all’equilibrio nel genere poetico: Ma se scarnire non sapevo un tempo / la voce primitiva ancora rozza, /avidamente allargo la mia mano: /dammi dolore cibo cotidiano” (da Avidamente allargo la mia mano, in Ed è subito sera). Affiora con prepotenza la relazione necessaria e diremmo quasi religiosa, tra la poesia, quella autentica, e il dolore. “Dammi dolore cibo cotidiano” suona quasi come una parafrasi del Padre Nostro e in questa “necessità” del dolore quale seme della creazione poetica, sembra fargli eco la poetessa Alda Merini nei suoi versi “Le più belle poesie/si scrivono sopra le pietre/coi ginocchi piagati/ e le menti aguzzate dal mistero”.  Il senso esperenziale del mistero si ravvisa nella parola “abisso” evocata da Ungaretti con il suo quid di inesplicabile, irraggiungibile aderenza alla realtà. Ogni poeta che non si limiti a una modalità puramente ornamentale, araldica e sensoriale della poesia sperimenta un senso di inadeguatezza della parola. Sono certa che molti di noi che scrivono avranno in un certo senso “patito” questa sensazione. Arriva un momento in cui chi scrive si guarda in questo specchio interiore di cui dicevamo e inizia a interrogarsi sul senso della propria scrittura. C’è sempre qualcosa che non salda compiutamente il significante al significato; chi nutre una concezione consapevole e non epidermica della poesia sa che sovente qualcosa sfugge alla parola. Di qui la famosa invocazione del poeta spagnolo Juan Ramón Jiménez che si rivolge implorante alla “intelligenza” (che altro non è che il Logos, opposto al semplice abbinamento significante-significato) “Intelligenza, dammi / il nome esatto delle cose! / Che la mia parola sia / la cosa stessa”. Simile senso di impotenza, ma amplificato e sperimentato difronte alla visione divina, era stato motivo di cruccio in Dante che nel canto 33 del Paradiso esclama “Ormai sarà più corta mia favella” (vv 106-108) rammaricandosi (121-122) “Oh quanto corto è il dire e come fioco/ al mio concetto”, consapevole del misero tentativo di dire in modo comprensibile ciò che è ineffabile. È un esempio del cosiddetto sublime rovesciato mediante il quale ciò che è smisurato si manifesta nel parlare semplice. In un altro celebre caso, quello di Montale in Ossi di seppia, affiora la modalità metapoetica in negativo “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco/ lo dichiari e risplenda come un croco/ perduto in mezzo a un polveroso prato/…/ Non domandarci la formula che mondi possa aprirti/…/ Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Altrove Montale scrive che “la poesia non è fatta per nessuno, /non per altri e nemmeno per chi la scrive. /Perché nasce? Non nasce affatto e dunque/non è mai nata. Sta, come una pietra, / o un granello di sabbia. Finirà / con tutto il resto” (da Asor in Diario del ’71 e del ‘72)

Nella poesia contemporanea si avverte spesso infatti un senso di spersonalizzazione, già da Thomas Eliot enunciato come motore della vera poesia. La poesia non è un modo di liberare l'emozione, ma una fuga dall’emozione; non un’espressione della propria personalità, ma una fuga dalla personalità. Ma, naturalmente, solo coloro che hanno personalità ed emozioni sanno cosa significa voler fuggire da queste cose” (dal saggio Tradizione e talento individuale). Scrivere poesia, vera poesia, per il grande poeta statunitense non equivale a esaltare l’io, ma a fuggire da esso, non ad esprimere la propria interiorità, ma ad anelare all’universalità evitando quindi le emozioni, non rincorrendole (Eliot ricorre ai termini dry hardness, asciutta durezza). Borges addirittura, da parte sua, nel suo amore per il paradosso, arriva a dire che la vera poesia è impersonale. Avvicinandoci al nostro tempo, il Premio Nobel della letteratura 2012, lo svedese Tomas Tranströmer annota: “Stupendo sentire come la mia poesia cresce/mentre io mi ritiro. / Cresce, prende il mio posto./ Si fa largo a spinte. /Mi toglie di mezzo./ La poesia è pronta.” Si celebra così l’autosufficienza della poesia rispetto alla stessa volontà del poeta, incapace a contenerne tutta la portata.

Il grande poeta francese Yves Bonnefoy, profondo conoscitore e traduttore di Shakespeare, ben conosceva l’inadeguatezza della parola a colmare lo scarto semantico non solo tra una lingua e l’altra, ma anche in ambito intralinguistico, il divario tra ciò che si desidera esprimere e ciò che invece rimane imbrigliato dalla e nella parola. Nei bellissimi versi di Le nostre mani nell’acqua ripropone il motivo di questa insoddisfazione atavica che il linguaggio consegna all’uomo nella sua ansia conoscitiva: “Noi immergevamo le mani nel linguaggio, / vi afferrarono parole delle quali non sapemmo/che fare, non essendo che i nostri desideri. / Noi invecchiammo. Quest’acqua, nostra trasparenza. /Altri sapranno cercare più nel profondo / un nuovo cielo, una nuova terra”.

A voler ribadire questo senso di impotenza nel tematizzare perfettamente il reale, concludiamo il nostro breve percorso sdrammatizzandolo, così come lo avevamo iniziato, con altri versi scanzonati, questa volta di Giorgio Caproni: “Buttate pure via/ ogni opera in versi o in prosa/nessuno è mai riuscito a dire/ cos’è, nella sua essenza, una rosa” (Elogio della rosa)

Angela Ambrosini

 

 

sabato 4 maggio 2024

XXVII PREMIO NAZIONALE MIMESIS di poesia 2024

 

 

XXVII PREMIO NAZIONALE MIMESIS di poesia 2024

 

Il Premio Nazionale Mimesis di poesia (di seguito detto Premio) è indetto e organizzato a cadenza annuale dall’Associazione Culturale Teatrale Mimesis in collaborazione con il Comune di Itri (LT), con il supporto di Wikiamo web agency, A. Caramanica Editore, il blog Alla volta di Leucade e il Circolo IPLAC.

 

REGOLAMENTO

SEZIONE A) Poesia inedita: Si partecipa con un  massimo di tre poesie a tema libero, in lingua italiana o in uno dei dialetti d’Italia (con indicazione della provenienza e traduzione). Per poesia inedita s’intende mai divulgata tramite qualsiasi mezzo né associabile all’autore fino all’esito della classifica. Se nel frattempo fosse pubblicata o associabile, la segreteria potrebbe spostarla nella sezione B in seguito a comunicazione dell’autore.

SEZIONE B) Poesia edita: Si partecipa con un massimo di tre poesie a tema libero, in lingua italiana o in uno dei dialetti d’Italia (con indicazione della provenienza e traduzione).

Non si può partecipare con opere già premiate in questo concorso. L’inosservanza delle regole comporterà, senza preavviso, l’esclusione dei testi  anche a premi attribuiti.

GIURIA DEL PREMIO

Presidente Nazario Pardini (ex ordinario di Lingua e Letteratura Italiana, poeta, critico letterario, blogger), vice pres. Patrizia Stefanelli (presidente dell’Associazione C. T. Mimesis, poetessa, regista teatrale e organizzatrice di eventi), Salvatore Mazziotti (docente di storia e filosofia, assessore alla cultura del Comune di Itri), Alessandra Corbetta (scrittrice, poetessa e blogger), Vittorio Di Ruocco (vincitore 2023), Gianfranco Domizi (vincitore Premio Nicola Maggiarra 2023), Alfredo Panetta (vincitore 2023), Segretario: Giovanni Martone.

La giuria, pro bono e con giudizio insindacabile, valuterà le liriche in forma anonima e stilerà una graduatoria di 12 vincitori per sezione.

Le opere premiate saranno pubblicate in un volume a spese del Premio. I poeti, conservando tutti i diritti, ne autorizzano la stampa senza nulla a pretendere.

PREMI SEZIONE A Poesia inedita

classificato: € 500, targa con motivazione incisa, 5 copie dell’antologia.

classificato: € 200, targa con motivazione incisa, 5 copie dell’antologia.

classificato: € 100, targa con motivazione incisa, 5 copie dell’antologia.

VINCITORI dal 4° CLASSIFICATO: Targa con incisione della poesia, 5 copie dell’antologia.

PREMI SEZIONE B Poesia edita

classificato: Contratto editoriale per la pubblicazione di una silloge di 64 pagine in 100 copie, targa con motivazione, 5 copie dell’antologia.

classificato: € 200, targa con motivazione, 5 copie dell’antologia;

classificato: € 100, targa con motivazione, 5 copie dell’antologia.

VINCITORI dal 4° CLASSIFICATO: Targa  con incisione della poesia, 5 copie dell’antologia.

PREMIO  “NICOLA MAGGIARRA” Trofeo e una copia dell’antologia al primo classificato tra i poeti della provincia di Latina non presente tra i 24 vincitori.

TARGA SPECIALE “ GIURIA STAMPA”

Conferita a una poesia, tra le 24 vincitrici,  dai giornalisti: Franco Cairo, Orazio La Rocca, Gaetano Orticelli, Orazio Ruggieri.

La segreteria spedirà (senza costi per i poeti)  il trofeo/targa e una copia dell’antologia. Per i premi in denaro e il contratto editoriale è richiesta la presenza degli autori.

La serata di premiazione, preceduta dalla conferenza stampa per Lazio TV in cui i poeti saranno intervistati, si terrà a Itri nella terza settimana del mese di agosto 2024. Al termine della conferenza sarà offerto un buffet.

MODALITÀ D’ISCRIZIONE

L’iscrizione al concorso prevede un contributo, di €15 per una sezione e €25 per due, da versare tramite:

-ricarica PostePay n. 5333171222725364 intestata a Patrizia Stefanelli Cod. Fiscale STFPRZ60D50D708D. Causale: Contributo per spese di segreteria.

-PayPal a: info@associazionemimesis.com

-bonifico bancario verso Associazione Culturale Teatrale Mimesis IBAN IT 04N 01030 74000 000000658870 MPS filiale di Itri (LT). Causale: Contributo per spese di segreteria.

INVIO OPERE: entro l’8 giugno 2024

Tramite e-mail a info@associazionemimesis.com

Scrivere nell’oggetto: Premio Nazionale Mimesis, nome e cognome del poeta partecipante, sezione.

Allegare: 1) Poesie in unico file formato word, carattere Times New Roman 12, senza alcun segno particolare; 2) dati anagrafici, domicilio, n° di telefono, indirizzo e-mail; 3) copia del versamento.

Tramite servizio postale: a Giovanni Martone, Contrada Campanaro Alto, 9 - 04020 Itri (LT). Spedire una copia di ogni poesia scrivendo sul retro i dati personali e la sezione in cui si concorre. Accludere al plico copia della quota contributiva versata. Farà fede il timbro postale.

Tutti gli autori riceveranno notifica della corretta ricezione delle opere e dell’iscrizione al Premio.

Risultati in www.associazionemimesis.com

htthps://www.facebook.com/premiomimesis/ e nel blog Alla volta di Leucade. La segreteria del Premio contatterà i vincitori, tramite e-mail e telefono, almeno 15 giorni prima della data di premiazione. L’autore, con la partecipazione al concorso, accetta le norme del bando, dichiara la proprietà delle opere, acconsente al trattamento dei dati personali ai sensi del d. Lgs. Nr.196/2003. Telefoni utili: 3475243092/ 3403243843 

 

giovedì 2 maggio 2024

Enzo Concardi legge "Poesie nascoste nella dispensa" di Pietro Rosetta


 

GUIDO MIANO EDITORE

NOVITÀ EDITORIALE

 

È uscito il libro di poesie:

POESIE NASCOSTE NELLA DISPENSA di PIETRO ROSETTA

con prefazione di Enzo Concardi

 

 Pubblicata la raccolta poetica dal titolo “Poesie nascoste nella dispensa” di Pietro Rosetta, con prefazione di Enzo Concardi, nella prestigiosa collana “Alcyone 2000”, Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

Questa prima raccolta poetica di Pietro Rosetta naviga a vista tra il canto d’amore e la ricerca esistenziale senza approdi. Per la prima tematica vale tout court il richiamo al leopardiano amore e morte, nel senso di un romanticismo sentimentale che nel nostro autore trova dimora in quasi tutte le composizioni: vedremo più avanti nell’analisi dei testi quante numerose siano le immagini, le espressioni e le atmosfere che ‘affratellano’ l’amore con la morte. Trattasi quindi di un sentimento forte, passionale, che non fa sconti alle banalità e ai luoghi comuni di tanta poesia amorosa contemporanea; che traccia la sua rotta spesso lontano dalla felicità, condizione sporadica e quasi casuale, forse più assenza di dolore al posto di una vera gioia; che appare romanzato e senza un fine, assumendo la forma di un isolato e spinoso canto del transfert realizzato solo parzialmente, poiché vissuto con intensa problematicità.

Talvolta sembra un andare e riandare nella memoria, in bilico fra esperienza ed immaginazione, talaltra s’imbatte - lo sviluppo della scrittura - in una sorta di ermetismo di significati, in quanto il poeta crea delle pièces, anche oniriche, sospese nel vago e nell’indefinito, dove è presente un ‘tu’ nel ruolo di interlocutore che potrebbe essere sia un altro-da-sé, che il suo alter-ego. La mancanza di titoli - sostituiti da asterischi - nella quasi totalità delle poesie, accentua tale impressione di mistero e vaghezza che, tuttavia, conferiscono alle liriche un senso di fascino dell’ignoto.

Per la tematica esistenziale stile e contenuti non si discostano granché da quel che abbiamo detto finora, tanto che si potrebbe definire, l’amore stesso, un fatto esistenziale, parte integrante di una vita concepita come viaggio, avventura umana, naufragio nella follia e nella morte, intese non in senso biologico, ma come condizioni interiori e spirituali. Ma il poeta non vorrebbe naufragare, per cui la lotta fra Eros e Thanatos è incessante e spossante. Le opposte tendenze, la luce e le tenebre, l’angoscia e la speranza e tutto ciò che è dualistico, bipolare costituiscono forze sempre attive, al lavoro nell’io, impedendo la pace in ultima istanza agognata.

Non per nulla la raccolta inizia con un inusuale - per la mentalità odierna - inno al dolore umano maturato nel nascondimento: tale è la lirica d’apertura, I canti delle vedove. Essa è degna di nota per più di un motivo. Innanzitutto vi sono espressioni di una religiosità antica ma popolare che assumono valore poetico, come: «vecchie chiese di periferia», «luci di candele ingiallite», «parrocchie dove c’è un prete solo», «quei vecchi rosari».

In secondo luogo tali canti vengono definiti, di strofa in strofa, in un modo diverso assumendo significati plurimi e connotando la profondità del dolore: sono voci destinate a spegnersi ma senza tempo; sono reiterati come cantilene infinite dai ritmi battenti nell’arcano silenzio; sono disperazione e lucida follia, adombrando la condizione spirituale di chi li vive; sono «…la speranza cieca / che ognuno di noi porta dentro…», ossimoro ad indicare che «…il presente è vietato / ma il futuro è possibile…»; ed infine c’è l’immedesimazione fra i canti delle vedove e la preghiera personale del poeta nel chiuso e nel raccoglimento della sua stanza, similitudine che ci induce a vedere in lui un soggetto travagliato nei gorghi esistenziali dell’avventura umana. Inoltre, il titolo trasformato in anafore all’inizio di ogni strofa tranne l’ultima, assume valore di nenia quasi tragica, richiamante il lutto, il dolore, la morte.

Tale canone metrico, sintattico e contenutistico è il più utilizzato dall’autore in tutto il libro, che prende così la forma di un poemetto unitario, dalle tematiche esperienziali altalenanti ed autobiografiche senza tempo, sempre teso su livelli di comunicabilità intensa e profonda, che immerge il lettore nel suo messaggio traslato come una carica elettrica. Si diceva all’inizio di amore e morte come leitmotiv della sua poesia amorosa, ed ecco le prove. «Ti parlerò ancora / per pochi giorni / poi, come le onde impetuose / s’impennano al vento e muoiono, // anch’io mi confonderò nel mare, / culla e cimitero di tutti noi, / onde della stessa acqua» (poesia senza titolo, p. 18). In un’altra lirica il connubio è esplicito: «Nudi i nostri corpi la passione trascina / lungo il fiume che ha inghiottito / il mio intimo più segreto insieme al tuo / torrida e infinita // fradici i nostri cuori, sulla riva, / rabbrividiscono al confondersi / di amore e morte / gelide ombre mescolate nella corrente» (poesia senza titolo, p. 19). Anche nella lirica «In riva al mare i sogni» (poesia senza titolo, p. 22) la fine di un amore viene espressa con il verbo morire e sulla spiaggia amara giace l’amore esanime.

Vi è poi la variante dell’amore agonizzante, non ancora morto, ma prossimo alla fine. Bastano due liriche per capirne il respiro. Nella prima (p. 27) la perplessità su una relazione si esprime con immagini forti: «…Non so se le tue mani si confonderanno / alle mie, nelle carezze vellutate / o se la morte lucida già nel marmo / i nostri nomi scolpiti…». Nell’altra (p. 69) immagini marine simboleggiano un imminente naufragio, difficile da evitare: «... e in balia di una zattera / ho abbandonato il nostro amore / che ogni giorno rischia di annegare».

Ma la poesia amorosa di Pietro Rosetta contempla pure l’altra faccia della medaglia, dove l’amore si concede agli amanti, nonostante, talvolta, incontri contrasti. E il poeta ci parla di un amore bello da vedere, di un tempo che è sbocciato per unire corpi e anime, di un tempo che è maturo nonostante aspri e contorti intrecci, di sogni angelici, di assenze dolorose, di notti rubate al sonno, di schiavitù d’amore, di complicità profonde per dar senso alla vita… e finalmente il canto A Paola, l’amore dissetante per una donna: divinità terrena, musa della vita, senso del domani, compagna di viaggio e di ripartenze.

Oltre la dimensione del sentimento umano, il poeta accoglie nella sua sensibilità le vibrazioni esterne dei vuoti interiori, dei deliri e delle follie individuali e sociali, dei pericoli dentro mari tormentati, della paura di solitudini disperate, del rischio di vivere in isole solo per sopravvivere ai naufragi dilaganti.

Sopraggiungono momenti nostalgici di un passato ormai lontano, memorie di radici della terra ora chissà dove abbarbicate e la tenerezza di un volto materno il cui sguardo fa intuire che solo per te, figlio, io ho vissuto.

Enzo Concardi

 

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L’AUTORE

 

Pietro Rosetta vive a Milano; dopo avere conseguito la maturità classica, si è laureato in Medicina e Chirurgia nel 1989, e si è specializzato in Oftalmologia presso la Clinica Oculistica dell’ospedale San Raffaele di Milano. Dopo una esperienza presso la Fondation Rothschild di Parigi, ha lavorato dal 1997 al 2019 presso l’istituto Clinico Humanitas di Rozzano, come specialista nella chirurgia del segmento anteriore e dei trapianti corneali. Attualmente ricopre il ruolo di Responsabile dell’Unità Operativa di Oculistica dell’Istituto Humanitas San Pio X di Milano. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni scientifiche ed ha inoltre partecipato, in qualità di relatore ad innumerevoli congressi nazionali ed internazionali.

 

 

Pietro Rosetta, Poesie nascoste nella dispensa, prefazione di Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 88, isbn 979-12-81351-21-9, mianoposta@gmail.com.

 

 

 


lunedì 22 aprile 2024

Maria Rizzi su “Il merito del mezzo” di Franco De Luca - Narratori Rogiosi.

 


Abbiamo presentato presso il Caffè Letterario Horafelix il romanzo di Franco De Luca “Il merito del mezzo”, edito dai Narratori Rogiosi, il quarto che leggo di questo prolifico Scrittore napoletano, e credo che mi accompagnerà per sempre. Non si tratta, infatti, di un libro, che ci si può concedere di leggere e posare sul comodino. Resta tatuato nell’anima per le suggestioni, le immagini, i messaggi, le lezioni di vita. Una crescita ulteriore per Franco, che con testi come “La chiameremo vita” sembrava essere giunto all’apice dell’esperienza creativa. Innanzitutto, ribadisco il concetto espresso in quarta di copertina dall’ottimo Nando Vitali, secondo il quale ‘il suono delle voci sembra salire dalle quinte di un teatro nella polifonia misteriosa della vita.” Il romanzo è corale, non si possono trovare personaggi, solo protagonisti, un’Opera circolare nella quale le storie si susseguono e si intrecciano con maestria. Lo sfondo è ancora e sempre la città di Napoli, che consente a Franco di sentirsi a casa e di concepire ambientazioni e personaggi venati dai caratteri tipici del nerbo narrativo dello scrittore: senso dell’ironia, umanità calda, ricca di pathos, sentimenti di solidarietà. Inoltre l’intero testo è pervaso da un senso inquietante e persuasivo di mistero, una tunica che avvolge  i lettori e attrae in modo irresistibile. Napoli non è la protagonista. Sono presenti le frasi in dialetto, le scene tipiche della vita partenopea, ma la città è riassunta, forse, dalla descrizione dell’avvocato Beretta, torinese di nascita, dirigente di un grande studio legale, che una volta trasferitosi a Napoli comincia a soffrire di esaurimento nervoso, eppure dopo la lunga attesa della pensione non fa altro che rimandare la partenza. “Aveva con Napoli un rapporto altalenante: a volte la amava, a volte la odiava… Un po’ come tutti i napoletani”. - estratto del libro. Il romanzo si apre regalando al lettore l’impressione di trovarsi in prima fila mentre si schiudono le quinte di una commedia del grande Eduardo De Filippo. I personaggi, Augusto, Amedeo e Davide possiedono le caratteristiche di tali rappresentazioni: un protagonista, ‘una spalla’, funzionale al protagonista e un giovane dotato di un ‘dono’, che permettono di calarsi nell’atmosfera divertente e venata di malinconia tipica delle Opere dei Maestri dell’arte teatrale napoletana. Non manca la donna avvenente e custode, come Augusto, di un mistero che, come tutti i segreti, è noto ai più: Virginia Piscitelli, vedova del senatore Annibale, che riempie in seguito interi capitoli e si eleva in tutta la sua grandezza morale. Il titolo dell’Opera, che è ben spiegato nella chiusa - diciotto pagine di altissima poesia, che trafiggono l’anima e lasciano letteralmente senza fiato -,  non poteva essere più indovinato. Tramite lo scavo psicologico che Franco attua di ogni personaggio si evince che ognuno di loro rappresenta un tramite per favorire qualcuno o qualcosa. Il concetto è spiegato molto bene dalle parole del muratore Agostino Esemplare, altro ‘eroe’ della vicenda, rivolte al commissario Petrillo: “Non vi è mai capitato di sentirvi parte di un progetto più grande? Di vedere che intorno a voi accadono cose che si incastrano perfettamente tanto da favorire un determinato avvenimento? Di sentirvi una specie di… come dire? - una specie di pedina mossa sulla scacchiera di un’intelligenza superiore?” La settimana di eventi, che si svolgono nel quartiere di Santa Caterina, nel cuore del centro storico di Napoli, vede un intreccio letterario che sembra statico, ma è in levare a ogni respiro. Le vie, i vicoli, il chiostro, l’edicola della Santa palpitano insieme ai battiti anarchici dei protagonisti delle storie, che simbolizzano elementi caratteristici della storia di Napoli, del suo presente, a tratti cattivo come i passi dei diavoli, e del suo passato, per sempre vivo nelle anime degli abitanti. Come in un carillon, che resta ‘teatro a cielo aperto’, la musica muove le scene al ritmo dei sentimenti e il bene controlla il male con celata costanza. Il commissario Petrillo, il pescivendolo Raffaele e il già citato Agostino custodiscono il bene, sono inconsciamente devoti a cause più grandi dei loro intenti. E torna il concetto del ‘merito del mezzo’, che implica l’inconsapevolezza di coloro che compiono le azioni e divengono strumenti per il conseguimento del bene comune.  Nel testo esistono tre figure che regalano la misura dell’universo interiore di quest’Autore: Davide e il suo ‘dono’, un giovane rimasto in coma a lungo, che trascina una gamba e riserva non poche sorprese; Caterina, figlia del pescivendolo Raffaele, dodicenne destinata a vivere in carrozzina, muovendo in modo disarticolato le braccia e forse ridendo alle premure degli amici del quartiere; Paolo, detto Paolone, alunno del professore delle medie Dario Morelli, che è affetto da un ritardo e diviene ‘mezzo’ per una vicenda centrale ai fini del romanzo e della vita del suo professore di musica. Creature affette da debolezze, che Franco trasforma in punti di forza, rendendo i tre ragazzini infinitamente cari ai lettori e abbattendo, senza stereotipi, le barriere per creare ponti. La capacità di penetrare nei meandri delle anime dell’Autore diviene sconvolgente quando descrive la figura del senatore Annibale Piscicelli, che cresce a dismisura dinanzi agli occhi dei lettori soprattutto quando definisce l’amore: “Amore  sono due ali, Dario, due ali che spuntano tra le scapole squarciando e dilaniando le carni. Dolore e sangue, dunque, ma anche l’unico modo per librarsi in volo, e osservare dall’alto quanto sia meravigliosa e tragica la vita, e anche quanto siano piccole le orme che lasciamo sulla terra.” Di diamanti simili l’Autore ne semina moltissimi nel corso di quella che amo definire una parabola, dimostrando ai più che per diventare scrittori non basta presumere di possedere la scintilla creativa, occorre sapersi cimentare in qualcosa di grande che lasci sulla terra ‘orme indelebili’. “Il merito del mezzo” possiede il lettore, lo rende schiavo felice dei suoi poteri, diviene mezzo per credere che “La vita è un calcio d’angolo” - musica e testo scritti dal professor Dario Morelli -, e per osservare il cielo nella certezza di scorgere due grosse cicogne che rendono belli i quartieri - dormitori in cui viviamo, le nostre case, le vite che troppo spesso ci sembrano prive di senso.

                                                

Maria Rizzi

                                                

 

 

Anna Vincitorio legge Jean Tardieu

 JEAN TARDIEU


Il fiume nascosto

Poesie 1938 – 1961


Scrittore di forte fecondità si è espresso in opere di ogni genere e tono: umorista, metafisico, drammatico e poeta… Un poeta fortemente inquieto. Importante per lui “chiedere senza fine come si possa scrivere qualcosa che abbia un senso”.

Concepisce la poesia come la conquista di un mistero. Per lui la conoscenza è intuitiva e discontinua. Sempre presente la violenza del desiderio. Quello che lui scrive deve appagare la sua necessità di esprimersi indipendentemente dalla comprensione e dal diletto del lettore.

Poesia che non sempre s'intuisce ma ti afferra e disorienta. Siamo davanti a dei muri di silenzio nei quali immergersi e sconfinare in sogni inquieti. Nulla è spiegato. Davanti al lettore il caos; la morte un istante di distrazione. Il poeta non può che assaporare la bellezza del mondo e salvarla almeno provvisoriamente dalla rovina. Sul destino delle cose il profondo fetore della morte.

“Tutto sarà disperso, il mondo e l'uomo”.

Figlio di artisti: la madre musicista (suona l’arpa) e il padre pittore. Cominciò a scrivere in giovanissima età. Molto influenzato dal suono dell’arpa è portato a sognare e amare seguendone l’armonia.

E nella musica col passare degli anni, il ricordo della antica felicità legata all’infanzia.


Gli occhi bendati, le mani tremanti

tradito dal rumore dei miei passi

che segue ovunque il mio silenzio

perdendo la traccia dei miei giorni

e io, sia che aspetti o che vada oltre

mi rigiro nel fondo del mio sonno

desolato come la speranza

innocente come il rimorso.

Un uomo che finge di vegliare

imprigionato nella sua infanzia

l'avvenire splende immerso

nella sua immobilità.

Noi ancora ce ne ricordiamo

Il sole vibra senza fare un moto

Il tempo monta come il mare. 

Trad. Anna Vincitorio

Per lui l'infanzia anche se imprigiona, è certezza alla quale attingere per poi proseguire. Frequenta a Parigi il Liceo Condorcet e pubblica i primi testi sulla Nouvelle Revue Française. Per avvicinarsi a Tardieu bisogna leggerlo, leggerlo e assimilarne il messaggio. È difficile penetrare le sue parole.


Noi siamo riuniti presso il male

che l'invisibile uragano percuoteva

Questa notte pareva cospirare con noi;

colma d'oro sottratto, era come un cofano

risuonante di consigli

“Lavoriamo!” dice la mia voce – Mille voci risposero:

“Dove sei?” – “Vicino a voi” – sii nominato

“nostro capo”.

– E le nostre voci, come un fuoco tra i rami,

nel medesimo istante si fusero,

le nostre mani serrate e febbrilmente

unite come una nuvola d'uccelli

Ad un tratto, vacillò dividendo l'aria e l'acqua,

Un leggero soffio bianco di luce

che preso – nella sua corsa – venne verso di me

e passò sulla nostra ombra, disteso, distrutto, fluttuante,

col dolce fremere dell'alba… “Addio dunque!”

Mormorò l'ultimo dietro di noi – Partivamo!

Era solo al sorgere del giorno

Ho visto un solo volto: l’onda

Loro si sono riuniti lontano da me

per parlare nella loro lingua sconosciuta

io aspetto 


Trad. Anna Vincitorio


Va riconosciuto, a mio modesto avviso, che pur non penetrando il significato della poesia di Tardieu, ne siamo inghiottiti e vaghiamo in essa percorrendo il suono delle sue parole, sperduti ma emotivamente coinvolti. È chiaro che suoi compagni sono le ombre, la speranza, la paura, la certezza e il rimorso. 

“oh aliti che rianimate la fiamma spenta

quale fumo ai margini della morte!”

Per concludere possiamo definire la sua opera come poesia evidente, diretta e tragica; carica tuttavia di una grazia misteriosa se non quando lui stesso si avvicina all'ammissione dell'irreparabile.


Per la notte e per il sole

condannato senza prove e colpe

ai muri del mio stretto spazio

io mi rigiro nel fondo del mio sonno

desolato come la speranza

innocente come il rimorso…


Trad. Anna Vincitorio

NOTA BIO BIBLIOGRAFICA


Jean Tardieu nato il 1° novembre 1903 a Saint-Germain-de-Joux e morto Creteil in Val di Marne il 27 gennaio 1995.


OPERE:


Accents (1938): Les Dieux étouffés (1946); Monsieur Monsieur (1951); L’espace de la flute (1958); Le fleuve caché – Poésie (1938-61 – Trad. italiana 1971); Forneries (1976); Margeries – Poèmes inédits – 1910-1985 (1986); Poèmes à voir (1990).


PREMI:


1982 – Grand prix de poésie de L'Academie française

1986 – Grand prix de litérature de la Société des Gens de lettres

1993 – Grand Prix national des lettres

Vasta anche la sua produzione teatrale e Saggi in Le Miroir ébloui (1993).


Il 1995, anno della sua scomparsa a 92 anni.


NOTE CRITICHE:


Claude Michel Cluny – nome de plume – Nato il 2 luglio 1930 a La grandville (Ardennes) – Morto a Parigi 1'11 gennaio 2015. Poeta, critico letterario, rinomato grafico, novellista e romanziere francese.

“J. Tardieu occupa nel panorama poetico francese un posto molto singolare, – a volte tradizionale per il lirismo contenuto che si può inserire nella progenie di Maynard e di Nerval e per un perpetuo rimettere in discussione dello spirito e del linguaggio, si può avvicinare a Max Jacob e Queneau.

La sua è una voce nel deserto “Vaux sans personne” e che accetta una via d'uscita verso il nulla se non quella di un uomo distrutto e condannato in anticipo, senza che niente lo giustifichi o lo salvi.

La difficoltà di essere per Tardieu, è originale; vuol dire che sorge dalla coscienza di essere: questa inquietudine (mal di vivere) la scrittura l’ha presa in carico. Non cede davanti ad ogni dogmatismo, così come scarta le illusioni della metafisica. E questa opera sa ben svelare il volto nascosto delle cose. Pochissime parole – Pochissimi gesti. Ma le une e gli altri organizzati per un poema da recitare…


Tutto è in noi. Noi siamo il luogo del dramma. Questo fiume è ciò che passa e ciò che sarà. Lo crediamo nostro e ci sfugge. Noi siamo e già non siamo più: – Tutta la mia vita è segnata dall'immagine di questi fiumi nascosti o perduti ai piedi della montagna. Come loro per me, l'aspetto delle cose si immerge e si alterna tra la presenza e l’assenza. Tutto ciò che tocca è per metà pietra e per metà spuma –.


Trad. Anna Vincitorio


Jules Supervielle – Montevideo 1884 - Parigi 1996 – legato alla NRF visse tra la Francia e l'America del Sud affermandosi soprattutto come poeta surreale. Di Jean Tardieu afferma: “Poeta molto diverso e sempre suggestivo; egli ha più toni provenienti da una stessa voce. E come egli si pone tra i migliori, niente lo designa meglio di quanto lui stesso non dica: – che lui ama tutti i colori perché la sua anima è oscura –.


Trad. Anna Vincitorio


Federica Locatelli – Diffidate delle parole – …Autore classico ai tempi dell'Assurdo, Tardieu perseguì una ricerca originale che nella padronanza del linguaggio in tutte le sue gamme dalla lirica al divertissement, ci conduce con passo fermo ma bonario oltre gli orizzonti del non senso…”.


Maria Gabriella Bruni – “…La sua opera in effetti non si caratterizza per la linearità nella sua evoluzione determinata da eventi esterni. Si avvolge al contrario su se stessa, come attratta da un centro inesistente, quasi che l'autore esegua una sorta di strano passo di danza sul bordo di un abisso che allo stesso tempo lo respinge e lo trattiene, e dove dà appuntamento a se stesso per tutta la vita. Ed è dal fondo di questo buco che sale la musica della sua scrittura, quella musica disperata, quella musica da lui creata con passione…”.


Georges Emmanuel Clancier – Poeta, romanziere e saggista francese – (Limoges 1914 – Parigi 2018) Opere: … Le pain noir – 1956; La fabrique du roi – 1957; Les drapeaux de la ville – 1959; La dernière saison – 1961; Vari romanzi e tra le raccolte in versi ricordiamo: – Le Paysan céleste, 1943; Une voix, 1956; Terres de Mémoire, 1965; Oscillante parole, 1978; Chansons sur porcelaine, 1984; Passagers du temps, 1991; L'Orée, 1987; trad. di Anna Vincitorio (Presentata a Firenze il 10 maggio 1988 all'Università di Scienze Politiche – Cesare Alfieri – alla presenza del poeta Clancier).


Dalla prefazione a Le fleuve caché. “…L’opera di Tardieu si impone in lentezza, dolcezza, con tutte le sfumature meravigliosamente sensibili, commoventi, erudite, fresche e raffinate, che fondano l'originalità di questa poesia a volte aperta e tragica, tenera e solenne, sottile e stramba. Sembra il risultato di una perfetta civilizzazione del linguaggio piuttosto che una risposta ossessiva a una ossessionante questione… Per Jean Tardieu ogni poema è un teatro senza enfasi dove si gioca in parole di silenzio. Sempre lo stesso e solo il dramma di essere e non essere al mondo, e il teatro un poema che passa dal silenzio del soffio alla drammaturgia delle voci. Questo doppio aspetto del poema-teatro e del teatro-poema si trova per esempio confermato dalla musicalità che Tardieu sa preservare nei dialoghi in apparenza i più quotidiani delle sue creazioni cosi egualmente con l'intrusione del linguaggio parlato nel canto del poema. L’invenzione di una parola per un’altra sa mirabilmente dire senza dire, dal momento che la poesia tende al silenzio attraverso la parola come l’incertezza della vita all’assoluto della morte…Pochissime parole, pochissimi gesti. Ma gli uni e gli altri organizzati per poema da recitare… Tutto è in noi. Noi siamo il luogo del dramma. Questo fiume è ciò che passa e ciò che sarà. Lo crediamo nostro e ci sfugge. Noi siamo e già non siamo più: “Tutta la mia vita è segnata dall'immagine di questi fiumi nascosti o perduti ai piedi della montagna. Come loro per me, l'aspetto delle cose si immerge e si alterna tra la presenza e l’assenza. Tutto ciò che tocco è per metà pietra e per metà spuma…”


Trad. Anna Vincitorio


   20 febbraio 2024

JEAN TARDIEU


Le fleuve caché

Poésies – 1938-1961


Pref. di Georges Emmanuel Clancier.


Accenti – 1932-1938


L’allarme


Palude di paura nella sua stanza

la porta chiusa vedeva oscillare una mano

una mano al di fuori tormentava a tratti il pomello

ma non l’apriva! E due voci corrucciate

risuonavano nel corridoio

“È di me – pensava – che si parla!”…

“Chi mi accusa? Chi mi cerca? Chi mi segue?”

“Di quale crimine sono a conoscenza od ho commesso?”

“Cosa ho dimenticato, o perduto?” ah… la porta

“si apre!…”

Ma no –

si allontanano sui parquéts tremolanti

Si trattava di lei (o di un’altra) Tuttavia!…


I drammi della memoria


Sovente si riuniscono per lottare

contro ricordi troppo forti

ciascuno prende posto in una poltrona

e iniziano a raccontare

Gli accidenti si manifestano per primi

poi l'amore, poi i sordidi rimpianti

infine le speranze mai spente

Tutte queste immagini sono appese

al muro, tra i fiori del foglio


Pensano anche di abituarsi

ai veleni trasfusi dalla loro memoria

– Io nel frattempo, dietro la porta,

vedo il Presente fuggire coi suoi segreti


Incubi


Noi siamo riuniti presso il male

che l'invisibile uragano percuoteva

Questa notte pareva cospirare con noi;

colma d'oro sottratto, era come un cofano

risuonante di consigli

“Lavoriamo!” dice la mia voce – Mille voci risposero: 

“Dove sei?” – “Vicino a voi” – sii nominato

“nostro capo!”

– E le nostre voci, come un fuoco tra i rami,

nel medesimo istante – si fusero

le nostre mani serrate e febbrilmente unite

come una nuvola di uccelli


ad un tratto, vacillò dividendo l'aria e l'acqua,

un leggero soffio bianco di luce

che presto – nella sua corsa – venne verso di me 

e passò sulla nostra ombra disteso, distrutto, fluttuante

col dolce fremere dell'alba… “Addio dunque!”


Mormorò l'ultimo dentro di noi – Partivamo!

Ero solo al sorgere del giorno

Ho visto un solo volto: l’onda


Loro si sono riuniti lontano da me

per parlare nella loro lingua sconosciuta

Io aspetto


Il testimone invisibile

1940-1942


Giustizia sconosciuta


Sempre nell'altra camera lei risuona,

questa voce bassa a traverso il tramezzo;

lei giudica, condanna e poi perdona

un crimine estraneo dalle ragioni profonde


Io non so se sono io il colpevole

Io non so se la voce porta un nome


La paura del sogno


Felice chi per lo sbattere delle porte,

per la presenza di una lampada o il mormorio

di voci che un corridoio conosciuto porta via

per il frusciare delle imposte mal chiuse,

per un riflesso su un mobile, scongiura

un orribile sogno alla sua perdita accanita! 

Per lui il caro difetto delle cose, trema 

così dolcemente, lo chiama, lo richiama!

Tutti gli oggetti che tocca

gli rassomigliano

“Sono io, sono io” si ripete ridendo

Il sogno allora sbattuto contro il muro vacilla

e dall'altra parte striscia fischiando


“Alla fine! Ecco le cose che sono pure

e senza rimpianto di ciò che non è loro!

Io stesso così tengo indosso come un’armatura

ai confini del tempo, contro tutto ciò che è proibito

come un frammento d’una pietra immortale

dove mai sogno o spettro non ha morso”.


Ma o cielo! sventura se c'è ancora un sogno

capace di planare in attimi senza idee

se ogni sponda si solleva in spuma

se lo sguardo è un cammino perduto

e se il tuo cuore sotto le tue mani atterrite

batte per lui solo in un mondo sconosciuto!


Ombre


Frangia d’invisibile,

tremante di segreti,

l’assente che ti prega

e che ti ha condotto

bagnato nella sua ombra

attraverso il giorno,

legato nel silenzio

a tutte le foglie,

a tutte le pietre

e a tutti i tempi

non è sempre

questo vasto te stesso dove ti sei perduto?


Qui mi vince la speranza, qui la paura,

qui in certezza e il rimorso –

O aliti che rianimate la fiamma spenta

quale fumo ai margini della morte?


Per andare avanti io ruoto su me stesso,

ciclone per l'immobile abitato

di ogni lampo attendo che lo attenui e amo

dal fondo di un abisso intravedere luccicanze


Fiori! Fiamme! Giochi e canti di un giorno senza affanni

Posso infine sorridere alle vostre immagini

E vi vedo con uno sguardo alieno!


XII


Quando ascolto e non comprendo

quando guardo senza vedere,

quando cammino senza un passo,

quando il mio sole diventa nero,


Io scompaio senza morire, 

vivo senza muovermi, 

nessuna speranza, nessun ricordo

nelle fucine del momento


Sciogliersi? Sia, ma per rinascere!

Finire per ricominciare!

Il mondo va guardato con nuovi occhi

sui cammini cancellati


XV


Una strada si rievoca

tutti i passi dispersi

Ma lei aspetta e niente ancora

è realmente apparso


1942-43 Notte

La città ai piedi dello spazio


Questo piccolo spazio è per lo spirito

sferzato come il cielo dalla rondine

dove il vuoto pavimento per l'esile rumore

di una bicicletta vista da persone dalle sopracciglia

cupe, le braccia colme di pacchetti tristi

Lo spazio, quale sete! con i nostri passi

così lenti a srotolare

delle strette piste

sotto le case dove non ci sono sorrisi

Scorre il tempo ma il limite è sempre là –


O sorgente sui tetti sempre presente

emetti vapore in senso contrario per occhi colmi di ardore

e sempre più ti sforzi di essere assente

spazio, tieni unito il tempo per rilasciare

i nostri corpi torturati dalla speranza!


Troppo poco spazio e troppo tempo! O tugurio,

nave spazio compressa in questo porto,

solleva le pietre dalla tomba

di questi morti,

sradica cordoni di fumo, apprestati nella notte

fa di ogni finestra un’apertura

spalancata sulla libertà dell’infinito!


Giorni pietrificati 1943-47


Gli occhi bendati, le mani tremanti

tradito dal rumore dei miei passi

che segue ovunque il mio silenzio

perdendo la traccia dei miei giorni

e io, sia che aspetti o che vada oltre

mi rigiro nel fondo del mio sonno

desolato come la speranza

innocente come il rimorso


Un uomo che finge di vegliare

imprigionato nella infanzia

l’avvenire splende immerso nella sua immobilità

noi ancora ce ne ricordiamo

il sole vibra senza fare un moto

il tempo monta come il mare


Non c'è nessuno


Questa assenza ha gli occhi degli alberi

una figura cava e alta si riversa

estranea alla mia primaria essenza –


Fiori e abisso 


1

Sotto i fiori che so non ci sono praterie

ma il latte nero dell'abisso ignoto,

nel mio sonno amaro io li restituisco alla notte

loro calano spegnendosi lentamente –


2

Una sola casa si appressa

al bordo fiorito dell'abisso

il suo fumo già si tinge d'azzurro –

Ah! che le parole possano salvarla

prima della sua caduta

e che senza rumore, senza sofferenza

diviene aura!


IV


Due mani che hanno perso le tracce di un viso

avanzano fiutando l'ombra alla ricerca

di una forma un tempo umana. Ma

la maschera è colma per l'abisso –

le mani spaventate si ritirano e riportano via i fiori


Per guadagnare i terribili favori dell'abisso

noi alberi saliremo dall'interno fino ai nostri fiori

Allora il vento, allora l'autunno, allora

il nostro adempimento sarà

questa caduta leggera, felice o desolata –

Regina della terra

Dedicata a Albert Camus



Come un ricordo

io ti ho incontrato

persona perduta


Come la follia

ancora ignota


Fedele, fedele

senza voce e figura

tu sei sempre là


Nel fondo del delirio

che da te proviene

io parlo, ascolto

e non comprendo


Tu solo, tu vegli

tu sai chi sono

la terra si gira

dall’altra parte

non ho più giorno

non ho più notte


Il cielo immobile

il tempo trattenuto

la mia sete e il mio timore

mai placato


Perché io ti cerco

tu le hai protette!

Sorella impenetrabile,

delirio della mia vita, lasciami andare!


Se del tuo mistero

Io sono il corpo e beni

l’attimo e il luogo


oh ultimo naufragio

di questa ragione

con il tuo silenzio

col mio dolore

con l'ombra e l'uomo

cancella il dio!


Sbaglio che non potrò espiare

io non ho rimorsi –

In un solo spazio

voglio un solo mondo

una sola morte


Monsieur Monsieur

1948-50


Monsieur Monsieur ai bagni di mare


Un giorno vicino al mare

Monsieur e Monsieur soli

parlavano tranquillamente

e mangiavano una mela!

e quale quiete

quando l'abisso senza margine

mescola senza sforzo

le cose e le genti!

Per chi è simile a Dio i giorni particolari

non sono necessari


La questione non è là

Monsieur risponde a Monsieur

noi siamo effimeri,

ora la totalità

della grande Unità

essendoci rifiutata

è per la quantità

che noi ne siamo fuori

E noi ne facciamo tesoro


Dunque la diversità

per noi su questa terra

è la necessità –

Guardate questo pesce

che non è un uccello

non è una mela

non è la balena

non è il battello…


– Ah per me è la medesima cosa,

interruppe Monsieur

la balena e la mela

dinanzi all'eternità

sono eguali –


A queste parole il vento soffia

portando via i loro cappelli

e i due personaggi

nel cielo blu e bello

svaniscono all'improvviso


la notte il silenzio e l'aldilà


Un sospiro nello spazio infinito

poi una voce mormora:


“Gondran, sei tu là?”


Nessuna risposta

Dei passi si allontanano come le nuvole


Il piccolo ottimista


Fin dal mattino

ho guardato dalla finestra;

ho visto passare dei fanciulli –


Un'ora appresso erano persone

un'ora dopo, vecchi tremolanti –


Come invecchiamo velocemente, ho pensato!

E io che ringiovanisco in ogni istante!





Oracolo


(Dapprima esitante attraverso il fumo profetico

Poi, affermativo, ritmato,

scontroso il piede che batte il suolo)


Dello ieri non c'è più

c'è piuttosto il domani

oggi come ieri

è sempre per domani –

Nel fuoco

Nel fuoco

nel fuoco nel fuoco

nel fuoco della terra

metterò le mie due mani


Metamorfosi


In questa notte nera

che la Storia ci crea

avanzo a tentoni

sempre stupito

sempre sbigottito:


Io prendo il mio cappello

è un carciofo


abbraccio la mia donna

è un guanciale


carezzo un gatto è un annaffiatoio


apro la finestra

per respirare aria pura

c'è un vecchio armadio

pieno di muffe

prendo un rospo

per un calamaio

la bocca di nausea

per la cassetta delle lettere

il fischio del treno

per una rondine

il rumore di un motore

per il mio stesso cuore

un grido per ridere

la morte per la vita

gli altri per me


Una voce senza nessuno

1951/53


Il mondo immobile


Pozzo di tenebra

fontana senza suoni

lago senza splendore


presenza densa

battito debole

l’istante è là


niente, nessuno

un’ombra pesante

che non parla


io attendo dei secoli

niente risuona

niente appare


su questa tomba

lo spazio si muove

è il mio pensiero


per nessuno sguardo

per nessun orecchio

la verità









Storie oscure

1955-60


L’inferno a domicilio


Nel segreto di un oscuro corridoio

nel fondo di un ghiaccio fluttuante

un uomo incontra la sua immagine


Si vede come vorrebbe essere

fiero, gioioso, trionfante

e soprattutto giovane, ah come un dio!


Ma l'immagine svanisce e si perde

al rumore dei tubi che gemono

e all'improvviso gli vien meno il cuore:


nel ghiaccio (che trema un po’

al passare di ogni vettura)

sembra un nuovo abitante

che lentamente, lentamente

si svincola,

una sorta di cane dal dorso rotondo

che verso il cielo squadrato del cortile

urla alla morte e lancia uno sguardo pieno di lacrime


Una donna un uccello


L’uccello molto grande

che sorvolava la pianura

al medesimo ritmo che le valli e le colline

lungamente l’abbiamo visto planare

in un cielo assoluto

che non era il giorno

che non era la notte

Una cicogna? Un aquila? All’improvviso 

il volo silenzioso di un gatto che fischia

e questa regale apertura alare

di un dio che diveniva uccello…

I nostri occhi un istante deviati

improvvisamente videro scendere la meraviglia:

era la figlia dell’aurora e del desiderio

angelo nei nostri solchi caduto

con un corpo più femmineo dello stesso amore e che lungamente

posa i suoi piedi appena sul suolo perché il vento delle sue ali

lo sollevava ancora – Infine il liscio e bianco piumaggio

su questa donna di cristallo si ripiegò

Lei sembrava non vederci

né stupirsi che un lago

davanti ai suoi passi si era già aperto

lei ci si tuffava sorridendo per se stessa

felice di ricordarsi

degli elementi precedenti

e di un tempo senza limite…Lei ha

ordito in quest’acqua trasparente

i segni di un linguaggio sconosciuto

poi agitandosi, cerchiata di perle

di nuovo brillante e ghiacciata

batté il piede sulla terra

Così io la vedo ancora leggermente inclinata in avanti

e già quasi distaccata

cosi noi l’abbiamo vista risalire scomparendo nell’azzurro

È da dopo quel tempo là che io so

per quale esile volere e quale segreto movimento

noi possiamo volare quando ogni cosa dorme


Il boia dei fanciulli


Il fanciullo terrificato mine il suo braccio sugli occhi,

ma l’Uomo a passi sempre più grandi scendeva –

Il fanciullo chiamò a suo soccorso

tutto ciò che è visibile e invisibile. Ma l’Uomo

con il passo sempre più largo e pesante

gridava: “Tu non dovevi vedere e hai visto,

tu devi morire! E il suo pugno si alzava

e i suoi occhi lampeggiavano


Il fanciullo fece un ultimo sforzo

per staccarsi da questo mondo

e siccome il boia lo attendeva

divenne brace di un fuoco di rami

e dal vento dissolto


Allora il vagabondo sull’erba fredda vacillò

scosso dai singhiozzi –


Natura


C’è un uccello che si avvicina piangendo

C’è una nuvola che parla sognando

una roccia rotola per passare il tempo

un roseto si ammira nello specchio d’uno stagno

gli alberi della foresta

sono là come genti, genti

Tutto questo forma una folla che aspetta

– ma l'uomo, – assente, assente, assente…


Traduzioni di Anna Vincitorio