Non chiedere parola
(2019) di Francesca Innocenzi
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FOTO DI PAOLA DE BIAGI. AL CENTRO
LORENZO SPURIO E L'AUTRICE ALLA PRESENTAZIONE
A PESARO |
ma rimani
in qualunque
tempo
e forma tu sia.
Il
nuovo libro di Francesca Innocenzi, Non
chiedere parola (Progetto Cultura, Roma, 2019), pur nella sua brevità di
pagine ed esiguità di componimenti poetici ivi raccolti, chiama il lettore a
una visione e analisi attenta dei versi, non sempre direttamente fruibili e
facilmente interpretabili. La poesia, che è un dire misterico ed evocativo,
spesso pone il lettore di un testo d’altri dinanzi alla necessità di un
procedimento ermeneutico che possa permettergli di essere veicolato – in
termini semantici – verso un dire chiaro, univoco, atto a narrare una vicenda o
uno stato emozionale, nel quale – non di rado – lo stesso possa ritrovarsi,
pensare di cogliere degli aspetti di sé, in un collegamento empatico, condivisibile
e, se non del tutto partecipativo, almeno pervaso da una curiosità di fondo. I
componimenti sono tesi a perseverare in quella che può essere considerata una
vera isotopia, nei confronti del
dettato linguistico, del dire comunicativo, in una difficoltà di linguaggio,
alla quale meglio accennerò che nei vari componimenti si presenta tra un dire
rimandato, il silenzio vero e
proprio, l’impossibilità di esprimersi verbalmente. Si tratta non tanto di una
afasia del linguaggio, piuttosto di una reticenza nell’esprimersi che fa
seguito a un dolore vissuto, a una
lontananza fisica vissuta o sperimentata, a un interfacciarsi problematico –
sempre in termini di approccio linguistico – nella verbalità delle scelte,
negli atti pratici – in un contesto intimo e assolutamente privato – di tessuti
dialogici tra amanti, rimandi ed echi che, pur non percepibili nel detto
sonoro, rivestono una significazione rilevante capace di avere una sua
trasmissione ed efficacia.
Non chiedere parola raccoglie poesie scritte dalla
Innocenzi nel periodo 2012-2018; Letizia Leone nella presentazione al volume
dipinge l’opera quale un diario lirico
dell’assenza e in effetti il repertamento e la condivisione di momenti del
vissuto dell’autrice sembrano essere abbastanza puntuali, in taluni casi con
riferimento non solo al periodo di scrittura ma anche al luogo dove sono nati
determinati versi. L’assenza-vuoto, che è forse uno dei temi cardine attorno ai
quali si dispiega la silloge, ha a che vedere, oltre che con una comunicazione
sottaciuta, rimandata, ridotta nelle forme di un pensiero che non riesce a
uscire, quanto con interlocutori che, pur presenti nel ricordo e nell’anima
della Nostra, hanno lasciato il mondo concreto per abitare, in termini
definitivi, lo spazio assoluto. È un’assenza di cui si percepisce la
sofferenza, il pensiero tortuoso e ossessivo, la desolazione – non di rado –
degli spazi evocati (preferibilmente montani, caratterizzati da una natura
aspra e dai toni scuri), finanche il senso di lontananza dall’amato, una poesia
che parla con il mancante, non tanto per farlo rivivere ed eternizzare, quanto
per consentire all’animo della Nostra di abitare ancora quei tempi, di riconoscersi
in essi, di affrontare il dolore di una distanza. Rappresentando questa opera
un diario è abbastanza ovvio
sostenere che contenga frammenti e circostanze di un mondo altamente personale,
che ha senso e validità per chi lo costruisce, l’autrice appunto, e che nel
momento in cui questo svelamento
pubblico avviene (mediante la pubblicazione e la presentazione del libro)
risulta complicato poter presentare una materia che è d’altri, imbevuta di una
storia talmente privata che, pure, non avrebbe diritto a esser sottoposta ad
analisi critiche – spesso tecniche o fredde – approfondimenti su determinate
parole o concetti ivi espressi esulando una comprensione allargata del sostrato
in cui la silloge nasce, del temperamento dell’autrice, facendo, dunque riferimento
alla sua vita tra momenti più o meno felici. Il diario esistenziale, pur reso in forma lirica, non credo possa
presentarsi direttamente a un approfondimento austero meramente semantico, filologico,
interpretativo perché, pur con gli arnesi affilati di una critica onesta,
risulterebbe troppo incalzante e forse fuorviante verso una materia che vive di
altra natura. Siamo di fronte, con le poesie di Francesca Innocenzi, alla
trascrizione su carta di un non-detto,
della rivelazione in termini tipografici di un’assenza dilaniante, dove tale
vuoto e assenza non possono che configurarsi con una indicibilità costitutiva: il non dire ha la forma non tanto di una
negazione consapevole, quanto di una impossibilità di confessione, pure
momentanea, che pone la nostra a vivere questo “intimo dolore” appunto mediante
una parola levigata, spesso ossuta, priva di fronzoli aggettivali e ricami di
ogni tipo, un linguaggio ridotto dove il verso diviene un concentrato unico di
legami, di autoanalisi, di visioni icastiche e non di rado abnormali, con
costruzioni atipiche dove gli ossimori o le forme contrastive sembrano
prevalere.
Proprio
in virtù del non voler peccare nell’avvicinarmi troppo a poesie che non mi
appartengono nel modo in cui appartengono all’autrice, essendone un suo
prolungamento, eviterò di esprimere una visione d’insieme sull’opera dal
momento che, pur essendo evidente una comunanza nello stile delle varie poesie
scritte in periodi diversi, in questo libro sembrano essere contenute,
tematicamente e concettualmente, poesie che non possono dirsi completamente
inanellate in un fantomatico filo rosso.
Due
tra gli aspetti più rilevanti – e curiosi al contempo – che vanno riportati
sono relativi all’intelaiatura dell’opera e alla sua architettura: vale a dire
all’oculata suddivisione interna (una vera stratificazione)
dove i “puntelli” di questo “edificio di parole” sono rappresentati da citazioni, in esergo alle varie
sottosezioni, che fanno riflettere e che, dal momento che sono ricercate e
degne di una letteratura alta, meritano rispetto e una giusta considerazione.
Si
dovrebbe, pertanto, partire proprio dal titolo del libro, Non chiedere parola, che, con le dovute distanze che un confronto
sempre impone, sembra richiamare l’arcinoto “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato”, versi
celeberrimi di Eugenio Montale (1896-1981)
tratti dall’opera Ossi di seppia del
1925. In quel componimento il poeta genovese dava mostra, assieme a numerosi
altri, delle sue considerazioni in fatto di rapporto con l’alterità. La parola,
assunta da Montale come mezzo non tanto di conoscenza ma di comunicazione,
veniva posta al centro di una poesia dove il poeta – con il suo canonico scavo interiore – tentava di
circumnavigare, guardando da lontano e riflettendo, le questioni relative alla
semantica, al significato dei messaggi, alla potenzialità del discorso, alle
funzioni multiple del linguaggio. In questi versi, per operare un procedimento
sinottico che ha dello sbrigativo, Montale meditava sulla vita e sul suo corso,
riflettendo in maniera concreta sulla dimensione dell’umano, privo di
inibizioni di sorta e velleità all’angolo. La poesia, che si presta a una polilettura assai ampia, provvedeva in
un certo qual senso ad ottenere una conclusione passando attraverso la verità
insita nella negazione. Considerare questi aspetti, in relazione all’atto
linguistico (dichiarativo o performativo che sia) può rivelarsi utile
nell’accostarsi al volume della Innocenzi che, lontana da un tono assertivo
frutto di un’indagine che ha fornito frutti assimilabili o codificabili come
rappresentativi, persevera nel duello tra detto-non detto, tra silenzio ed
evocazione.
L’opera
si costituisce di quattro micro-sillogi, pensate un po’ come stanze comunicanti
in un possibile percorso di investigazione di una casa, che in fondo è
l’appropriazione di sé e la ritrovata autocoscienza: “Maremoto infranto”, “Nel
tempo di mezzo”, “Non chiedere parola” e “Trittici dell’impermanenza”. Esulando
per un momento l’ultima sezione che, per le ragioni che verranno dette, secondo
me merita una trattazione a parte, vorrei focalizzarmi sulle citazioni,
particolarissime e pregiatissime nei termini di contenuto, che la Innocenzi ha
adoperato all’interno di questo libro.
La
prima è del teologo mussulmano sciita Gialal
al-Din Rumi (1207-1273), meglio conosciuto come Rumi, che recita “Al di là del giusto e dell’ingiusto, c’è un
luogo”. Riconosciuto come fondatore dei dervisci rotanti, una confraternita
musulmana che ricerca la meditazione ed esprime il proprio animo con danze
rituali particolarmente potenti nelle quali il corpo viene fatto ruotare in
maniera spasmodica su se stesso, Rumi è una delle fonti più ricche della
filosofia orientale che affrontano le questioni relative alla meditazione, alla conoscenza della
propria interiorità. Quel “luogo” di
cui parla la citazione (e che in un’altra versione è reso come “campo immenso”) può far pensare – data
la natura religiosa di Rumi – al piacere paradisiaco senza tempo tipico della
confessione islamica. Eppure ciò che interessa, a mio giudizio, è ciò che segue
nella citazione di Rumi – non riportata dalla Innocenzi – che dice “ci incontreremo lì”. Tale messaggio
dunque, spogliato di implicazioni confessionali e ideologiche che, mi pare di
capire, interessano poco all’autrice del libro, vuol far riferimento alla
promessa di un possibile e futuro incontro, in un aldilà, in uno spazio sospeso
e immutabile, dove, dopo l’esistenza terrena, sarà possibile ricongiungersi con
chi si è perso.
La
prima micro-silloge, “Maremoto infranto”, che raccoglie le poesie del periodo
2012-2014, si apre con una citazione del poeta, scrittore e saggista tedesco Gottfried Benn (1886-1956), personaggio
eclettico che in un primo momento appoggiò il nazismo (divenendo direttore
della sezione di poesia dell’Accademia di Prussia) per poi allontanarsene. Di
professione medico, quale letterato la sua produzione fu contrassegnata da un
accoglimento rumoroso e polemico da parte della critica e della società dovuto
al fatto della trattazione di scene di violenza relative ad anziani deceduti,
cadaveri sezionati, obitori ed autopsie (una sua raccolta poetica si intitolava
proprio Obitorio e altre poesie)
mettendo in risalto una predilezione per i contenuti macabri, scatologici,
morbosi con i quali venne considerato autore che, tramite il fascino della
morte, era in grado di vivacizzare la vita. La citazione che la Innocenzi
riporta è tratta dall’opera Aprèslude
nella quale si legge “Devi saperti
immergere, devi imparare/ un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio/ non
desistere, non puoi andartene/ quando è mancata all’ora la sua luce”. Si
tratta di una considerazione relativa alla condizione
transeunte dell’uomo che la Innocenzi pone in apertura del suo libro quale
introduzione a un percorso iniziatico di accettazione della vita. Il preambolo
considera in quell’alternanza di bello e di brutto (definito “obbrobrio” in
quanto è qualcosa di malevolo che offende addirittura l’onorabilità) la
composizione stessa dell’esistenza dell’uomo, tra coscienza, vissuto ed
esperienza. Senz’altro un riferimento ipertestuale ricercato – come pure è
l’autore che produsse quel verso – situato a mo’ di preambolo in questo viaggio
di conoscenza di sé e del mondo.
La
sezione “Nel tempo di mezzo”, contenente le liriche del periodo giugno
2016-giugno 2018, è anticipata da alcuni versi estratti dalla celebre “Canzone”
dell’americano Ezra Pound
(1885-1972), il “miglior fabbro”. In essa, come un appassionato invito a una
persona che vogliamo bene, leggiamo: “Ama
il tuo sogno/ Ogni inferiore amore disprezzando,/ Il vento ama/ Ed accorgiti
qui/ Che sogni solo possono veramente essere,/ Perciò in sogno a raggiungerti
mi avvio”. La Nostra sceglie dei versi del poeta modernista, noto per aver
dato avvio alla lirica verticista, per affrontare il non facile tema dell’incorporeo, dell’etereo, dell’astratto,
dell’immateriale che, in quanto tali, siamo portati ad assumere come irreali,
lontani, surreali, non concreti. La realtà e l’apparenza spesso sono
difficilmente divisibili, come pure è il sogno che viviamo (proiezione del
bello) o la vita che sogniamo (estrazione psicanalitica). Prende piede, così,
nel sogno (che è la vita sperata, illusoria, ma anche quella dove
effettivamente possiamo trovare realizzazione e soddisfacimento) la vita,
lontano dal caos della realtà che spersonalizza l’uomo. Si tratta, com’è facile
intendere, di una promessa d’amore,
di una sorta di preghiera laica, che si ricollega a quel “luogo dove ci
incontreremo” di cui parlava il teologo Rumi, di cui sopra. Il sogno, quale
luogo perfetto (un po’ come la fiaba, per altri aspetti), nel quale può
accadere ciò che vogliamo.
“Non chiedere parola”, che è il titolo del
libro, è l’indicazione di apertura della terza sezione che contiene liriche più
recenti, scritte tra luglio e novembre del 2018. Il nume tutelare a cui è
affidata la sezione di riferimento questa volta è Euripide (485 a.C. – 407 a.C. ca.), uno dei massimi autori della
tragedia greca. I versi “Non è sapienza
il sapere/ avere pensieri superiori all’umano” sono tratti dalle Baccanti. Anche qui il non-detto, sul
quale la Innocenzi ha costruito il suo volume di liriche, è rilevante. Dobbiamo
fare una ricerca e ricorrere all’intera citazione, di questo passo di Euripide.
A continuazione dei due versi già richiamati, così scrisse: “Breve è la vita,/ chi insegue troppo grandi
destini/ non gode il momento presente”. Se Socrate con il suo noto
paradosso dell’ignoranza sosteneva che si può conoscere anche partendo dalla
consapevolezza dei propri limiti (dal sapere di non conoscere), Euripide fa
comprendere che è un grave errore per l’uomo frapporsi alla divinità o
apprestarsi in imprese a lui maggiori. Gli esseri umani non conoscono le cose
del mondo così come è concesso agli dei e quando tentano di farlo (pur
incoscientemente) o arrogandosi questa pretesa, succedono cose non più
governabili da loro stessi, prevalentemente nefaste e irreparabili, tragiche.
La citazione di cui fa uso la Innocenzi, posta nella sezione mediana del suo
lavoro, è una presa di coscienza netta e risoluta che intima e anima alla modestia, rifuggendo la grandezza perché
l’uomo non è sostituto di Dio o di chi ha una visione onnisciente.
Come
avevo accennato prima l’ultima sezione merita una trattazione a parte, almeno
per due motivi. Il primo è di natura meramente stilistico-formale, vale a dire
che qui sono contenuti quelli che l’autrice definisce “trittici”, ovvero degli
haiku, forme di poesie di tradizione orientale dalla struttura versificatoria
di tre versi con la struttura sillabica di 5-7-5. Lo haiku, per sua natura, non
è una poesia sintetica o accorciata né una stanza singola nella quale non
s’usano – normalmente – maiuscole e punteggiatura (se non la lineetta o il
punto e virgola) ma un componimento primordiale, che ha nella sua brevità della
struttura e precisione delle immagini, il suo significato fondante. Lo spiega
bene il critico Letizia Leone nella sua nota d’apertura nella quale, riportando
le considerazione di Roland Barthes, ricorda che “[lo haiku] è un evento breve che trova tutt’a un tratto
la sua forma esatta”. Le dieci triadi
di haiku divise tre a tre per pagina fanno parte di questi “Trittici
dell’impermanenza”. Questa parola, di evidente suggestione e di complicata resa
in una delucidazione pratica, è il secondo motivo per cui la trattazione di
questo capitolo deve essere considerata non solo a parte dalle altre precedenti
ma “a corollario”. Difatti, dopo il percorso iniziatico della prima parte, il
percorso condotto di autoriflessione e scoperta e lo stadio mediano raggiunto
dalla Nostra, si giunge alla sezione dell’impermanenza,
concetto caro alla filosofia orientale, soprattutto a quella buddhista, che ha
a che vedere con l’acquisizione e l’interiorizzazione consapevole della
componente effimera, temporanea, transeunte dell’uomo e delle vicissitudini che
reggono il mondo. Il termine, che possiamo traslare con “transitorietà” o
“durabilità transeunte”, si pone in termini contrastivi alla “permanenza” vale
a dire alla condizione che ci porta a pensare e a credere che una cosa, una
situazione, una persona, etc., sono permanenti, duraturi nel tempo,
continuativi, non soggetti a cambi, sbalzi, annullamenti, variazioni etc.
Essere consapevoli della transitorietà
significa essere anche propensi alla tristezza,
a quel sentimento ripiegato che, immancabilmente, porta a pensieri non scevri
da dolori o ripensamenti del vissuto non più praticabile. La transitorietà, che
è principio irreversibile di ogni cosa e vivente, è forse ciò che ha condotto
l’autrice a effettuare, con la sua opera questo percorso analitico,
conoscitivo, di scavo e d’interrogazione continua con il suo sé personale. Tale
sezione non poteva che avere come esergo un haiku che in maniera esaltante
descrive la situazione: “Il tetto si è
bruciato:/ ora/ posso vedere la luna”. Il poeta giapponese Mizuta Masahide (1655-1723) che lo
scrisse con poche parole ci consegna un mondo: da un fatto fortuito (grave,
perché provoca l’incendio della casa), nasce, improvvisamente, una condizione
di scoperta e meraviglia, rappresentata dalla conoscenza verso una realtà prima
ignota. La rottura del tetto metaforizza in termini concreti l’aver voluto
recedere ogni legame con la sedicente permanenza dell’uomo. Da essa si è
prodotta la rivelazione verso un’alterità non nota, un’ampiezza di respiro che
prima non poteva avere. Il cambiamento
ha portato a una novità sorprendente, a una scelta di non rimanere imbrigliati
nella stupida sicurezza delle cose ferme. Qualcosa di simile avviene in un
altro haiku dello stesso autore, dove centrale è il tema della scoperta, nel
quale si legge: “nascosto dagli alberi, /
il santuario dei topi/ e le foglie d’autunno”. Qui non è tanto l’atto
epifanico di svolta che da un’azione produce il cambiamento del proprio
temperamento, quanto il fatto che dietro il non
visibile (come il non-detto della Innocenzi) non è vero che non ci sia
nulla, semmai il contrario. Il non-detto, come il non-visto, che non è circoscrivibile
né matericamente contenibile in un contenitore, può essere fonte di una
ricchezza inestimabile, fecondo di realtà e prolifico di atti, bagliori,
richiami.
“[il male feroce]” (16) da “Maremoto
infranto”
tanto
più breve del male feroce
resta la
distanza tra il finito e il mare
su
strade della mente impraticate altrove
le pause
del conforto a fugare il rumore
di
fonemi già detti
e di
quelli da pronunciare
è un
abisso che ci afferra
noi
inzolfati fino al cuore
tu che
taci sempre luce
fuori il
bar la scuola il letto
marchingegni
da sanare
come
cervella tinte di sangue scuro
e sabbia
tanto
più breve del male feroce
resta la
distanza tra il finito e il mare
Merita
attenzione questa poesia costituita da quattro stanze difformi, sia nel numero
di versi che nella lunghezza degli stessi. Come la gran parte delle poesie
della Innocenzi si apre con un verso dove la prima parola è usata in minuscolo,
come a voler intendere la ripresa di un discorso già iniziato, che si intende
continuare. L’attenzione è posta sul sistema di espressioni che, in forma
ascensionale, rendono l’idea di un’imminente catastrofe: si è già visto con il
titolo di questa micro-sezione, “Maremoto infranto”, una ferita all’interno
dello squilibrio totale. La poetessa ci parla di una condizione di male (da
intendere nelle sue varianti di malvagità, malattia e dolore) che si è fatto
“feroce”, a marcare ancor più massicciamente questa tendenza riottosa e sadica
di un mare convulso che la distanzia dal reale, da ciò che ha, verosimilmente,
una delimitazione finita delle forme. Si pone, in maniera non dissimile da
altre liriche di questa sezione, la tematica ricorrente e assillante della complicata comunicazione tra parti,
della indicibilità del messaggio: c’è una leggera confusione (anche temporale,
sicuramente contenutistica, ipotizziamo) tra i “fonemi già detti/ e […] quelli da pronunciare”. In questo limbo
ondeggiante tra un passato (più o meno remoto) identificato da un detto
parziale, da una pronuncia ormai sfumata, si avverte l’esigenza di un dire al
presente (l’io lirico osserva, quasi annoiato, “tu che taci sempre”) anche in vista di un progetto comunicativo che
sia nutrimento per quei “fonemi da
pronunciare”, per la conservazione e sviluppo di un rapporto. Quel “male feroce” che è rimarcato nel distico
della chiusa e impiegato, nella sua esorbitante negatività, resta a confronto
di una distanza difficile da cogliere, imponderabile, che nei marosi di quelle
acque rotte, che si aprono come per spaccarsi ed essere inghiottite dalle onde
assassine, ha assorbito completamente i passi della lontananza, gli echi delle
ultime parole scambiatisi.
Il
linguaggio della Innocenzi dà spesso modo di osservare terminologie che da una
parte sembrano ancorate a un certo linguaggio arcaico, non più frequenti nel
nostro uso comune e dall’altra a costruzioni rare – non dei veri neologismi –
che per la loro unicità, calate nel contesto di queste ombrose liriche,
consentono la levità verso un più felice brio. È il caso dell’utilizzo, in
questa poesia, della parola “inzolfati”
con riferimento alla stessa poetessa e al suo amante. Utilizzo improprio della
parola se, come in questo caso, ha intenzione di riferirsi a una persona. L’azione
dell’aspergere lo zolfo è una attività ricorrente nell’agricoltura, adoperata
per risanare la malattia di alcune piante (la vite ad esempio) o per prevenire
l’infezione da batteri o altri contaminanti. Il dire che una persona è inzolfata,
oltre alla natura accezione della colorazione giallo acceso che attribuiamo
allo zolfo (gradazione cromatica definita proprio “giallo zolfo”!), può far
pensare a un’allusione relativa allo stadio di malattia del rapporto (senza chiarirne
la causa) per il quale l’intervento di un agente chimico (quindi il prodotto
dell’attività dell’uomo) risulta importante, quando non addirittura necessario,
per una cura, un intervento che ponga fine o che argini la situazione
patologica che grava sull’organismo.
“[Andria-Corato, 12 luglio 2016]” (27)
da “Nel tempo di mezzo”
di tanto
schianto
resta
ferraglia in intrichi d’ulivo
mentre
la vecchia nel campo miete il grano
e
l’orologio il binario il capotreno
eseguono
gli ordini della padrona
ho
lasciato il cuore sulla terra rossa
tra
lamiere e spighe è sbocciato un grumo
da
frantumare in olio d’autunno
e
spargere piano sul tuo viso chiaro
ora che
gioca al frantoio il tempo
un tonfo
di carni partite al macello
mima lo
scampanellio dell’arrivo
La
lirica inizia quando qualcosa è già accaduto. La prima immagine è fornita nella
forma – immaginiamo – di un’ellissi, ma ha anche una forza sua, particolare,
nel voler accentuare la drammaticità della scena mediante l’uso insolito di una
forma atta a trasmettere una soverchia misura, “di tanto”. A partire dal verso che segue prende il via un
linguaggio impietoso e raggelato dinanzi a un senso d’instabilità dell’esistenza,
una folata di disarmante coscienza. È l’aspetto marginale, dello scarto, che
deriva da un’operazione di sottrazione, di smembramento e devastazione: ciò che
resta sono lamiere torte, materiali e oggetti dilaniati al punto tale che è
impossibile scorgere in essi un qualche tipo di forma. L’atto devastante della
dolorosa collisione dei due regionali in terra di Puglia non è descritto nel
momento dell’impatto, dell’azione mortifera, ma negli istanti fermi che lo
seguono. La scena è aberrante: scaglie di vita ovunque, sangue che macchia la
campagna, una terra che assorbe quei liquidi fuoriusciti da ferite, scoppi,
momenti di delirio che ha prodotto un indicibile scenario apocalittico. Impossibile travalicare la sofferenza provata
dall’io lirico che percepiamo nel moto di velata stizza e profonda
commiserazione in quell’attestazione reticente a pudicizie: “ho lasciato il cuore nella terra rossa”.
Le forme immedesimative lasciano il posto a una mimesi dolorosa, a una
compartecipazione dolente, che interpella e indigna al contempo. La poetessa fa uso delle forme liquide che descrivono
quella negletta scena: l’olio e il sangue, fluidi che divengono emblemi del
ciclo vitale stesso della natura, tanto della pianta, come quella dell’uomo.
Olio, quale oro verde, pregiato prodotto della terra e della meticolosa
coltivazione dell’uomo e il sangue, linfa vitale degli esseri umani che,
descritto nel suo innocente spargimento, fa pensare un’azione illogica e
ingiusta. Liquidi che finiscono per scorrere insieme nella campagna dove il
sole cocente e la forte luminosità amplificano il senso d’inadeguatezza
dell’uomo al mondo dinanzi a simili sciagure. Palcoscenico amaro di una
giornata qualsiasi che di colpo si ferma su quella traiettoria comune, mezzo
abituale per pendolari, in una tratta forse poco controllata e con precaria
manutenzione. Le persone, di cui non ci vengono forniti tratti specifici né
espressivi, fanno parte – già dall’inizio della lirica – di quella massa di
fantasmi, di vittime bianche, di dannati dalla sfortuna o semplicemente da un
destino beffardo che ha dovuto compiersi senza se e senza ma. Il “tonfo di carni” è forse l’immagine più
cruda che la poesia trasmette al lettore.
Poesia
dalle immagini forti, dove si è portati intuitivamente a credere che il treno
sia il nemico primordiale: quell’ammasso di metallo diviene il mostro di una
morte che, se non direttamente annunciata poteva, però, essere intuita. Non è
interesse della poetessa accennare a possibili motivi all’origine della
sciagura, elementi determinanti nello sviluppo del dramma o concause. La sua
poesia, al contrario, non intende dare risposte, non punta il dito contro
nessuno, non è motivata dal desiderio di costruzione oggettiva della realtà.
Difatti è un canto di dolore vagliato dalla sua sensibilità.
Si
percepiscono echi di espressionistici versi di Vittorio
Bodini (1914-1970)nei quali ritroviamo
le immagini dense e dai toni cromatici distintivi della natura locale e la
ferrosa presenza del treno, vengono spontanei da citare, pensando a questa
lirica della Innocenzi. Nella poesia “Tanti anni”, tratta da Altri versi (1945-47), vi è una
significativa assonanza tra il colore rosso (così preponderante nella lirica
della Innocenzi) e l’immagine di un mezzo su rotaia: “Noi abitiamo in una rosa rossa. / Passavano treni in corsa alla
periferia/ - un gomito sonoro -/ e tutto il resto era un fermento di cieli”.
Bodini non si riferisce a nessuno scontro fisico tra treni, ma è senz’altro
significativa la descrizione che fa in questa poesia, sottolineando il rumore
assordante del mezzo che rompe la quiete. Colpisce anche la chiusa in cui
quest’ultimo fornisce un’immagine inconsueta di disordine e di copertura, di
una sorta di offuscamento che cela la completezza dello sguardo: “Chi avrebbe mai pensato/ che voi scriviate
come un’ombra d’alberi,/ come i pettini freddi/ con i denti coperti di capelli!”.
Vien da pensare ai corpi inermi di quei derelitti senza vita, ormai gelidi e
scomposti, malformati e rovinati, imbrattati di terra e dilaniati che i
soccorritori si apprestano a celare con teli che, momentaneamente, velino la
dignità umana sottraendo la sciagura al bieco sciacallaggio di notizie. Infine,
una delle liriche più belle dell’intera produzione bodiniana, è quella
contenuta nella silloge La luna dei
Borboni (1952). Qui è il sopraggiungere di una luce carica e sanguigna a
scendere sulla terra di Puglia e a diffondersi espandendo velocemente nei
dintorni creando una sorta di mare di sangue: “Cade a
pezzi a quest’ora sulle terre del Sud/ un tramonto da bestia macellata./ L’aria
è piena di sangue,/ e gli ulivi, e le foglie del tabacco,/ e ancora non
s’accende un lume./ Un bisbigliare fitto, di mille voci,/ s’ode lontano dai
vicini cortili:/ tutto il paese vuol far sapere/ che vive ancora/ nell’ombra in
cui rientra decapitato/ un carrettiere dalle cave”. Non è questo, forse, il
medesimo scenario di morte e di epidemia dolorosa che contraddistingue il
retroterra contestuale della lirica di Francesca Innocenzi? Nel componimento della Innocenzi, la voce lirica tracima di sofferenza,
sembra aver visto troppo e non riuscire ad allontanare le immagini dolorose. Pur
lontana dal luogo dell’accaduto ha trasferito non solo la scena finale, di
fissità e annullamento di alcun possibile dinamismo, ma anche il fragore
dell’impatto. Dopo il tremendo incidente si è creato un silenzio spudorato,
insostenibile.
- “[dispersione]” (31) da “Nel tempo di
mezzo”
ovunque
e in ogni tempo il taciuto
imperversa.
scosti
lo sguardo dal vacuo della stanza
e chiosi
che ogni esistente ha fine.
È
sgombro di parole il corridoio
altrove
traslate.
giugno
senza attese le disperde
come
oracolo di foglie indecifrato.
Questa
poesia è calata sontuosamente in una dimensione sospesa di difficile
configurazione. Il titolo, “dispersione”, anticipa gli effetti di un’azione che
non ci è dato conoscere e che danno come risultato quello della perdita e
frantumazione, della polverizzazione e, appunto, dell’annullamento di un
qualcosa inteso come integrità. Tutto gira ancora attorno alle parole, quel
linguaggio osteggiato e perennemente ricercato, che nelle liriche della
Innocenzi rappresenta un universo difficilmente indagabile: ci parla, in
apertura, di un “taciuto”, di un
non-detto. Va senz’altro aperta una parentesi su questo non detto: esso può
contemporaneamente essere tale in quanto non si può dire o non si vuole dire.
Significativamente risulta importante tutto quell’arredo di riferimento al dire
o al silenzio, quelle attitudini verso la parola e l’approccio a ricercare
messaggi, vale a dire il contorno non uditivo di questi componimenti poetici.
La frattura che sembra aprirsi tra un messaggio mancante, che voleva essere
veicolato e che non è stato trasmesso (a causa della lontananza o di una
fragilità o di una non maturazione completa del proprio io) e il rimorso per
non aver concretizzato quel dire, si palesa nei componimenti. Se esiste un
taciuto, immancabilmente esiste anche un contenuto che viene taciuto. Parimenti
il mondo delle parole vane sembra essere cospicuo ed espandersi con velocità e
forma logaritmica dal momento che la poetessa non manca di accennare al nostro
mondo consumistico. Qui, in “dispersione”, viene da credere che il taciuto
abbia ancor più peso di quanto avrebbe avuto l’eventuale detto, confessato,
rivelato ed è proprio in questa titubanza comunicativa, in questa frustrazione
che la poetessa ravvisa ancor più distintamente il pericolo che può intaccare
la parola, il detto, il rivelato: la dispersione e la traslazione. Ciò accade
spesso nella frenesia dell’oggi dove alla parola – sia essa rivelazione che una
consuetudine – appare frattura, disarticolata, smembrata – dispersa, appunto –
oppure trasfigurata, nel campo semantico, a una significazione diversa,
allusiva o contorta, subliminale o metaforica, plurisenso o ironica, finanche
ardita. Tale situazione è una lettura che si può far fuoriuscire da questo
breve testo poetico dove senz’altro la poetessa si sta riferendo a un vissuto
con un amante ma nel quale, pure, appare evidente e sentita la questione
linguistica, l’importanza dell’adozione di un codice, le modalità di feedback,
etc.
Questo
concetto della dispersione, che pervade il testo, allude (e sembra ammonire) a
una separazione, un allontanamento, una distruzione. Significativo appare anche
l’uso del verbo “chiosare” coniugato, forse assai inadatto in chiave poetica.
Il chiosare non è un semplice dire (che verrebbe in soccorso dinanzi al
dilagante non-dire) ma sta a significare quella potenzialità che non è di tutti
di saper far credere una cosa, permettere di capacitarsi su un fatto mediante l’illustrazione
o la spiegazione ovvero avvalendosi di mezzi che sono a dimostrazione –
probanti – e che derivano da un ragionamento percorribile in chiave logica. La chiosa,
però, è anche una semplice nota, un’osservazione, un commento a latere che, se
assunto in tale significazione, ha la forma di qualcosa di istintuale e
fuggevole, apportata in maniera veloce, all’esigenza, quale semplificazione o
ampliamento di qualcosa. Il traslare,
pure, risulta interessante da affrontare parlando di linguaggio, dunque di
parole che possono essere convertite, sostituite, ribaltate, invertite e così
via. Non è tanto il posizionamento fisico che importa quanto la traslazione di
significato, vale a dire il prolungamento (o estensione) che ad esse si dà, il
trasferire di un senso in uno spazio diverso, oltre, un rimandare a qualcos’altro.
Le stesse citazioni, che la Nostra utilizza con abbondanza in questo libro,
sono un procedimento intertestuale che prevedono a una traslazione: la
citazione ad altro autore, ci rimanda ad esso e alla sua produzione, al suo
periodo e zona geografica, alla sua sensibilità, mettendoci in comunicazione
con un’alterità che coniuga, in qualche modo e a qualche altezza il nostro
testo, lo presenta, lo anticipa, o vi ci si riflette.
- “[traversata]” (40) da “Nel tempo di
mezzo”
Non ci
sarà lieve il mare.
Quando
l’onda si frantuma
sale
l’odore del caffè tostato,
terra
cinabro, pelle di donna
in
abbandono.
Dentro
la muta
muraglia
d’acqua
si
inabissano scampi di guerra
echi di
vane parole e pianti
effigie
di dèi
che non ci hanno salvato.
Ci
troviamo dinanzi a un breve testo d’impronta diversa dagli altri sin qui
analizzati, dove si percepisce la tensione civica che muove la poetessa dinanzi
a una realtà difficile della quale ha deciso di occuparsi. Similmente a quanto
avveniva nella poesia dedicata al ricordo del disastro ferroviario accaduto in
Puglia qualche anno fa, in tale testo, seppur con una intensità diversa, si
percepisce un tono sfiduciato e dolente verso una cronaca disperata, quella del
naufragio – intendiamo, anche grazie
al titolo “traversata” – di migranti che, lasciando disperatamente i loro paesi
in guerra o in crisi, sperano di attraccare nel Vecchio Continente per
inaugurare una nuova vita.
In
questa sezione dominano poesie e riferimenti al mondo equoreo, tra cui la “umida
terra [che] attende/ una virulenza d’acqua” della poesia che segue, scritta
a Sassoferrato nel febbraio 2018, e soprattutto la lunga lirica “divagazione d’acqua”,
dalla quale cito alcuni versi molto belli: “l’acqua/
che mi ha fatta disfatta/ rarefatta/ pelle di bambola, capelli d’alga-/ […]/ Io
sono una e molte”. La poesia “traversata” condivide il mezzo naturale,
quello dell’acqua, sebbene sia un’acqua di morte, quella del Mediterraneo dove
molte imbarcazioni si spezzano e non giungono alla riva sperata con la
conclusione amara che centinaia di corpi trovano la loro bara al fondo del
mare.
L’incipit
recita “Non ci sarà lieve il mare”, è
il messaggio (il pensiero e l’ossessione più che altro!) composto e risoluto –
dinanzi alle avversità palesi – di uno stesso naufrago in balia delle onde. L’incertezza
del traguardo non è tanto una vaga possibilità ma un’ossessione radicata e
plausibile. Nella levità alla quale si accenna nel verso iniziale, impossibile
non leggere la famosa frase “Che la terra
ti sia lieve”, formula ultima di commiato verso un morto che spesso viene
impiegata. La Innocenzi parla di una “muta/
muraglia d’acqua”: il mutismo precedentemente visto in liriche in cui si
parlava di non-detto o di silenzio, riferito per lo più alla distanza tra due
amanti o dall’impossibilità di connessione con un passato ormai lontano, è qui
amplificato dalla dimensione acquatica. L’acqua, da buon elemento isolante, non
permette la diffusione di onde sonore: sprofondati in mare, sbraitando e
sbracciando per un tentativo di salvezza, le urla disperate si perdono. Sono “vane parole”, come ben le descrive:
parole che nessuno ascolta. Adoperando un’estensione potremmo dire che sono le
stesse parole – i messaggi di disperazione – che l’Europa, forse, non sa ancora recepire.
Se
il “maremoto infranto” dava l’idea di un mare convulso, di onde frenetiche e di
un movimento audace di madre natura, qui c’è un’acqua muta, apparentemente
morta, fissa. Il moto non ci viene descritto, ma nulla fa intuire che sia una
scena assordante. Il moto ondoso è silenziato, nel bel mezzo del mare i poveri
disperati sono alla mercé di se stessi, anime vaganti, una sorta di morti
ambulanti, in uno stato illusorio di sospensione, in un delirio inimmaginabile.
Così non solo il corpo ma anche l’udito è violentato: le urla in mare ben
presto si placano. Tutto diventa ovattato, è una traversata infernale dove alla
fine si produrrà il silenzio più totale in un mare-lapide, tomba di esseri
divenuti cibo per pesci.
Non
potendo dedicare, per varie ragioni, una trattazione particolareggiata per
ciascuna poesia che compone questo libro, mi limito in chiusura a riportare
alcuni versi tratti da altre liriche non commentate, che reputo incisive e
degne di essere poste in evidenza. In “La fame dei vicoli” si parla “del sogno/ la fluorescenza che chiama allo
sguardo”, tale fluorescenza, quale colore che vibra, bagliore quasi irreale,
fa da contrasto a quel fosco “scuro
interno di due persiane”; la lirica senza titolo il cui verso iniziale
recita “I paesi in collina sono fari sul mare” fornisce una multipla visione di
piccoli borghi posti ad affacciarsi sull’Adriatico: da una lettura poetica a
una mitica, passando al fascino della storia per giungere alla meditazione
prettamente filosofica, la poetessa dona un affresco riuscito e speziato, senz’altro
carico di passione. Si parla anche di un “trascorso
roco del tempo”, un passato dal tono basso, fioco, stizzoso e quasi afono,
di cui si rimembra l’afflato ispido mentre “un
trambusto di vita/ […] per te rinverdisce”.
Vorrei
riportare, infine, il discorso dove si era aperto, ovvero parlando di uno dei
poeti più grandi della nostra letteratura: Eugenio Montale. Egli, in molti modi
e da varie angolature, si era posto le questioni dell’ambiguità del detto, della non linearità e polisemanticità della
parola, proponendo egli stesso e ponendosi il tema dell’intraducibilità della poesia, in Satura scriveva: “le parole/
sono di tutti e invano/ si celano nei dizionari/ perché c’è sempre il marrano/
che disotterra i tartufi/ più puzzolenti e i più rari…”. Ecco, il critico
cade forse nell’errore quando cerca di spiegare qualcosa secondo le sue
indagini, per quanto obiettive possono dirsi, l’abbaglio si rivela sempre nei
paraggi. Ed è per questo che credo che il non-detto della poesia non solo sia l’anima
della stessa, ma vada rispettato. Che è uno scrigno inviolabile dai più e la
cui ricchezza sta nell’inconoscibilità del contenuto e nell’unicità della
chiave in mano al solo possessore.
Lorenzo Spurio
Jesi,
14-10-2019