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giovedì 16 giugno 2011

Da "Foglie di campo. Aghi di pino. Scaglie di mare", Edizioni L’Autore Libri Firenze, Firenze 1993



A DELIA





I

Parlami del mare,
delle foglie che cadono
con mano lenta
nella spenta pineta;
dei profumi nascosti,
di posti sparsi a noi cari,
di rumori silenti
tra i rami ritorti,
aulenti e rassegnati.

Andiamo ancora!
Guarda il bosco non lontano
dal sentiero di foglie di quercio,
lo sguardo allunga il pensiero
col freno di anni passati.
Scivola il merlo tra il lauro
e la bacca si stacca
e tu ricadi ancora
stesa come il mio sogno,
o Delia, sotto la foglia
cadente sul tuo braccio,
nuda la carne,
fra la nostra ridente pineta.





II

Umido il mattino
ancora di più sente
il moreccio e la foglia ammuffita;
più densa la storia
ritorna fra noi:
timida e scoperta al ruscello
lasciasti le vesti tra i rami
e vani raggi di sole
con sforzo sublime
allungavano mai audaci,
annaffianti di tiepida luce.





III

Ora ascolta, Delia!
Le cose parlano dense di vita;
il mare parole solite invia,
mentre rompe il suo cuore
al tuo rifiuto.
Inumidivi i tuoi seni
nell’acqua serena,
invaghita del tuo corpo,
carezzante leggera
lunghi crini galleggianti.
“Ti amo”, il vento di sospiri
dall’orizzonte marino
e la spiaggia al tramonto
testimone con gli ultimi raggi
penetranti fra i corpi rosati di cielo.





IV

Il mare s’incupiva geloso
e il suo cuore rigonfio di tempesta
si rompeva con forza
tra i nudi piedi salati,
umidi del suo sangue
negli ultimi giochi d’autunno.





V

Piangono i gabbiani, Delia,
nel cielo annaffiato di spuma.
Piangono gli amori passati,
nascosti da freddi pensieri.
Soli i gabbiani
sopra reti smagliate,
patini scoloriti di salmastro,
pescatori intenti senza gioia,
piangono il tuo amore.
Non odono sospiri
erranti fra le barche abbandonate,
non vedono abbracci eterni
e come sassi immobili
si posano su acque squamose
ad aspettare la morte.





VI

Un angolo di terra
non dimenticare, Delia,:
due anime vagano sole
tra i corbezzoli e le pine selvatiche
nell’attesa di pacati tramonti,
di timidi meriggi d’autunno:
correre sole fra sentieri stanchi,
ricchi di ricordi profumati
a cercare la calma,
a cercare la vita,
correre sole
per non morire ancora.





VII

Scendeva il colle
fino alla marina;
tu temevi i viali
e il cielo che si apriva
sopra le chiome dei ridenti pini.
Affaticati e stanchi,
come smarriti e inebriati,
si vedeva la spiaggia
e si correva alla fine …
perché correre!
Quanto meglio quel verde chiaro,
quei pruni avvinghianti le tue vesti,
quei sentieri nascosti
intricati di arbusti,
dove spesso graffiammo queste mani
che sole e stanche
si muovono indecise.










VIII

Quel pino in mezzo al prato,
che tu chiamasti l’albero del cielo,
mi appare spesso come un grosso velo
quando ho bisogno di te,
mia dolce Delia.
È un velo che mi rifugia
tante cose,
le più preziose, certo,
e decido di restare al mio bosco
aggrappato a questi scarni arbusti,
fra i sentieri nascosti
che parlano di te e dei tuoi sogni.
Non ho tempo di vivere,
voglio solo rivivere con te
nei miei pensieri.
Assai è la mia vita
tra le macchie dei pini
ed il pallido colore del mio autunno.








IX

Delia ci lascia
intriso l’animo di bacche
rosse come il cielo;
il gelo dei miei palpiti
si inabissa
silenzioso nel mare;
calare la sera su noi
è come stendere reti
traforate sull’acqua che bolle;
il mare che ti amò, Delia,
e che ti inabissa ora,
d’autunno, nel suo seno,
quando solo
piange col tuo cielo,
col bosco aulente
d’acre sapor di bruma.





X

Sono sceso nell’orto
di foglie arrugginite
finite nell’animo scuro
di una terra mai paga.
Il sole, mia Delia, ci coglie
e le spoglie sempre più scarne
guardano il tramonto
con gli occhi di chi muore.
Il tepore, l’aria umida,
il cielo fermo:
là in fondo
ti rivedo,
lucidi gli occhi,
con i ginocchi tesi
a cogliere i rami più alti
o ti rivedo ancora sui butti
o fra i ricami dei pini
o ti rivedo
dove si estende il mare
senza confini
o nel mio orto
di foglie arrugginite
come tante pepite
sporcate dalla vita.










XI

Ti era caro ricordarti
il brusio
che diffondeva attorno
arcane compagnie
e le mie mani
attingevano il terriccio
chiudendo il tepore del tuo corpo.
Albe, tramonti,
meriggi,
o anime morte
ritornate ancora
dove l’aurora offendeva il pudore
e a un rumore nascosto
tendeva l’orecchio
la mia ninfa
e s’involava
fra le foglie silvane,
sui sentieri di rame.





XII

Parla ancora 

parla ancora!
Odo rare parole
lontane
nel bosco piangente
aghi di pino.
L’acqua calante
sciacquetta e s’allontana
coperta di pianti
dai candidi gabbiani;
parla!
Calde parole
ho bisogno di udire;
la morte divise il mio seno
e il corpo sepolto
lasciò lo spirito randagio.
Alimenta quest’anima deserta
fra le macchie dei pini e degli abeti:
i pruni ostili ricoprono infecondi
le spiagge della nostra rena.

Ora ti sento:
semplici parole
sgorgate da profondi affetti
fra le frasche dei mirti
e fra gli arbusti
riprendono i profumi
della mia pineta.
L’anima mia respira,
si fa corpo,
l’acqua non sciacqua,
ma voce chiara
e ben distinta
mi parla
delle lunghe pene
che ti tennero lontana.
I pescatori
di salmastro rosi
ricamano le reti
del tuo perpetuo canto.
La mia anima e la tua voce
sugli ultimi butti
dei giganti pini
guardano il cielo.
Parla ancora!
Il mio corpo si desta
se il tuo respiro
si rafforza e mi pervade.
Andiamo a rivedere il mare
anima in  pena:
libero come sempre
mangia la rena
e s’allontana.

No! Non fuggire!
Non mi lasciar
fra il frammentato albore
dell’acqua tremolante.
Odo parole stanche;
il vento riporta
i soliti rumori
dei remi sulle barche,
dei pescatori intenti,
dell’acqua fredda
sulle marcite foglie.

Parla!
Non ti allontanare:
vago di nuovo
e più non ti ritrovo
nell’acuto
dell’odor del mare.
















































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