E ti rivissi, vita,con un sentire lieve e tanto amato che in ogni fatto lieto o meno lieto,ma scampato, vidi un superbo dono
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giovedì 9 maggio 2024
Angela Ambrosini :"Divagazioni Sulla Metapoesia"
Quel peculiare
risvolto della poesia che attua una riflessione in fieri sulla poesia
stessa, la metapoesia, affiora sia pur di nicchia (ma più spesso di quanto si
possa immaginare) in un percorso trasversale a ogni cultura e procede da molto
lontano, laddove la proprietà di “riflessione” si dilata nella duplice
accezione del termine, sia inteso come consapevolezza cognitiva che come
sdoppiamento, riproduzione verbale autoreferenziale di un aspetto del poiein.
A volte il poeta si pone domande sulla propria identità di “poeta”, come nel
conosciutissimo scanzonato verso di Aldo Palazzeschi che nella poesia Chi
sono? (in Poemi, 1909) risponde a sé stesso “Il saltimbanco
dell’anima mia”, prendendosi indirettamente gioco della Desolazione del
povero poeta sentimentale di Sergio Corazzini che affermava, negando
apofaticamente, “Io non sono un poeta”. In entrambi i casi, il poeta “specula”,
riflette cioè su sé stesso e sul proprio ruolo. Come la lingua attraverso la
grammatica indaga su sé stessa, dando origine al “metalinguaggio”, così ai
poeti di ogni epoca e latitudine piace ogni tanto guardarsi allo specchio per
riflettere sullo stesso genere letterario di cui sono agenti attivi. E
la nota di rilievo è che tale auto-osservazione non si esplicita in prosa
critica (come parrebbe più logico), ma in poesia stessa. Nel caso del succitato
Palazzeschi l’intento è di dichiarata giocosità, quasi un’eco del giullare medioevale,
sia pur specificando di voler “mettere una lente davanti al cuore per farlo
vedere alla gente”. Torniamo all’immagine dello specchio, lo speculum,
strumento per esplorare, anche in ambito medico, cavità altrimenti
inaccessibili. A proposito del simbolo dello specchio, un paragone forse
ardito, ma plausibile, si potrebbe instaurare mutatis mutandis con il
famoso quadro Las meninas di Velázquez la cui figura campeggia mentre dipinge nel suo
laboratorio personale alla Corte di Re Filippo IV, riflesso invece in uno
specchio in secondo piano insieme alla Regina Marianna d’Austria. La critica
ipotizza che a sua volta lo stesso pittore di corte sia riflesso in uno
specchio immaginario situato al posto dell’osservatore per realizzare un
autoritratto in modo da esaltare non solo la personalità di colui che ritrae la
coppia reale, cioè il pittore stesso, ma persino quel processo pittorico del
caos compositivo in cui è immersa la scena, una delle inquadrature più
innovative e anomale della storia della pittura, soprattutto se pensiamo
all’anno di composizione, 1656. Ma è proprio questo caos che innesca uno
stupefacente gioco prospettico tra il pittore, l’osservatore e i personaggi del
dipinto. Il concetto di caos, cardine
del barocco, concorre a riformulare in altri termini il processo artistico
interiore che conduce al Cosmos, all’ordine del risultato finale nel quale
anche ogni poeta di ogni epoca spesso si dà uno scopo quando non una specie di
programma. Ricordiamo il celebre verso Hominem pagina nostra sapit, (“la
nostra pagina sa di uomo”) con cui Marziale (40 d.C.) rivendica l’impegno etico
e sociale dei suoi Epigrammi poetici dopo i vagheggiamenti e
vaneggiamenti mitologici della fase dei “mostri”. Nella storia della nostra
letteratura, il primo conosciutissimo esempio di rudimentale metapoesia
in lingua volgare è l’Indovinello veronese (XI sec.) che, in una catena
di metafore a visualizzare dita, penna, pagina bianca e inchiostro, (il “seme
nero”), allude comunque solo all’aspetto materico della scrittura, tipica
dell’amanuense. (Se pareba boves, /alba pratalia arabat/et albo
versorio teneba/et negro semen seminaba”, cioè “anteponeva a sé i buoi, /bianchi
prati arava, /un bianco aratro teneva/ e un nero seme seminava). Ma, a parte questo caso storicamente noto per
una datazione più o meno attendibile della comparsa del volgare in Italia,
ovviamente l’attenzione di chi scrive si focalizza più spesso sulla funzione
della poesia e del poeta. Esistono varie modalità di approccio metapoetico di
cui sarebbe davvero interessante fare una rassegna ampia, ma ora limitiamoci ad
alcune tra le più originali, anche se non tutte esattamente “poetiche”, come il
tono precettistico di Tristan Tzara in Per fare una poesia dadaista:
“Prendete un giornale. /Prendete un paio di forbici./Scegliete nel giornale un
articolo…./Ritagliate l’articolo/…/Agitate dolcemente ecc. ecc.”. Altre
volte il tono si fa declamatorio, come nella celebre Art poétique nella
quale Verlaine, inaugurando la stagione simbolista all’insegna della
musicalità, si scaglia contro la retorica: “Prendi l’eloquenza e torcigli il
collo!”. In altri autori emerge la modalità esplicativa. Pensiamo a Vladimir
Majakovskij, il poeta della Rivoluzione russa, che in Il poeta è un operaio
paragona anche nel lessico il lavoro del poeta a quello dell’operaio negli
altiforni: “Noi limiamo i cervelli / con la nostra lingua
affilata”. Quasimodo si definiva in tono più intimista “Uno come tanti, operaio
di sogni” (in Epitaffio per Bice Donetti). L’opera di
Quasimodo offre una messe di sottili richiami metapoetici, spesso ad alto
indice di metaforicità, per cui a una prima lettura il significato metapoetico
rimane non immediatamente percepibile. Citiamo il bellissimo verso “Tu ridi che
per sillabe mi scarno”, nel quale il poeta (nella lirica non a caso intitolata Parola,
tratta da Oboe sommerso) afferma proprio quel processo di
scarnificazione che dal caos si placa nel cosmos della creazione poetica. La
stessa immagine dell’oboe rimanda metaforicamente alla poesia il cui suono
“sommerso” va esplicitato e tratto alla luce dall’inconscio. Celeberrima è la
lirica Alle fronde dei salici (dalla raccolta Col piede straniero
sopra il cuore) di ispirazione etico-civile, elemento tematico ravvisabile
anche nel passaggio formale dall’io della fase ermetica al “noi” che evoca
l’Italia dell’occupazione nazista. Tuttavia, solo dopo una lettura attenta
della breve lirica, se ne percepisce la valenza interamente metapoetica, evidenziata
dal celeberrimo incipit “E come potevamo noi cantare…?” , con cui il poeta si
discolpa per il lungo silenzio poetico negli anni drammatici del secondo
conflitto mondiale, utilizzando questa volta lo strumento musicale della cetra,
simbolo della poesia classica, come elemento-lessema di aperta intertestualità
con il famoso lamento biblico 137 degli ebrei in esilio a Babilonia dopo la
caduta di Gerusalemme: “Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al
ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre”. In un
altro testo autoreferenziale, metapoetico, meno conosciuto, Quasimodo torna al
concetto di “scarnificazione”, cioè sostanzialmente di labor limae in
senso sottrattivo, consustanziale all’equilibrio nel genere poetico: “Ma
se scarnire non sapevo un tempo / la voce primitiva ancora rozza, /avidamente
allargo la mia mano: /dammi dolore cibo cotidiano” (da Avidamente allargo la
mia mano, in Ed è subito sera).
Affiora con prepotenza la relazione necessaria e diremmo quasi
religiosa, tra la poesia, quella autentica, e il dolore. “Dammi dolore cibo
cotidiano” suona quasi come una parafrasi del Padre Nostro e in questa
“necessità” del dolore quale seme della creazione poetica, sembra fargli eco la
poetessa Alda Merini nei suoi versi “Le
più belle poesie/si scrivono sopra le pietre/coi ginocchi piagati/ e le menti
aguzzate dal mistero”. Il senso
esperenziale del mistero si ravvisa nella parola “abisso” evocata da Ungaretti
con il suo quid di inesplicabile, irraggiungibile aderenza alla realtà.
Ogni poeta che non si limiti a una modalità puramente ornamentale, araldica e
sensoriale della poesia sperimenta un senso di inadeguatezza della parola. Sono
certa che molti di noi che scrivono avranno in un certo senso “patito” questa
sensazione. Arriva un momento in cui chi scrive si guarda in questo specchio
interiore di cui dicevamo e inizia a interrogarsi sul senso della propria
scrittura. C’è sempre qualcosa che non salda compiutamente il significante al
significato; chi nutre una concezione consapevole e non epidermica della poesia
sa che sovente qualcosa sfugge alla parola. Di qui la famosa invocazione
del poeta spagnolo Juan Ramón
Jiménez che si rivolge implorante alla “intelligenza” (che altro non è che il Logos,
opposto al semplice abbinamento significante-significato) “Intelligenza, dammi
/ il nome esatto delle cose! / Che la mia parola sia / la cosa stessa”. Simile
senso di impotenza, ma amplificato e sperimentato difronte alla visione divina,
era stato motivo di cruccio in Dante che nel canto 33 del Paradiso esclama
“Ormai sarà più corta mia favella” (vv 106-108) rammaricandosi (121-122) “Oh
quanto corto è il dire e come fioco/ al mio concetto”, consapevole del misero
tentativo di dire in modo comprensibile ciò che è ineffabile. È un esempio del
cosiddetto sublime rovesciato mediante il quale ciò che è smisurato si
manifesta nel parlare semplice. In un altro celebre caso, quello di Montale in Ossi
di seppia, affiora la modalità metapoetica in negativo “Non chiederci la
parola che squadri da ogni lato/l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco/
lo dichiari e risplenda come un croco/ perduto in mezzo a un polveroso prato/…/
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti/…/ Codesto solo oggi possiamo
dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Altrove Montale scrive che
“la poesia non è fatta per nessuno, /non per altri e nemmeno per chi la scrive.
/Perché nasce? Non nasce affatto e dunque/non è mai nata. Sta, come una pietra,
/ o un granello di sabbia. Finirà / con tutto il resto” (da Asor in Diario
del ’71 e del ‘72)
Nella poesia
contemporanea si avverte spesso infatti un senso di spersonalizzazione, già da
Thomas Eliot enunciato come motore della vera poesia. “La poesia non è un modo di liberare l'emozione, ma una fuga dall’emozione; non un’espressione della propria
personalità, ma una fuga dalla personalità. Ma, naturalmente, solo coloro che
hanno personalità ed emozioni sanno cosa significa voler fuggire da queste
cose” (dal saggio Tradizione e talento
individuale). Scrivere poesia, vera poesia, per il grande poeta
statunitense non equivale a esaltare l’io, ma a fuggire da esso, non ad
esprimere la propria interiorità, ma ad anelare all’universalità evitando
quindi le emozioni, non rincorrendole (Eliot ricorre ai termini dry
hardness, asciutta durezza). Borges addirittura, da parte sua, nel suo
amore per il paradosso, arriva a dire che la vera poesia è impersonale. Avvicinandoci
al nostro tempo, il Premio Nobel della letteratura 2012, lo svedese Tomas
Tranströmer annota: “Stupendo sentire come la mia poesia cresce/mentre io mi
ritiro. / Cresce, prende il mio posto./ Si fa largo a spinte. /Mi toglie di
mezzo./ La poesia è pronta.” Si celebra così l’autosufficienza della poesia
rispetto alla stessa volontà del poeta, incapace a contenerne tutta la portata.
Il grande poeta
francese Yves Bonnefoy, profondo conoscitore e traduttore di Shakespeare, ben
conosceva l’inadeguatezza della parola a colmare lo scarto semantico non solo
tra una lingua e l’altra, ma anche in ambito intralinguistico, il divario tra
ciò che si desidera esprimere e ciò che invece rimane imbrigliato dalla e nella
parola. Nei bellissimi versi di Le nostre mani nell’acqua ripropone il
motivo di questa insoddisfazione atavica che il linguaggio consegna all’uomo
nella sua ansia conoscitiva: “Noi immergevamo le mani nel linguaggio, / vi
afferrarono parole delle quali non sapemmo/che fare, non essendo che i nostri
desideri. / Noi invecchiammo. Quest’acqua, nostra trasparenza. /Altri sapranno
cercare più nel profondo / un nuovo cielo, una nuova terra”.
A voler ribadire questo senso di impotenza nel
tematizzare perfettamente il reale, concludiamo il nostro breve percorso
sdrammatizzandolo, così come lo avevamo iniziato, con altri versi scanzonati,
questa volta di Giorgio Caproni: “Buttate pure via/ ogni opera in versi o in
prosa/nessuno è mai riuscito a dire/ cos’è, nella sua essenza, una rosa” (Elogio
della rosa)
Angela
Ambrosini
sabato 4 maggio 2024
XXVII PREMIO NAZIONALE MIMESIS di poesia 2024
XXVII PREMIO NAZIONALE MIMESIS
di poesia 2024
Il Premio Nazionale Mimesis di poesia (di
seguito detto Premio) è indetto e
organizzato a cadenza annuale dall’Associazione Culturale Teatrale Mimesis in
collaborazione con il Comune di Itri
(LT), con il supporto di Wikiamo web
agency, A. Caramanica Editore, il
blog Alla volta di Leucade e il Circolo
IPLAC.
REGOLAMENTO
SEZIONE A) Poesia inedita: Si partecipa con un massimo di tre poesie a tema libero, in lingua
italiana o in uno dei dialetti d’Italia (con indicazione della provenienza e traduzione).
Per poesia inedita s’intende mai divulgata tramite qualsiasi mezzo né associabile all’autore
fino all’esito della classifica.
Se nel frattempo fosse pubblicata o associabile, la segreteria potrebbe
spostarla nella sezione B in seguito a comunicazione dell’autore.
SEZIONE B) Poesia edita: Si partecipa con un massimo di tre poesie a tema
libero, in lingua italiana o in uno dei dialetti d’Italia (con indicazione
della provenienza e traduzione).
Non
si può partecipare con opere già premiate in questo concorso. L’inosservanza delle regole
comporterà, senza preavviso, l’esclusione dei testi anche a premi attribuiti.
GIURIA DEL PREMIO
Presidente Nazario Pardini (ex ordinario di
Lingua e Letteratura Italiana, poeta, critico letterario, blogger), vice pres. Patrizia Stefanelli (presidente
dell’Associazione C. T. Mimesis, poetessa, regista teatrale e organizzatrice di
eventi), Salvatore Mazziotti
(docente di storia e filosofia, assessore alla cultura del Comune di Itri), Alessandra Corbetta (scrittrice, poetessa
e blogger), Vittorio Di Ruocco (vincitore
2023), Gianfranco Domizi (vincitore Premio Nicola Maggiarra 2023), Alfredo Panetta (vincitore 2023), Segretario: Giovanni Martone.
La giuria, pro
bono e con giudizio insindacabile, valuterà le liriche in forma anonima e
stilerà una graduatoria di 12 vincitori per
sezione.
Le opere
premiate saranno pubblicate in un volume a spese del Premio. I poeti, conservando
tutti i diritti, ne autorizzano la stampa senza nulla a pretendere.
PREMI SEZIONE A Poesia inedita
1° classificato: € 500, targa con motivazione incisa, 5
copie dell’antologia.
2° classificato: € 200, targa con motivazione incisa, 5
copie dell’antologia.
3° classificato: € 100, targa con motivazione incisa, 5
copie dell’antologia.
VINCITORI dal 4°
CLASSIFICATO: Targa con incisione
della poesia, 5 copie dell’antologia.
PREMI SEZIONE B Poesia edita
1°classificato: Contratto editoriale per la
pubblicazione di una silloge di 64 pagine in 100 copie, targa con motivazione, 5
copie dell’antologia.
2° classificato: € 200, targa con motivazione, 5 copie
dell’antologia;
3° classificato: € 100, targa con motivazione, 5 copie
dell’antologia.
VINCITORI dal 4° CLASSIFICATO:
Targa con incisione della poesia, 5 copie
dell’antologia.
PREMIO “NICOLA MAGGIARRA” Trofeo e una copia dell’antologia al
primo classificato tra i poeti della provincia di Latina non presente tra i 24
vincitori.
TARGA SPECIALE “
GIURIA STAMPA”
Conferita a
una poesia, tra le 24 vincitrici, dai
giornalisti: Franco Cairo, Orazio La Rocca, Gaetano Orticelli, Orazio
Ruggieri.
La
segreteria spedirà (senza costi per i poeti)
il trofeo/targa e una copia dell’antologia. Per i premi in denaro e il
contratto editoriale è richiesta la presenza degli autori.
La serata di
premiazione, preceduta dalla conferenza stampa per Lazio TV in cui i poeti
saranno intervistati, si terrà a Itri nella terza settimana del mese di agosto
2024. Al termine della conferenza sarà offerto un buffet.
MODALITÀ D’ISCRIZIONE
L’iscrizione al concorso prevede un contributo, di €15
per una sezione e €25 per due, da versare tramite:
-ricarica PostePay n. 5333171222725364 intestata a Patrizia Stefanelli Cod.
Fiscale STFPRZ60D50D708D. Causale: Contributo per spese di segreteria.
-PayPal a: info@associazionemimesis.com
-bonifico
bancario verso Associazione Culturale Teatrale Mimesis IBAN IT 04N 01030 74000
000000658870 MPS filiale di Itri (LT). Causale: Contributo per spese di segreteria.
INVIO OPERE: entro l’8 giugno 2024
Tramite e-mail a info@associazionemimesis.com
Scrivere
nell’oggetto: Premio Nazionale Mimesis, nome e cognome del poeta partecipante,
sezione.
Allegare: 1) Poesie in unico file formato word,
carattere Times New Roman 12, senza alcun segno particolare; 2) dati
anagrafici, domicilio, n° di telefono, indirizzo e-mail; 3) copia del
versamento.
Tramite servizio postale: a Giovanni Martone, Contrada Campanaro Alto, 9 -
04020 Itri (LT). Spedire una copia di ogni poesia scrivendo sul retro i dati
personali e la sezione in cui si concorre. Accludere al plico copia della quota
contributiva versata. Farà fede il timbro postale.
Tutti gli autori riceveranno notifica della
corretta ricezione delle opere e dell’iscrizione al Premio.
Risultati in www.associazionemimesis.com
htthps://www.facebook.com/premiomimesis/ e nel blog Alla volta di Leucade. La segreteria del
Premio contatterà i vincitori, tramite e-mail e telefono, almeno 15 giorni
prima della data di premiazione. L’autore, con la partecipazione al concorso, accetta
le norme del bando, dichiara la proprietà delle opere, acconsente al
trattamento dei dati personali ai sensi del d. Lgs. Nr.196/2003. Telefoni utili: 3475243092/ 3403243843
giovedì 2 maggio 2024
Enzo Concardi legge "Poesie nascoste nella dispensa" di Pietro Rosetta
GUIDO
MIANO EDITORE
NOVITÀ
EDITORIALE
È uscito il
libro di poesie:
POESIE NASCOSTE
NELLA DISPENSA di PIETRO ROSETTA
con prefazione di Enzo Concardi
Questa prima raccolta poetica di
Pietro Rosetta naviga a vista tra il canto d’amore e la ricerca esistenziale
senza approdi. Per la prima tematica vale tout court il richiamo al
leopardiano amore e morte, nel
senso di un romanticismo sentimentale che nel nostro autore trova dimora in
quasi tutte le composizioni: vedremo più avanti nell’analisi dei testi quante
numerose siano le immagini, le espressioni e le atmosfere che ‘affratellano’
l’amore con la morte. Trattasi quindi di un sentimento forte, passionale, che
non fa sconti alle banalità e ai luoghi comuni di tanta poesia amorosa
contemporanea; che traccia la sua rotta spesso lontano dalla felicità,
condizione sporadica e quasi casuale, forse più assenza di dolore al posto di
una vera gioia; che appare romanzato e senza un fine, assumendo la forma di un
isolato e spinoso canto del transfert realizzato solo parzialmente,
poiché vissuto con intensa problematicità.
Talvolta sembra un andare e riandare
nella memoria, in bilico fra esperienza ed immaginazione, talaltra s’imbatte -
lo sviluppo della scrittura - in una sorta di ermetismo di significati, in
quanto il poeta crea delle pièces, anche oniriche, sospese nel vago e
nell’indefinito, dove è presente un ‘tu’ nel ruolo di interlocutore che
potrebbe essere sia un altro-da-sé, che il suo alter-ego. La mancanza di titoli
- sostituiti da asterischi - nella quasi totalità delle poesie, accentua tale
impressione di mistero e vaghezza che, tuttavia, conferiscono alle liriche un
senso di fascino dell’ignoto.
Per la tematica
esistenziale stile e contenuti non si discostano granché da quel che abbiamo
detto finora, tanto che si potrebbe definire, l’amore stesso, un fatto
esistenziale, parte integrante di una vita concepita come viaggio, avventura umana, naufragio nella follia e
nella morte, intese non in senso biologico,
ma come condizioni interiori e spirituali. Ma il poeta non vorrebbe naufragare,
per cui la lotta fra Eros e Thanatos è incessante e spossante. Le
opposte tendenze, la luce e le tenebre, l’angoscia e la speranza e tutto ciò
che è dualistico, bipolare costituiscono forze sempre attive, al lavoro
nell’io, impedendo la pace in ultima istanza agognata.
Non per nulla la raccolta inizia con
un inusuale - per la mentalità odierna - inno al dolore umano maturato nel
nascondimento: tale è la lirica d’apertura, I canti delle vedove. Essa è
degna di nota per più di un motivo. Innanzitutto vi sono espressioni di una
religiosità antica ma popolare che assumono valore poetico, come: «vecchie
chiese di periferia», «luci di candele ingiallite», «parrocchie dove c’è un
prete solo», «quei vecchi rosari».
In secondo luogo tali canti vengono
definiti, di strofa in strofa, in un modo diverso assumendo significati plurimi
e connotando la profondità del dolore: sono voci destinate a spegnersi ma senza
tempo; sono reiterati come cantilene infinite dai ritmi battenti nell’arcano
silenzio; sono disperazione e lucida follia, adombrando la condizione
spirituale di chi li vive; sono «…la speranza cieca / che ognuno di noi porta
dentro…», ossimoro ad indicare che «…il presente è vietato / ma il futuro è
possibile…»; ed infine c’è l’immedesimazione fra i canti delle vedove e la
preghiera personale del poeta nel chiuso e nel
raccoglimento della sua stanza, similitudine che ci induce a vedere in lui un
soggetto travagliato nei gorghi esistenziali dell’avventura umana. Inoltre, il
titolo trasformato in anafore all’inizio di ogni strofa tranne l’ultima, assume
valore di nenia quasi tragica, richiamante il lutto, il dolore, la morte.
Tale canone metrico, sintattico e
contenutistico è il più utilizzato dall’autore in tutto il libro, che prende
così la forma di un poemetto unitario, dalle tematiche esperienziali
altalenanti ed autobiografiche senza tempo, sempre teso su livelli di
comunicabilità intensa e profonda, che immerge il lettore nel suo messaggio
traslato come una carica elettrica. Si diceva all’inizio di amore e morte come
leitmotiv della sua poesia amorosa, ed ecco le prove. «Ti parlerò ancora
/ per pochi giorni / poi, come le onde impetuose / s’impennano al vento e
muoiono, // anch’io mi confonderò nel mare, / culla e cimitero di tutti noi, /
onde della stessa acqua» (poesia senza
titolo, p. 18). In un’altra lirica il connubio è esplicito: «Nudi i nostri
corpi la passione trascina / lungo il fiume che ha inghiottito / il mio intimo
più segreto insieme al tuo / torrida e infinita // fradici i nostri cuori,
sulla riva, / rabbrividiscono al confondersi / di amore e morte / gelide ombre
mescolate nella corrente» (poesia senza
titolo, p. 19). Anche nella lirica «In riva al mare i sogni…» (poesia
senza titolo, p. 22) la fine di un amore viene espressa con il verbo morire
e sulla spiaggia amara giace l’amore esanime.
Vi è poi la variante dell’amore
agonizzante, non ancora morto, ma prossimo alla fine. Bastano due liriche per
capirne il respiro. Nella prima (p. 27) la perplessità su una relazione si
esprime con immagini forti: «…Non so se le tue mani si confonderanno / alle
mie, nelle carezze vellutate / o se la morte lucida già nel marmo / i nostri
nomi scolpiti…». Nell’altra (p. 69) immagini marine simboleggiano un imminente
naufragio, difficile da evitare: «... e in balia di una zattera / ho
abbandonato il nostro amore / che ogni giorno rischia di annegare».
Ma la poesia amorosa di Pietro
Rosetta contempla pure l’altra faccia della medaglia, dove l’amore si concede
agli amanti, nonostante, talvolta, incontri contrasti. E il poeta ci parla di
un amore bello da vedere, di un tempo che è sbocciato per unire corpi e anime,
di un tempo che è maturo nonostante aspri e contorti intrecci, di sogni
angelici, di assenze dolorose, di notti rubate al sonno, di schiavitù d’amore,
di complicità profonde per dar senso alla vita… e finalmente il canto A
Paola, l’amore dissetante per una donna: divinità terrena, musa della vita,
senso del domani, compagna di viaggio e di ripartenze.
Oltre la dimensione del sentimento
umano, il poeta accoglie nella sua sensibilità le vibrazioni esterne dei vuoti
interiori, dei deliri e delle follie individuali e sociali, dei pericoli dentro
mari tormentati, della paura di solitudini disperate, del rischio di vivere in
isole solo per sopravvivere ai naufragi dilaganti.
Sopraggiungono momenti nostalgici di
un passato ormai lontano, memorie di radici della terra ora chissà dove
abbarbicate e la tenerezza di un volto materno il cui sguardo fa intuire che solo
per te, figlio, io ho vissuto.
Enzo Concardi
______________________
L’AUTORE
Pietro Rosetta vive a Milano; dopo
avere conseguito la maturità classica, si è laureato in Medicina e Chirurgia
nel 1989, e si è specializzato in Oftalmologia presso la Clinica Oculistica
dell’ospedale San Raffaele di Milano. Dopo una esperienza presso la Fondation
Rothschild di Parigi, ha lavorato dal 1997 al 2019 presso l’istituto Clinico
Humanitas di Rozzano, come specialista nella
chirurgia del segmento anteriore e dei trapianti corneali. Attualmente ricopre
il ruolo di Responsabile dell’Unità Operativa di Oculistica dell’Istituto
Humanitas San Pio X di Milano. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni
scientifiche ed ha inoltre partecipato, in qualità di relatore ad innumerevoli
congressi nazionali ed internazionali.
Pietro Rosetta, Poesie nascoste nella dispensa, prefazione
di Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 88, isbn 979-12-81351-21-9,
mianoposta@gmail.com.
venerdì 26 aprile 2024
lunedì 22 aprile 2024
Maria Rizzi su “Il merito del mezzo” di Franco De Luca - Narratori Rogiosi.
Abbiamo presentato presso il Caffè Letterario Horafelix il romanzo di Franco De Luca “Il merito del mezzo”, edito dai Narratori Rogiosi, il quarto che leggo di questo prolifico Scrittore napoletano, e credo che mi accompagnerà per sempre. Non si tratta, infatti, di un libro, che ci si può concedere di leggere e posare sul comodino. Resta tatuato nell’anima per le suggestioni, le immagini, i messaggi, le lezioni di vita. Una crescita ulteriore per Franco, che con testi come “La chiameremo vita” sembrava essere giunto all’apice dell’esperienza creativa. Innanzitutto, ribadisco il concetto espresso in quarta di copertina dall’ottimo Nando Vitali, secondo il quale ‘il suono delle voci sembra salire dalle quinte di un teatro nella polifonia misteriosa della vita.” Il romanzo è corale, non si possono trovare personaggi, solo protagonisti, un’Opera circolare nella quale le storie si susseguono e si intrecciano con maestria. Lo sfondo è ancora e sempre la città di Napoli, che consente a Franco di sentirsi a casa e di concepire ambientazioni e personaggi venati dai caratteri tipici del nerbo narrativo dello scrittore: senso dell’ironia, umanità calda, ricca di pathos, sentimenti di solidarietà. Inoltre l’intero testo è pervaso da un senso inquietante e persuasivo di mistero, una tunica che avvolge i lettori e attrae in modo irresistibile. Napoli non è la protagonista. Sono presenti le frasi in dialetto, le scene tipiche della vita partenopea, ma la città è riassunta, forse, dalla descrizione dell’avvocato Beretta, torinese di nascita, dirigente di un grande studio legale, che una volta trasferitosi a Napoli comincia a soffrire di esaurimento nervoso, eppure dopo la lunga attesa della pensione non fa altro che rimandare la partenza. “Aveva con Napoli un rapporto altalenante: a volte la amava, a volte la odiava… Un po’ come tutti i napoletani”. - estratto del libro. Il romanzo si apre regalando al lettore l’impressione di trovarsi in prima fila mentre si schiudono le quinte di una commedia del grande Eduardo De Filippo. I personaggi, Augusto, Amedeo e Davide possiedono le caratteristiche di tali rappresentazioni: un protagonista, ‘una spalla’, funzionale al protagonista e un giovane dotato di un ‘dono’, che permettono di calarsi nell’atmosfera divertente e venata di malinconia tipica delle Opere dei Maestri dell’arte teatrale napoletana. Non manca la donna avvenente e custode, come Augusto, di un mistero che, come tutti i segreti, è noto ai più: Virginia Piscitelli, vedova del senatore Annibale, che riempie in seguito interi capitoli e si eleva in tutta la sua grandezza morale. Il titolo dell’Opera, che è ben spiegato nella chiusa - diciotto pagine di altissima poesia, che trafiggono l’anima e lasciano letteralmente senza fiato -, non poteva essere più indovinato. Tramite lo scavo psicologico che Franco attua di ogni personaggio si evince che ognuno di loro rappresenta un tramite per favorire qualcuno o qualcosa. Il concetto è spiegato molto bene dalle parole del muratore Agostino Esemplare, altro ‘eroe’ della vicenda, rivolte al commissario Petrillo: “Non vi è mai capitato di sentirvi parte di un progetto più grande? Di vedere che intorno a voi accadono cose che si incastrano perfettamente tanto da favorire un determinato avvenimento? Di sentirvi una specie di… come dire? - una specie di pedina mossa sulla scacchiera di un’intelligenza superiore?” La settimana di eventi, che si svolgono nel quartiere di Santa Caterina, nel cuore del centro storico di Napoli, vede un intreccio letterario che sembra statico, ma è in levare a ogni respiro. Le vie, i vicoli, il chiostro, l’edicola della Santa palpitano insieme ai battiti anarchici dei protagonisti delle storie, che simbolizzano elementi caratteristici della storia di Napoli, del suo presente, a tratti cattivo come i passi dei diavoli, e del suo passato, per sempre vivo nelle anime degli abitanti. Come in un carillon, che resta ‘teatro a cielo aperto’, la musica muove le scene al ritmo dei sentimenti e il bene controlla il male con celata costanza. Il commissario Petrillo, il pescivendolo Raffaele e il già citato Agostino custodiscono il bene, sono inconsciamente devoti a cause più grandi dei loro intenti. E torna il concetto del ‘merito del mezzo’, che implica l’inconsapevolezza di coloro che compiono le azioni e divengono strumenti per il conseguimento del bene comune. Nel testo esistono tre figure che regalano la misura dell’universo interiore di quest’Autore: Davide e il suo ‘dono’, un giovane rimasto in coma a lungo, che trascina una gamba e riserva non poche sorprese; Caterina, figlia del pescivendolo Raffaele, dodicenne destinata a vivere in carrozzina, muovendo in modo disarticolato le braccia e forse ridendo alle premure degli amici del quartiere; Paolo, detto Paolone, alunno del professore delle medie Dario Morelli, che è affetto da un ritardo e diviene ‘mezzo’ per una vicenda centrale ai fini del romanzo e della vita del suo professore di musica. Creature affette da debolezze, che Franco trasforma in punti di forza, rendendo i tre ragazzini infinitamente cari ai lettori e abbattendo, senza stereotipi, le barriere per creare ponti. La capacità di penetrare nei meandri delle anime dell’Autore diviene sconvolgente quando descrive la figura del senatore Annibale Piscicelli, che cresce a dismisura dinanzi agli occhi dei lettori soprattutto quando definisce l’amore: “Amore sono due ali, Dario, due ali che spuntano tra le scapole squarciando e dilaniando le carni. Dolore e sangue, dunque, ma anche l’unico modo per librarsi in volo, e osservare dall’alto quanto sia meravigliosa e tragica la vita, e anche quanto siano piccole le orme che lasciamo sulla terra.” Di diamanti simili l’Autore ne semina moltissimi nel corso di quella che amo definire una parabola, dimostrando ai più che per diventare scrittori non basta presumere di possedere la scintilla creativa, occorre sapersi cimentare in qualcosa di grande che lasci sulla terra ‘orme indelebili’. “Il merito del mezzo” possiede il lettore, lo rende schiavo felice dei suoi poteri, diviene mezzo per credere che “La vita è un calcio d’angolo” - musica e testo scritti dal professor Dario Morelli -, e per osservare il cielo nella certezza di scorgere due grosse cicogne che rendono belli i quartieri - dormitori in cui viviamo, le nostre case, le vite che troppo spesso ci sembrano prive di senso.
Maria Rizzi
Anna Vincitorio legge Jean Tardieu
JEAN TARDIEU
Il fiume nascosto
Poesie 1938 – 1961
Scrittore di forte fecondità si è espresso in opere di ogni genere e tono: umorista, metafisico, drammatico e poeta… Un poeta fortemente inquieto. Importante per lui “chiedere senza fine come si possa scrivere qualcosa che abbia un senso”.
Concepisce la poesia come la conquista di un mistero. Per lui la conoscenza è intuitiva e discontinua. Sempre presente la violenza del desiderio. Quello che lui scrive deve appagare la sua necessità di esprimersi indipendentemente dalla comprensione e dal diletto del lettore.
Poesia che non sempre s'intuisce ma ti afferra e disorienta. Siamo davanti a dei muri di silenzio nei quali immergersi e sconfinare in sogni inquieti. Nulla è spiegato. Davanti al lettore il caos; la morte un istante di distrazione. Il poeta non può che assaporare la bellezza del mondo e salvarla almeno provvisoriamente dalla rovina. Sul destino delle cose il profondo fetore della morte.
“Tutto sarà disperso, il mondo e l'uomo”.
Figlio di artisti: la madre musicista (suona l’arpa) e il padre pittore. Cominciò a scrivere in giovanissima età. Molto influenzato dal suono dell’arpa è portato a sognare e amare seguendone l’armonia.
E nella musica col passare degli anni, il ricordo della antica felicità legata all’infanzia.
Gli occhi bendati, le mani tremanti
tradito dal rumore dei miei passi
che segue ovunque il mio silenzio
perdendo la traccia dei miei giorni
e io, sia che aspetti o che vada oltre
mi rigiro nel fondo del mio sonno
desolato come la speranza
innocente come il rimorso.
Un uomo che finge di vegliare
imprigionato nella sua infanzia
l'avvenire splende immerso
nella sua immobilità.
Noi ancora ce ne ricordiamo
Il sole vibra senza fare un moto
Il tempo monta come il mare.
Trad. Anna Vincitorio
Per lui l'infanzia anche se imprigiona, è certezza alla quale attingere per poi proseguire. Frequenta a Parigi il Liceo Condorcet e pubblica i primi testi sulla Nouvelle Revue Française. Per avvicinarsi a Tardieu bisogna leggerlo, leggerlo e assimilarne il messaggio. È difficile penetrare le sue parole.
Noi siamo riuniti presso il male
che l'invisibile uragano percuoteva
Questa notte pareva cospirare con noi;
colma d'oro sottratto, era come un cofano
risuonante di consigli
“Lavoriamo!” dice la mia voce – Mille voci risposero:
“Dove sei?” – “Vicino a voi” – sii nominato
“nostro capo”.
– E le nostre voci, come un fuoco tra i rami,
nel medesimo istante si fusero,
le nostre mani serrate e febbrilmente
unite come una nuvola d'uccelli
Ad un tratto, vacillò dividendo l'aria e l'acqua,
Un leggero soffio bianco di luce
che preso – nella sua corsa – venne verso di me
e passò sulla nostra ombra, disteso, distrutto, fluttuante,
col dolce fremere dell'alba… “Addio dunque!”
Mormorò l'ultimo dietro di noi – Partivamo!
Era solo al sorgere del giorno
Ho visto un solo volto: l’onda
Loro si sono riuniti lontano da me
per parlare nella loro lingua sconosciuta
io aspetto
Trad. Anna Vincitorio
Va riconosciuto, a mio modesto avviso, che pur non penetrando il significato della poesia di Tardieu, ne siamo inghiottiti e vaghiamo in essa percorrendo il suono delle sue parole, sperduti ma emotivamente coinvolti. È chiaro che suoi compagni sono le ombre, la speranza, la paura, la certezza e il rimorso.
“oh aliti che rianimate la fiamma spenta
quale fumo ai margini della morte!”
Per concludere possiamo definire la sua opera come poesia evidente, diretta e tragica; carica tuttavia di una grazia misteriosa se non quando lui stesso si avvicina all'ammissione dell'irreparabile.
Per la notte e per il sole
condannato senza prove e colpe
ai muri del mio stretto spazio
io mi rigiro nel fondo del mio sonno
desolato come la speranza
innocente come il rimorso…
Trad. Anna Vincitorio
NOTA BIO BIBLIOGRAFICA
Jean Tardieu nato il 1° novembre 1903 a Saint-Germain-de-Joux e morto Creteil in Val di Marne il 27 gennaio 1995.
OPERE:
Accents (1938): Les Dieux étouffés (1946); Monsieur Monsieur (1951); L’espace de la flute (1958); Le fleuve caché – Poésie (1938-61 – Trad. italiana 1971); Forneries (1976); Margeries – Poèmes inédits – 1910-1985 (1986); Poèmes à voir (1990).
PREMI:
1982 – Grand prix de poésie de L'Academie française
1986 – Grand prix de litérature de la Société des Gens de lettres
1993 – Grand Prix national des lettres
Vasta anche la sua produzione teatrale e Saggi in Le Miroir ébloui (1993).
Il 1995, anno della sua scomparsa a 92 anni.
NOTE CRITICHE:
Claude Michel Cluny – nome de plume – Nato il 2 luglio 1930 a La grandville (Ardennes) – Morto a Parigi 1'11 gennaio 2015. Poeta, critico letterario, rinomato grafico, novellista e romanziere francese.
“J. Tardieu occupa nel panorama poetico francese un posto molto singolare, – a volte tradizionale per il lirismo contenuto che si può inserire nella progenie di Maynard e di Nerval e per un perpetuo rimettere in discussione dello spirito e del linguaggio, si può avvicinare a Max Jacob e Queneau.
La sua è una voce nel deserto “Vaux sans personne” e che accetta una via d'uscita verso il nulla se non quella di un uomo distrutto e condannato in anticipo, senza che niente lo giustifichi o lo salvi.
La difficoltà di essere per Tardieu, è originale; vuol dire che sorge dalla coscienza di essere: questa inquietudine (mal di vivere) la scrittura l’ha presa in carico. Non cede davanti ad ogni dogmatismo, così come scarta le illusioni della metafisica. E questa opera sa ben svelare il volto nascosto delle cose. Pochissime parole – Pochissimi gesti. Ma le une e gli altri organizzati per un poema da recitare…
Tutto è in noi. Noi siamo il luogo del dramma. Questo fiume è ciò che passa e ciò che sarà. Lo crediamo nostro e ci sfugge. Noi siamo e già non siamo più: – Tutta la mia vita è segnata dall'immagine di questi fiumi nascosti o perduti ai piedi della montagna. Come loro per me, l'aspetto delle cose si immerge e si alterna tra la presenza e l’assenza. Tutto ciò che tocca è per metà pietra e per metà spuma –.
Trad. Anna Vincitorio
Jules Supervielle – Montevideo 1884 - Parigi 1996 – legato alla NRF visse tra la Francia e l'America del Sud affermandosi soprattutto come poeta surreale. Di Jean Tardieu afferma: “Poeta molto diverso e sempre suggestivo; egli ha più toni provenienti da una stessa voce. E come egli si pone tra i migliori, niente lo designa meglio di quanto lui stesso non dica: – che lui ama tutti i colori perché la sua anima è oscura –.
Trad. Anna Vincitorio
Federica Locatelli – Diffidate delle parole – …Autore classico ai tempi dell'Assurdo, Tardieu perseguì una ricerca originale che nella padronanza del linguaggio in tutte le sue gamme dalla lirica al divertissement, ci conduce con passo fermo ma bonario oltre gli orizzonti del non senso…”.
Maria Gabriella Bruni – “…La sua opera in effetti non si caratterizza per la linearità nella sua evoluzione determinata da eventi esterni. Si avvolge al contrario su se stessa, come attratta da un centro inesistente, quasi che l'autore esegua una sorta di strano passo di danza sul bordo di un abisso che allo stesso tempo lo respinge e lo trattiene, e dove dà appuntamento a se stesso per tutta la vita. Ed è dal fondo di questo buco che sale la musica della sua scrittura, quella musica disperata, quella musica da lui creata con passione…”.
Georges Emmanuel Clancier – Poeta, romanziere e saggista francese – (Limoges 1914 – Parigi 2018) Opere: … Le pain noir – 1956; La fabrique du roi – 1957; Les drapeaux de la ville – 1959; La dernière saison – 1961; Vari romanzi e tra le raccolte in versi ricordiamo: – Le Paysan céleste, 1943; Une voix, 1956; Terres de Mémoire, 1965; Oscillante parole, 1978; Chansons sur porcelaine, 1984; Passagers du temps, 1991; L'Orée, 1987; trad. di Anna Vincitorio (Presentata a Firenze il 10 maggio 1988 all'Università di Scienze Politiche – Cesare Alfieri – alla presenza del poeta Clancier).
Dalla prefazione a Le fleuve caché. “…L’opera di Tardieu si impone in lentezza, dolcezza, con tutte le sfumature meravigliosamente sensibili, commoventi, erudite, fresche e raffinate, che fondano l'originalità di questa poesia a volte aperta e tragica, tenera e solenne, sottile e stramba. Sembra il risultato di una perfetta civilizzazione del linguaggio piuttosto che una risposta ossessiva a una ossessionante questione… Per Jean Tardieu ogni poema è un teatro senza enfasi dove si gioca in parole di silenzio. Sempre lo stesso e solo il dramma di essere e non essere al mondo, e il teatro un poema che passa dal silenzio del soffio alla drammaturgia delle voci. Questo doppio aspetto del poema-teatro e del teatro-poema si trova per esempio confermato dalla musicalità che Tardieu sa preservare nei dialoghi in apparenza i più quotidiani delle sue creazioni cosi egualmente con l'intrusione del linguaggio parlato nel canto del poema. L’invenzione di una parola per un’altra sa mirabilmente dire senza dire, dal momento che la poesia tende al silenzio attraverso la parola come l’incertezza della vita all’assoluto della morte…Pochissime parole, pochissimi gesti. Ma gli uni e gli altri organizzati per poema da recitare… Tutto è in noi. Noi siamo il luogo del dramma. Questo fiume è ciò che passa e ciò che sarà. Lo crediamo nostro e ci sfugge. Noi siamo e già non siamo più: “Tutta la mia vita è segnata dall'immagine di questi fiumi nascosti o perduti ai piedi della montagna. Come loro per me, l'aspetto delle cose si immerge e si alterna tra la presenza e l’assenza. Tutto ciò che tocco è per metà pietra e per metà spuma…”
Trad. Anna Vincitorio
20 febbraio 2024
JEAN TARDIEU
Le fleuve caché
Poésies – 1938-1961
Pref. di Georges Emmanuel Clancier.
Accenti – 1932-1938
L’allarme
Palude di paura nella sua stanza
la porta chiusa vedeva oscillare una mano
una mano al di fuori tormentava a tratti il pomello
ma non l’apriva! E due voci corrucciate
risuonavano nel corridoio
“È di me – pensava – che si parla!”…
“Chi mi accusa? Chi mi cerca? Chi mi segue?”
“Di quale crimine sono a conoscenza od ho commesso?”
“Cosa ho dimenticato, o perduto?” ah… la porta
“si apre!…”
Ma no –
si allontanano sui parquéts tremolanti
Si trattava di lei (o di un’altra) Tuttavia!…
I drammi della memoria
Sovente si riuniscono per lottare
contro ricordi troppo forti
ciascuno prende posto in una poltrona
e iniziano a raccontare
Gli accidenti si manifestano per primi
poi l'amore, poi i sordidi rimpianti
infine le speranze mai spente
Tutte queste immagini sono appese
al muro, tra i fiori del foglio
Pensano anche di abituarsi
ai veleni trasfusi dalla loro memoria
– Io nel frattempo, dietro la porta,
vedo il Presente fuggire coi suoi segreti
Incubi
Noi siamo riuniti presso il male
che l'invisibile uragano percuoteva
Questa notte pareva cospirare con noi;
colma d'oro sottratto, era come un cofano
risuonante di consigli
“Lavoriamo!” dice la mia voce – Mille voci risposero:
“Dove sei?” – “Vicino a voi” – sii nominato
“nostro capo!”
– E le nostre voci, come un fuoco tra i rami,
nel medesimo istante – si fusero
le nostre mani serrate e febbrilmente unite
come una nuvola di uccelli
ad un tratto, vacillò dividendo l'aria e l'acqua,
un leggero soffio bianco di luce
che presto – nella sua corsa – venne verso di me
e passò sulla nostra ombra disteso, distrutto, fluttuante
col dolce fremere dell'alba… “Addio dunque!”
Mormorò l'ultimo dentro di noi – Partivamo!
Ero solo al sorgere del giorno
Ho visto un solo volto: l’onda
Loro si sono riuniti lontano da me
per parlare nella loro lingua sconosciuta
Io aspetto
Il testimone invisibile
1940-1942
Giustizia sconosciuta
Sempre nell'altra camera lei risuona,
questa voce bassa a traverso il tramezzo;
lei giudica, condanna e poi perdona
un crimine estraneo dalle ragioni profonde
Io non so se sono io il colpevole
Io non so se la voce porta un nome
La paura del sogno
Felice chi per lo sbattere delle porte,
per la presenza di una lampada o il mormorio
di voci che un corridoio conosciuto porta via
per il frusciare delle imposte mal chiuse,
per un riflesso su un mobile, scongiura
un orribile sogno alla sua perdita accanita!
Per lui il caro difetto delle cose, trema
così dolcemente, lo chiama, lo richiama!
Tutti gli oggetti che tocca
gli rassomigliano
“Sono io, sono io” si ripete ridendo
Il sogno allora sbattuto contro il muro vacilla
e dall'altra parte striscia fischiando
“Alla fine! Ecco le cose che sono pure
e senza rimpianto di ciò che non è loro!
Io stesso così tengo indosso come un’armatura
ai confini del tempo, contro tutto ciò che è proibito
come un frammento d’una pietra immortale
dove mai sogno o spettro non ha morso”.
Ma o cielo! sventura se c'è ancora un sogno
capace di planare in attimi senza idee
se ogni sponda si solleva in spuma
se lo sguardo è un cammino perduto
e se il tuo cuore sotto le tue mani atterrite
batte per lui solo in un mondo sconosciuto!
Ombre
Frangia d’invisibile,
tremante di segreti,
l’assente che ti prega
e che ti ha condotto
bagnato nella sua ombra
attraverso il giorno,
legato nel silenzio
a tutte le foglie,
a tutte le pietre
e a tutti i tempi
non è sempre
questo vasto te stesso dove ti sei perduto?
Qui mi vince la speranza, qui la paura,
qui in certezza e il rimorso –
O aliti che rianimate la fiamma spenta
quale fumo ai margini della morte?
Per andare avanti io ruoto su me stesso,
ciclone per l'immobile abitato
di ogni lampo attendo che lo attenui e amo
dal fondo di un abisso intravedere luccicanze
Fiori! Fiamme! Giochi e canti di un giorno senza affanni
Posso infine sorridere alle vostre immagini
E vi vedo con uno sguardo alieno!
XII
Quando ascolto e non comprendo
quando guardo senza vedere,
quando cammino senza un passo,
quando il mio sole diventa nero,
Io scompaio senza morire,
vivo senza muovermi,
nessuna speranza, nessun ricordo
nelle fucine del momento
Sciogliersi? Sia, ma per rinascere!
Finire per ricominciare!
Il mondo va guardato con nuovi occhi
sui cammini cancellati
XV
Una strada si rievoca
tutti i passi dispersi
Ma lei aspetta e niente ancora
è realmente apparso
1942-43 Notte
La città ai piedi dello spazio
Questo piccolo spazio è per lo spirito
sferzato come il cielo dalla rondine
dove il vuoto pavimento per l'esile rumore
di una bicicletta vista da persone dalle sopracciglia
cupe, le braccia colme di pacchetti tristi
Lo spazio, quale sete! con i nostri passi
così lenti a srotolare
delle strette piste
sotto le case dove non ci sono sorrisi
Scorre il tempo ma il limite è sempre là –
O sorgente sui tetti sempre presente
emetti vapore in senso contrario per occhi colmi di ardore
e sempre più ti sforzi di essere assente
spazio, tieni unito il tempo per rilasciare
i nostri corpi torturati dalla speranza!
Troppo poco spazio e troppo tempo! O tugurio,
nave spazio compressa in questo porto,
solleva le pietre dalla tomba
di questi morti,
sradica cordoni di fumo, apprestati nella notte
fa di ogni finestra un’apertura
spalancata sulla libertà dell’infinito!
Giorni pietrificati 1943-47
Gli occhi bendati, le mani tremanti
tradito dal rumore dei miei passi
che segue ovunque il mio silenzio
perdendo la traccia dei miei giorni
e io, sia che aspetti o che vada oltre
mi rigiro nel fondo del mio sonno
desolato come la speranza
innocente come il rimorso
Un uomo che finge di vegliare
imprigionato nella infanzia
l’avvenire splende immerso nella sua immobilità
noi ancora ce ne ricordiamo
il sole vibra senza fare un moto
il tempo monta come il mare
Non c'è nessuno
Questa assenza ha gli occhi degli alberi
una figura cava e alta si riversa
estranea alla mia primaria essenza –
Fiori e abisso
1
Sotto i fiori che so non ci sono praterie
ma il latte nero dell'abisso ignoto,
nel mio sonno amaro io li restituisco alla notte
loro calano spegnendosi lentamente –
2
Una sola casa si appressa
al bordo fiorito dell'abisso
il suo fumo già si tinge d'azzurro –
Ah! che le parole possano salvarla
prima della sua caduta
e che senza rumore, senza sofferenza
diviene aura!
IV
Due mani che hanno perso le tracce di un viso
avanzano fiutando l'ombra alla ricerca
di una forma un tempo umana. Ma
la maschera è colma per l'abisso –
le mani spaventate si ritirano e riportano via i fiori
Per guadagnare i terribili favori dell'abisso
noi alberi saliremo dall'interno fino ai nostri fiori
Allora il vento, allora l'autunno, allora
il nostro adempimento sarà
questa caduta leggera, felice o desolata –
Regina della terra
Dedicata a Albert Camus
Come un ricordo
io ti ho incontrato
persona perduta
Come la follia
ancora ignota
Fedele, fedele
senza voce e figura
tu sei sempre là
Nel fondo del delirio
che da te proviene
io parlo, ascolto
e non comprendo
Tu solo, tu vegli
tu sai chi sono
la terra si gira
dall’altra parte
non ho più giorno
non ho più notte
Il cielo immobile
il tempo trattenuto
la mia sete e il mio timore
mai placato
Perché io ti cerco
tu le hai protette!
Sorella impenetrabile,
delirio della mia vita, lasciami andare!
Se del tuo mistero
Io sono il corpo e beni
l’attimo e il luogo
oh ultimo naufragio
di questa ragione
con il tuo silenzio
col mio dolore
con l'ombra e l'uomo
cancella il dio!
Sbaglio che non potrò espiare
io non ho rimorsi –
In un solo spazio
voglio un solo mondo
una sola morte
Monsieur Monsieur
1948-50
Monsieur Monsieur ai bagni di mare
Un giorno vicino al mare
Monsieur e Monsieur soli
parlavano tranquillamente
e mangiavano una mela!
e quale quiete
quando l'abisso senza margine
mescola senza sforzo
le cose e le genti!
Per chi è simile a Dio i giorni particolari
non sono necessari
La questione non è là
Monsieur risponde a Monsieur
noi siamo effimeri,
ora la totalità
della grande Unità
essendoci rifiutata
è per la quantità
che noi ne siamo fuori
E noi ne facciamo tesoro
Dunque la diversità
per noi su questa terra
è la necessità –
Guardate questo pesce
che non è un uccello
non è una mela
non è la balena
non è il battello…
– Ah per me è la medesima cosa,
interruppe Monsieur
la balena e la mela
dinanzi all'eternità
sono eguali –
A queste parole il vento soffia
portando via i loro cappelli
e i due personaggi
nel cielo blu e bello
svaniscono all'improvviso
la notte il silenzio e l'aldilà
Un sospiro nello spazio infinito
poi una voce mormora:
“Gondran, sei tu là?”
Nessuna risposta
Dei passi si allontanano come le nuvole
Il piccolo ottimista
Fin dal mattino
ho guardato dalla finestra;
ho visto passare dei fanciulli –
Un'ora appresso erano persone
un'ora dopo, vecchi tremolanti –
Come invecchiamo velocemente, ho pensato!
E io che ringiovanisco in ogni istante!
Oracolo
(Dapprima esitante attraverso il fumo profetico
Poi, affermativo, ritmato,
scontroso il piede che batte il suolo)
Dello ieri non c'è più
c'è piuttosto il domani
oggi come ieri
è sempre per domani –
Nel fuoco
Nel fuoco
nel fuoco nel fuoco
nel fuoco della terra
metterò le mie due mani
Metamorfosi
In questa notte nera
che la Storia ci crea
avanzo a tentoni
sempre stupito
sempre sbigottito:
Io prendo il mio cappello
è un carciofo
abbraccio la mia donna
è un guanciale
carezzo un gatto è un annaffiatoio
apro la finestra
per respirare aria pura
c'è un vecchio armadio
pieno di muffe
prendo un rospo
per un calamaio
la bocca di nausea
per la cassetta delle lettere
il fischio del treno
per una rondine
il rumore di un motore
per il mio stesso cuore
un grido per ridere
la morte per la vita
gli altri per me
Una voce senza nessuno
1951/53
Il mondo immobile
Pozzo di tenebra
fontana senza suoni
lago senza splendore
presenza densa
battito debole
l’istante è là
niente, nessuno
un’ombra pesante
che non parla
io attendo dei secoli
niente risuona
niente appare
su questa tomba
lo spazio si muove
è il mio pensiero
per nessuno sguardo
per nessun orecchio
la verità
Storie oscure
1955-60
L’inferno a domicilio
Nel segreto di un oscuro corridoio
nel fondo di un ghiaccio fluttuante
un uomo incontra la sua immagine
Si vede come vorrebbe essere
fiero, gioioso, trionfante
e soprattutto giovane, ah come un dio!
Ma l'immagine svanisce e si perde
al rumore dei tubi che gemono
e all'improvviso gli vien meno il cuore:
nel ghiaccio (che trema un po’
al passare di ogni vettura)
sembra un nuovo abitante
che lentamente, lentamente
si svincola,
una sorta di cane dal dorso rotondo
che verso il cielo squadrato del cortile
urla alla morte e lancia uno sguardo pieno di lacrime
Una donna un uccello
L’uccello molto grande
che sorvolava la pianura
al medesimo ritmo che le valli e le colline
lungamente l’abbiamo visto planare
in un cielo assoluto
che non era il giorno
che non era la notte
Una cicogna? Un aquila? All’improvviso
il volo silenzioso di un gatto che fischia
e questa regale apertura alare
di un dio che diveniva uccello…
I nostri occhi un istante deviati
improvvisamente videro scendere la meraviglia:
era la figlia dell’aurora e del desiderio
angelo nei nostri solchi caduto
con un corpo più femmineo dello stesso amore e che lungamente
posa i suoi piedi appena sul suolo perché il vento delle sue ali
lo sollevava ancora – Infine il liscio e bianco piumaggio
su questa donna di cristallo si ripiegò
Lei sembrava non vederci
né stupirsi che un lago
davanti ai suoi passi si era già aperto
lei ci si tuffava sorridendo per se stessa
felice di ricordarsi
degli elementi precedenti
e di un tempo senza limite…Lei ha
ordito in quest’acqua trasparente
i segni di un linguaggio sconosciuto
poi agitandosi, cerchiata di perle
di nuovo brillante e ghiacciata
batté il piede sulla terra
Così io la vedo ancora leggermente inclinata in avanti
e già quasi distaccata
cosi noi l’abbiamo vista risalire scomparendo nell’azzurro
È da dopo quel tempo là che io so
per quale esile volere e quale segreto movimento
noi possiamo volare quando ogni cosa dorme
Il boia dei fanciulli
Il fanciullo terrificato mine il suo braccio sugli occhi,
ma l’Uomo a passi sempre più grandi scendeva –
Il fanciullo chiamò a suo soccorso
tutto ciò che è visibile e invisibile. Ma l’Uomo
con il passo sempre più largo e pesante
gridava: “Tu non dovevi vedere e hai visto,
tu devi morire! E il suo pugno si alzava
e i suoi occhi lampeggiavano
Il fanciullo fece un ultimo sforzo
per staccarsi da questo mondo
e siccome il boia lo attendeva
divenne brace di un fuoco di rami
e dal vento dissolto
Allora il vagabondo sull’erba fredda vacillò
scosso dai singhiozzi –
Natura
C’è un uccello che si avvicina piangendo
C’è una nuvola che parla sognando
una roccia rotola per passare il tempo
un roseto si ammira nello specchio d’uno stagno
gli alberi della foresta
sono là come genti, genti
Tutto questo forma una folla che aspetta
– ma l'uomo, – assente, assente, assente…
Traduzioni di Anna Vincitorio