Nazario Pardini. Scampoli serali di un venditore di arazzi. The Writer Edizioni. Milano. 2012. Pp. 224. Euro 10
PREZIOSI RITAGLI DI UN UMILE
TESSITORE DELLA PAROLA
Scampoli, Pardini definisce queste liriche; a sottolineare, quasi, che
si tratta di avanzi, di rimanenze: come se, dalla sua vastissima produzione,
siano emersi dei ritagli ai quali, forse, precedentemente, non era stata data
troppa importanza.
È un nostro punto di vista, ovviamente ma, conoscendo il poeta e l’uomo,
abbiamo la netta sensazione che la scelta possa essere stata determinata da
esigenze di questo genere.
Nazario Pardini non ama mettersi in mostra; preferisce, piuttosto,
defilarsi, lasciare che, per lui, a parlare sia la poesia: questo schivare le
apparenze lo porta dunque a concentrare ogni sforzo sulla necessità di
prendersi cura unicamente dell’espressione che - non solo in senso formale - la
parola esige in quanto dono dell’animo.
Umiltà: ecco, è questa la peculiarità di un fare poetico da artigiano
che, nel suo laboratorio, tra i tanti pezzi di legno, seleziona, incide,
taglia, per dare vita all’opera. E poi, s’inchina, raccoglie qualche vecchio
frammento per ripulirlo, piallarlo e poggiarlo sugli scaffali perché nulla vada
perduto del proprio lavoro, del proprio sudore.
Leggendo l’intestazione, sarebbe stato più opportuno paragonare questa
fatica a quella di un tessitore, ma poco importa il mestiere: è l’artefice che
conta. Bene: l’artigiano cosa fa? Decora (trafora) i suoi tessuti e li espone
al piccolo mercato rionale sperando che, incuriositi, gli amanti del bello si
fermino ad ammirarli.
Si forma con questi presupposti la recentissima, corposa raccolta: un
libro che il Nostro divide in tre sezioni: Il
fatto di nascere umani, Giorno per
giorno, Poesie ritrovate, e
completa, in appendice, con un’ampia rassegna di note critiche.
Seguiamone gli sviluppi rispettando l’ordine stabilito dall’autore
stesso: “Il fatto di nascere umani - scrive il poeta nell’incipit della poesia
eponima della prima sezione - / consiste nel miracolo dell’anima” (ed è già
un’inequivocabile prova della sua esistenza), “consiste - prosegue - / nel
grande dilemma di non capire / quello che siamo e non vediamo; / nella grande
questione di gioire / dell’ascolto dei suoni, /
o di soffrire / di non far parte di eccelse melodie”.
È, quindi, la consapevolezza dell’alternanza del piacere e della
sofferenza che fa comprendere appieno cosa sta a significare quel fatto, quello
di nascere umani, appunto. Ma, prima di giungere a queste conclusioni,
indispensabile è un atto di onestà, meglio, di onesta umiltà; altrimenti
l’impegno, che richiede un pensiero come quello testè enunciato, diviene - per
quanto certo - insostenibile, e “assillante” si fa il suo ricorrere spesso
nella mente.
Vogliamo però - e ci piace, perché lo crediamo fortemente - estendere il
concetto che tormenta e manda in estasi Pardini. Per farlo, chiediamo ai suoi
stessi versi conforto: c’è una brevissima lirica, tra quelle della sezione, che
risale al 2004 e recita così: “Io sono te, tenero capelvenere / che all’asolo
ti pieghi del prato insicuro, / e col mio stesso fremito attendi / che sfori, /
come un uscir di beccaccia, / la primavera del mare.”.
L’anima, allora, non è soltanto umana o - desideriamo dire - lo è nel
momento in cui partecipa allo spirito universale: l’anima mundi che pervade,
senza distinzioni, l’intero creato. Questa semplice poesia - che potrebbe
persino passare inosservata - condensa, invece, nella sua essenzialità, la
francescana convinzione che il fatto di
nascere umani, ragione permettendo, è in fondo il fatto di essere vivi.
La sezione centrale, alla quale viene dato il titolo di Giorno per giorno, ospita momenti,
tracce esistenziali che abbracciano l’arco di poco più di un decennio: è un
racconto di episodi che, con estrema naturalezza, sono posti - dai più
trascurabili ai più rilevanti - tutti sullo stesso piano, con l’unica
prospettiva di rendere testimonianza allo scorrere incessante del tempo.
Così, si passa da testi come Una
domenica: ricordo di una quotidianità dall’apparente insignificanza ma, a
ben guardare, densa d’insegnamenti ( “Mio fratello mio padre incaricato / di
spicciolare aveva cento lire, / . . . . // Giunse il minore, il buio sulla
faccia. / Perduto aveva i soldi per la via / ed il coraggio. . .”), a quelli,
molto più intensi, che hanno lasciato il segno, come Per la morte di mio padre (“L’ultimo respiro desti all’alba / . . .
. // e tu morivi in un grande silenzio / come era nel tuo stile, inosservato; /
l’odore le mie nari dell’incenso / mischiavano al profumo del tuo prato.”).
Un’unica volontà: narrare, cantando, la vita; qui, null’altro importa al
poeta, tutto è subordinato a questa necessità: finanche la forma (c’è un
cospicuo numero di sonetti che occupa queste pagine) si piega all’irrinunciabile
bisogno.
Ma prendere commiato dalla frazione senza citare quella che riteniamo
una delle più alte poesie di tutta la raccolta non sarebbe giusto: andrebbe
riportata per intero; nondimeno lasciamo, a chi avrà la fortuna e il piacere di
sfogliare queste pagine, di scoprire, da solo, la bellezza di Secretum (pag. 130).
Ed eccoci arrivati alle Poesie
ritrovate, ai testi che, forse, più degli altri, rappresentano l’occorrenza
di dare corpo ad una concentrazione di liriche come quella di cui ci stiamo
occupando.
È qui che possiamo raccogliere quei ritagli che trattengono, in toto, il
senso che Pardini dà al suo essere un poeta; è tra questi scampoli, appunto,
che la mano passa come sulla seta, che gli occhi si posano sui colori più
accesi e cristallini. È dagli scarti che la poesia ritrova la sua elezione:
l’umiltà che, sempre, ne costituirà il maggior pregio.
Il Nostro lo sa: vuole - ne siamo persuasi - proteggerla, con questa
pubblicazione, dall’aggressione della vanità, dell’ostentazione, cui
inevitabilmente si espone non meno di altri ambiti dello scibile umano.
Ma andiamo a leggerli alcuni dei passi con i quali, in modo disarmante,
si concretizza questa difesa. E iniziamo, ancora una volta, dal più semplice,
dai sette versi de La vita: “Fuori è
tormenta. Tutto è nella notte. / Un passero s’infila nella stanza, / attraversa
i riflessi del camino / e da un pertugio s’invola nel nulla. / Un breve alitare
/ tra il buio e l’altro buio / la vita.”: ecco, in questo frullo d’ali, in
questo leggerissimo spostamento d’aria, c’è l’immensità, l’infinitezza di un
transito che cerca comunque la luce.
Resta il dubbio, la perplessità - ci mancherebbe altro - ma, mai, si
dovrà parlare di scetticismo: “Forse poco varrà / seminare controluna le
memorie. / Ma spargeremo lo stesso la sementa, / anche se il rischio c’è / di
perderla nel nulla.”.
È il momento di concludere. E proprio con due chiuse, tratte da due
scampoli, desideriamo farlo: “Solo i rapsodi e gli aedi / ti dettero una vita /
che corse con il tempo, / Troia.” (da La
fine di Troia) ma, soprattutto, con “Ti scopri granello di clessidra /
protetto dal cristallo, / il tempo è fuori, / dentro ti senti eterno”, che fa
scendere sulla terra l’Olimpo: là dove cantavano, “dove c’erano gli dei”.
Sandro Angelucci
Nazario Pardini. Scampoli
serali di un venditore di arazzi. The Writer
Editions. Milano. 2012. Pp.224. € 10,00
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