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giovedì 16 giugno 2011

Da "L’azzardo dei confini", Edizioni Booksprint, Buccino 2011





Alla battigia

E mi rivolge il mare il suo saluto
mentre mi porta l’anima al fruscio
dell’onda sua perenne. Ascolto il suono
lento di quell’acque, mentre lontano
mi appare qual fuscello in mezzo a un prato
la sagoma ondeggiante di un veliero.
“Sei tu forse mio Enea, di una stirpe
remota fondatore, che ti aggiri
col peso delle fiamme e dell’amore,
in cerca dei tuoi eroi? O forse vaghi
col tuo animo inquieto, puro spirito,
a memorare la sorte? Dall’onda
un ticchettio di corde mi raggiunge
per parlarmi di Dido, e di una fuga
che volle il fato a scapito di un lido
dove giace il tuo cuore. O forse credi
di sconfiggere il giorno e la clessidra
di ritorno alla vita. Vieni avanti
eroe dei tempi in cui i miei giorni andati
si cibarono di miti. Era allora
che ti seguii estasiato e nel tuo mondo
nascosi i miei pensieri. Non andare
peregrino nel mare, non fuggire
il mio sguardo incantato e il mio ritorno
alle soglie del giorno.”. Ma il fruscio
di un’onda stanca copre ogni messaggio,
e il tramonto, che fuga ogni illusione,
allontana la vela del mio sogno.

Ed io rimango solo alla battigia
a immaginare suoni ormai lontani.



Tramonto sul mare


Tra un dio e l’uomo

Io sono un dio
e il mio piacere è eterno e il mio dolore
è eterno eguale; in me vive per sempre
ogni pensiero ed ogni sentimento
che non puoi immaginare. Tutto è eterno!
Non c’è vita, non c’è nessuna fretta
di chiudere un pensiero; io sono un dio!
D’ambrosia e nettare si ciba il mio corpo.
E tutto a me dintorno vive eterno.

Per questo invidio l’uomo e tutto quello
di cui l’uomo si ciba: il suo respiro,
la sua fretta, il suo gioco, il suo amore
nel cogliere il presente per spolpare
l’arancia della vita; e mentre in me
dura una noia continua, in lui c’è un fine
a dare gioia e dolore. È il suo mondo
ch’io invidio; egli sente che mortale
è l’essere vivente ed ogni cosa
ed ogni movimento, ogni passione
è intensa più del cielo; e mentre il tutto
è aspro e lacerante se in eterno,
l’uomo misura con lo spazio e crea
ogni cosa nei limiti del tempo.
La gioia si fa nulla se per sempre.
Ma la felicità,
per lui dopo il dolore,
è grande più del mare e per un attimo
si toccano le soglie dell’eccelso.
È questo il privilegio dell’umano:
quello di avvicinarsi il più possibile
a ciò ch’è inarrivabile; aspirare
alla storia, ma in una vita breve.

Vede nel mare quella libertà
a cui tende ma eternamente invano;
vede nel sogno un cenno monitore
di un calcolo divino; e aspira al cielo
per colmare i suoi affanni ed il suo poco.
È là la sua grandezza: nel bramare
l’aldilà per un mondo in cui c’è fine;
ed è il suo mondo a dargli quella forza
così intensa ed umana ch’io non provo
in questa noia infinita.

Ulisse rifiutò spazi divini
per ambire al mistero di un mortale.





In una immensità che ti rapina

Il mare si avvicina e si allontana,
clessidra della vita. Io sono qui,
sulla spiaggia umidiccia del mattino.
Seduto su un pattino, guardo il piano
appena increspato dall’aria frizzante
del novembre. Mi prende il largo spazio:
sono nulla e il nulla si dilegua
nel vento salmastroso dell’immenso.
Non odo più la battima né provo
sogni e tristezze in questo diluirsi
del cuore nel mio mare. Son fuscello
che si annulla nell’aria mattutina
portato sull’onda dall’ala leggera
del novembre. Forse rincaserà
l’anima mia in fuga negli abissi.
Ritornerà in prigione nel suo corpo,
riprenderà i suoi occhi per mirare
l’immensità del mare,
per pensare di nuovo che la vita
è quel fuscello breve che dimena
in un’immensità che ti rapina





Ignoto verso il mare

Il cielo è terso e il bianco della brina
quasi inneva i miei campi. I passerotti
rapinano il tepore delle piume
sui rami che sperano dal cielo
nuove buttate da donare ai nidi.
È febbraio. Non vedi per i campi
traccia di paesani; tutto è fermo.
Persino lo svolare
attende l’ora calda. Mi soffermo
sul prato più vicino a casa mia,
calpesto il suolo,
e il piede batte fesso sul tostato.
Ma è il mese che si avvia
a prometterci speranze; la mimosa
staglia il suo giallo sopra la campagna
e ricorda il colore di ginestra
che gonfierà l’estate. A te mi dono
mese di nostalgie! Di quando a sera
ci si accostava al fuoco con un animo
già pronto ad incontrare primavera:
il piede scalzo, le corse fra le vigne,
la sorpresa di un nido tra i filari.
E ti rivivo,
seppur la mia speranza
non cova rami in fiore;
e anche se negli spasimi
di due colombi sopra la grondaia
me la ricordo lesta,
ora è la voglia d’altro
che mi riporta a un fiume
e mi trascina ignoto verso il mare.





Sotto il sole della nostra Toscana

Ti chiedo solamente di restare
ancora assieme a me sotto il bel sole
della nostra Toscana. Tutt’attorno
ci faranno compagnia le verdi groppe
delle sparse colline ricamate
di biondi girasoli. Ed i poderi
che allungano viali limitati
da giganti cipressi. E i casolari
sulla cima dei colli a contemplare
gli spessi grani mossi dal respiro
di un cielo cristallino. Questo chiedo.
Ti chiedo di restare assieme a me
a bearti di torri e di castelli,
di piazze chiacchierate da fontane,
di chiese incise da mani di artigiani,
di sagre, di bandiere svolazzanti
su rughe di contrade
a ricordarti arcaiche vestigia.
E poi insieme movendo su sentieri,
profumati di timo e rosmarino,
ritroveremo i passi di un viale
che ci portava in cima a un paesino
coccolato da mura medioevali.
Di certo avrai in memoria una fontana
dove specchiammo i volti
che dicevano speranze. Affacceremo
i nostri sguardi sul piano fecondo
di allodole chiassose. E gusteremo
in vetri ricamati dai tuoi occhi
il sangue di una terra
sforato al solatio. Resta ancora.
Non mi lasciare solo. Senza te
la mia Toscana è povera di sole,
le mura medioevali senza te
non parlano di storia.
Restiamo ancora fino a tarda sera.
Il sole è là che trova il suo riposo,
lontano, in fondo al piano.
Ti emozionavi se i raggi rubino
tingevano di rosso le tue vesti,
e le vesti di un mare
che ti portava dritto all’infinito.




Il Serchio ad Arena Metato




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