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domenica 8 luglio 2012

Sandro Angelucci su "Scampoli serali di un venditore di arazzi", di N. Pardini



Nazario Pardini. Scampoli serali di un venditore di arazzi. The Writer Edizioni. Milano. 2012. Pp. 224. Euro 10

PREZIOSI RITAGLI DI UN UMILE TESSITORE DELLA PAROLA

  
      Scampoli, Pardini definisce queste liriche; a sottolineare, quasi, che si tratta di avanzi, di rimanenze: come se, dalla sua vastissima produzione, siano emersi dei ritagli ai quali, forse, precedentemente, non era stata data troppa importanza.
      È un nostro punto di vista, ovviamente ma, conoscendo il poeta e l’uomo, abbiamo la netta sensazione che la scelta possa essere stata determinata da esigenze di questo genere.
      Nazario Pardini non ama mettersi in mostra; preferisce, piuttosto, defilarsi, lasciare che, per lui, a parlare sia la poesia: questo schivare le apparenze lo porta dunque a concentrare ogni sforzo sulla necessità di prendersi cura unicamente dell’espressione che - non solo in senso formale - la parola esige in quanto dono dell’animo.
      Umiltà: ecco, è questa la peculiarità di un fare poetico da artigiano che, nel suo laboratorio, tra i tanti pezzi di legno, seleziona, incide, taglia, per dare vita all’opera. E poi, s’inchina, raccoglie qualche vecchio frammento per ripulirlo, piallarlo e poggiarlo sugli scaffali perché nulla vada perduto del proprio lavoro, del proprio sudore.
      Leggendo l’intestazione, sarebbe stato più opportuno paragonare questa fatica a quella di un tessitore, ma poco importa il mestiere: è l’artefice che conta. Bene: l’artigiano cosa fa? Decora (trafora) i suoi tessuti e li espone al piccolo mercato rionale sperando che, incuriositi, gli amanti del bello si fermino ad ammirarli.
      Si forma con questi presupposti la recentissima, corposa raccolta: un libro che il Nostro divide in tre sezioni: Il fatto di nascere umani, Giorno per giorno, Poesie ritrovate, e completa, in appendice, con un’ampia rassegna di note critiche.
      Seguiamone gli sviluppi rispettando l’ordine stabilito dall’autore stesso: “Il fatto di nascere umani - scrive il poeta nell’incipit della poesia eponima della prima sezione - / consiste nel miracolo dell’anima” (ed è già un’inequivocabile prova della sua esistenza), “consiste - prosegue - / nel grande dilemma di non capire / quello che siamo e non vediamo; / nella grande questione di gioire / dell’ascolto dei suoni, /  o di soffrire / di non far parte di eccelse melodie”.
      È, quindi, la consapevolezza dell’alternanza del piacere e della sofferenza che fa comprendere appieno cosa sta a significare quel fatto, quello di nascere umani, appunto. Ma, prima di giungere a queste conclusioni, indispensabile è un atto di onestà, meglio, di onesta umiltà; altrimenti l’impegno, che richiede un pensiero come quello testè enunciato, diviene - per quanto certo - insostenibile, e “assillante” si fa il suo ricorrere spesso nella mente.
      Vogliamo però - e ci piace, perché lo crediamo fortemente - estendere il concetto che tormenta e manda in estasi Pardini. Per farlo, chiediamo ai suoi stessi versi conforto: c’è una brevissima lirica, tra quelle della sezione, che risale al 2004 e recita così: “Io sono te, tenero capelvenere / che all’asolo ti pieghi del prato insicuro, / e col mio stesso fremito attendi / che sfori, / come un uscir di beccaccia, / la primavera del mare.”.
      L’anima, allora, non è soltanto umana o - desideriamo dire - lo è nel momento in cui partecipa allo spirito universale: l’anima mundi che pervade, senza distinzioni, l’intero creato. Questa semplice poesia - che potrebbe persino passare inosservata - condensa, invece, nella sua essenzialità, la francescana convinzione che il fatto di nascere umani, ragione permettendo, è in fondo il fatto di essere vivi.
      La sezione centrale, alla quale viene dato il titolo di Giorno per giorno, ospita momenti, tracce esistenziali che abbracciano l’arco di poco più di un decennio: è un racconto di episodi che, con estrema naturalezza, sono posti - dai più trascurabili ai più rilevanti - tutti sullo stesso piano, con l’unica prospettiva di rendere testimonianza allo scorrere incessante del tempo.
      Così, si passa da testi come Una domenica: ricordo di una quotidianità dall’apparente insignificanza ma, a ben guardare, densa d’insegnamenti ( “Mio fratello mio padre incaricato / di spicciolare aveva cento lire, / . . . . // Giunse il minore, il buio sulla faccia. / Perduto aveva i soldi per la via / ed il coraggio. . .”), a quelli, molto più intensi, che hanno lasciato il segno, come Per la morte di mio padre (“L’ultimo respiro desti all’alba / . . . . // e tu morivi in un grande silenzio / come era nel tuo stile, inosservato; / l’odore le mie nari dell’incenso / mischiavano al profumo del tuo prato.”).
      Un’unica volontà: narrare, cantando, la vita; qui, null’altro importa al poeta, tutto è subordinato a questa necessità: finanche la forma (c’è un cospicuo numero di sonetti che occupa queste pagine) si piega all’irrinunciabile bisogno.
      Ma prendere commiato dalla frazione senza citare quella che riteniamo una delle più alte poesie di tutta la raccolta non sarebbe giusto: andrebbe riportata per intero; nondimeno lasciamo, a chi avrà la fortuna e il piacere di sfogliare queste pagine, di scoprire, da solo, la bellezza di Secretum (pag. 130).
      Ed eccoci arrivati alle Poesie ritrovate, ai testi che, forse, più degli altri, rappresentano l’occorrenza di dare corpo ad una concentrazione di liriche come quella di cui ci stiamo occupando.
      È qui che possiamo raccogliere quei ritagli che trattengono, in toto, il senso che Pardini dà al suo essere un poeta; è tra questi scampoli, appunto, che la mano passa come sulla seta, che gli occhi si posano sui colori più accesi e cristallini. È dagli scarti che la poesia ritrova la sua elezione: l’umiltà che, sempre, ne costituirà il maggior pregio.
      Il Nostro lo sa: vuole - ne siamo persuasi - proteggerla, con questa pubblicazione, dall’aggressione della vanità, dell’ostentazione, cui inevitabilmente si espone non meno di altri ambiti dello scibile umano.
      Ma andiamo a leggerli alcuni dei passi con i quali, in modo disarmante, si concretizza questa difesa. E iniziamo, ancora una volta, dal più semplice, dai sette versi de La vita: “Fuori è tormenta. Tutto è nella notte. / Un passero s’infila nella stanza, / attraversa i riflessi del camino / e da un pertugio s’invola nel nulla. / Un breve alitare / tra il buio e l’altro buio / la vita.”: ecco, in questo frullo d’ali, in questo leggerissimo spostamento d’aria, c’è l’immensità, l’infinitezza di un transito che cerca comunque la luce.
      Resta il dubbio, la perplessità - ci mancherebbe altro - ma, mai, si dovrà parlare di scetticismo: “Forse poco varrà / seminare controluna le memorie. / Ma spargeremo lo stesso la sementa, / anche se il rischio c’è / di perderla nel nulla.”.
      È il momento di concludere. E proprio con due chiuse, tratte da due scampoli, desideriamo farlo: “Solo i rapsodi e gli aedi / ti dettero una vita / che corse con il tempo, / Troia.” (da La fine di Troia) ma, soprattutto, con “Ti scopri granello di clessidra / protetto dal cristallo, / il tempo è fuori, / dentro ti senti eterno”, che fa scendere sulla terra l’Olimpo: là dove cantavano, “dove c’erano gli dei”.





Sandro Angelucci





Nazario Pardini. Scampoli serali di un venditore di arazzi. The Writer Editions. Milano. 2012. Pp.224. € 10,00

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