mercoledì 30 dicembre 2020

GIAN PIERO STEFANONI: "VIA JENNER"

VIA JENNER

 

Gian Piero Stefanoni,
collaboratore di Lèucade

 Resta qui nella caduta di fiori non raccolti,

in questa visione di uccelli senza becco

che non comprendono dell'uomo

lo spavento e l'isolamento dal canto.

 

Resta che ora il credo ha smarrito i ritorni

ed il dolore ha bisogno di figli

là dove bloccata e non redenta è la strada.

 

Se la vita ha ancora spinta dal basso

infatti non solo spina è la mano,

l'ordine del patire nell'assentire del sangue.

 

Non muta la scelta

nell'illuminata partecipazione delle ombre.

 

 

 

 

lunedì 28 dicembre 2020

ENZO CONCARDI LEGGE: "ULTIMI PENSIERI"DI LUCIANO POSTOGNA


Luciano Postogna

ULTIMI PENSIERI

Guido Miano Editore, 2020

 

Recensione di Enzo Concardi

 

 

     Questa recente pubblicazione del poeta triestino e carsico – tali sono le sue radici anche d’ispirazione artistica – Luciano Postogna, rappresenta una sorta di outing di tutto il magma esistenziale, morale, spirituale che si agita nella sua interiorità, ora che – dopo  gli anni ruggenti delle età precedenti - si trova a vivere l’autunno della vita, percepito in gran parte come una stagione decadente e crepuscolare: “Anch’io ero un uomo. / Ora m’inebrio di ricordi” (da Anch’io ero un uomo); “Il mio tempo è passato / ed il cinguettio sordo / lo porta lassù all’infinito” (da Pioggia).  Ci viene quindi proposto un viaggio – una recherche, per dirla con Proust – nelle sinuose dimensioni del tempo e nelle mobili e altalenanti suggestioni della memoria: quando la riflessione personale sosta con insistenza sugli aspetti di finitudine, precarietà, fragilità dell’esistenza, ci si trova inevitabilmente a ragionare e a poetare intorno alle cose ultime e penultime della nostra presenza terrena, ovvero a cercare faticosamente un bilancio fra il dare e l’avere, a tentare di mettere ordine nelle sabbie mobili del proprio passato, a sperare di poter contare ancora su un futuro. La muta degli anni ormai consumati sembra rincorrere il poeta senza tregua e dolorosamente: “Con gli occhi algidi vedo nelle stelle, / … / fluente lo scorrere del passato, / la cronologia è confusa: / sono lampi di vita senza data, / son brani di una vuota antologia, /... / confusi incubi nelle notti insonni” (da Vedo nelle stelle); l’incognita del domani lo pervade di stati d’animo inquieti: “La sera a occidente scivola, / rimpianti non lascia, ma ansie future: / la notte incombe sul Carso spettrale” (da Serata).

     Le tonalità poetiche di quest’opera, così come le stazioni tematiche, rivelano contraddizioni al loro interno, date dai chiaroscuri, dai contrasti tra luci ed ombre, dai momenti di pessimismo della ragione e da quelli di ottimismo della volontà, per dirla con Gramsci: spesso dunque i contenuti e gli umori delle liriche oscillano ancora come tra i due estremi di un pendolo, in attesa di ricomporre un equilibro, se mai sarà possibile, preso atto dello stato problematico della presente stagione esistenziale dell’autore: “Lassù un castello in aria che m’appare, / … / Visione, in bianco e nero, d’un quadro / surreale, dipinto da una mente / che stenta a ritrovar l’essenza dei / ricordi nebulosi del passato (da Ricordi nebulosi del passato). Tale consapevolezza di vivere tra sogno e realtà, di essere ora sul filo del rasoio, ora vicino a terre più amiche, spingono il poeta a cercare la desiderata leggerezza dello spirito: “Anima inquieta / … / riponi le ansie / … / nella pace dei monti. // … Vivi le ore più liete / che natura ti offre. / Abbandona i pensieri onerosi / … / e nel tuo cuor / serenità e gioia / regneranno ancora, / tornerai così ad amare” (da Anima inquieta). Ma la dispersione nel tempo continua, un tempo frantumato, coperto da nebbie che non si sollevano, un tempo col quale il poeta non riesce ad aggiustare i conti: “Ricordi pallidi / dei tempi che furono / e che obliare volevo. / Visioni limpide / della vita presente / che non mi dicevano nulla. / Speranze del mio destino futuro / che non presagivo” (da Nottata inutile), anche se resta pur sempre il ritorno dei mesi chiari e limpidi a riportare semi pronti a sbocciare: “Sei nei colori allegra oh Primavera / … / gioisci natura al rinnovato evento. / … / Ora dormi paesetto di collina / domani sarà ancora Primavera” (da Ben tornata Primavera).

     Dalle seppur brevi citazioni finora richiamate, già si può evincere il ruolo giocato dalla natura nell’ispirazione dell’autore, come ha puntualmente precisato Nazario Pardini nella sua prefazione: “Iniziare da questa poesia testuale significa entrare fin da subito nei meandri dell’animo del poeta … Ma soprattutto significa leggere quanto la natura incida sulla poetica di Postogna. …. Una vera natura medicatrix”. Quindi paesaggio e meditazione s’intrecciano quasi sempre nelle sue liriche, alla maniera degli idilli leopardiani e valga per tutte la composizione Fischiano i rami: “Fischiano sotto il vento i rami / dei neri carpini, / e la Luna appare, / sopra i boschi carsici. // La regnano i calcari / e gialli i prati / nella stagion foriera / di tempo brumale. // Lande, che desolate, / per il tepor perduto piangono, / a versar sul rosso dei sommacchi / i soliti rimpianti. // Domani sarà pioggia / e senza alcuna speme / volerà il tempo celere / verso nature sterili”.  Ancora richiami del passato trovano spazio nel diario del poeta  (Dopo guerra, Nuovi destini, …), richiami dei ricordi domestici dell’infanzia, quando il clima familiare diffondeva quel calore umano e quelle atmosfere affettive ora non più revocabili, ed anche questi luoghi della memoria diventano per lui motivo di dolce nostalgia e di rimpianto.

     A questo punto imbastire un discorso filologico sull’estetica e sullo stile della sua poesia mi pare piuttosto secondario, data la pregnanza, lo spessore del messaggio, il pathos che allo stesso protagonista preme comunicare: basterà accennare alle sue reminiscenze classicheggianti e all’utilizzo di un vocabolario che sovente attinge a quella scuola e che lo fanno apparire legato ad espressioni sorpassate: villan, appié, algente, barroccio, eburnei, opima, anecoica, edenico …). Ma nel complesso la metrica, i ritmi, le scansioni, l’armonia e la musicalità dell’insieme scritturale reggono alla prova di un’analisi critica. Sebbene, invece, all’analisi testuale non risulta mai presente in forma esplicita il tema della morte, mi pare di poter affermare che tuttavia esso sia lo spettro che incombe, più o meno inconsciamente rimosso, dietro diverse composizioni e che – prima o dopo – apparirà direttamente nella sua poetica, poiché forse da lì nasce la sua inquietudine esistenziale. Questa poeta, così fortemente legato alla sua terra, non poteva lasciarci senza una poesia dedicata a Trieste – che ci rimanda per comunanza di luoghi geografici, se non per affinità artistiche, alla Trieste di Umberto Saba – dove possiamo seguirlo e immaginarlo, nella lirica Tra le nuvole, vagare sui colli alle spalle della città; lungo le costiere fino al castello di Miramare; sull’altipiano carsico dall’ambiente naturale calcareo, unico e originale; in alto al colle di San Giusto: “Città antica dormi / la storia ti protegge”. Ed io me lo raffiguro sempre meditabondo, con lo sciame dei suoi pensieri a tenergli compagnia: l’avventura della vita ancora lo attrae, anche se il fardello degli anni inizia a farsi sentire.


Enzo Concardi 

 

Luciano Postogna è nato nel 1942 a Trieste, dove a tutt’oggi risiede. I suoi primi versi risalgono alla fine degli anni ‘50 quando, ancora studente, componeva per i giornaletti studenteschi. Le prime raccolte di poesie sono datate anni ‘70 e rimaste nel cassetto per quasi trent’anni: alla stregua di un diario intimo che memorizza i sentimenti e i ricordi del poeta. Solo nel 2000, infatti, Postogna comincia a divulgare e pubblicare le sue poesie, sia giovanili sia quelle scritte fino ai giorni nostri. Nel 2000 esce la sua prima silloge, intitolata Pensieri nudi, seguita da Ali d’Arcangelo (2000), Raggi rossi al tramonto (2001), Anatomia del vento (2002), Oltre ogni orizzonte (2003), L’ombra dell’anima (2006), Antologia (2020), Ultimi pensieri (2020).


Luciano Postogna, ULTIMI PENSIERI, prefazione di Nazario Pardini, Guido Miano Editore, Milano 2020, pp.88, isbn. 978-88-31497-37-4.

 

 


EDDA PELLEGRINI CONTE: "TUTTI I COLORI DEL GIALLO"







LOREDANA D'ALFONSO LEGGE: "L'ALTRA META' DELLA NOTTE-BOLOGNA NON UCCIDE" DI FABIO MUNDADORI

 Loredana D’Alfonso su “L’altra metà della notte - Bologna non uccide” di Fabio Mundadori

 

“Dove sei?” “Al parco”  “Com’è il parco?”

 

Loredana D'Alfonso,
collaboratrice di Lèucade

Inizia così il thriller di Fabio Mundadori, “L’altra metà della notte - Bologna non uccide”,  pubblicato nel 2016 con “Comma 21” Editori.

Da un punto di vista tecnico il dialogo è un flashforward, un espediente letterario caro ai giallisti, che non si aggancia alle pagine che seguono, ma che ha l’effetto di trasportare il lettore in avanti, nel punto cruciale della narrazione.

L’incipit del romanzo è un incubo, un odore di foglie decomposte, un luogo oscuro e terrorizzante.

La scena cambia repentina e ci ritroviamo nella realtà, precisamente a Bologna, a fine luglio nel 1980.

Il romanzo si muove su due piani, passato e presente e l’Autore intreccia due fili di colore diverso sullo stesso ordito.

Il filo blu ci porta indietro, al 2 agosto 1980, alla strage di Bologna ed a un giovane sovrintendente di polizia, Cesare Naldi, che si trova coinvolto nella tragica vicenda, restando per una notte sotto le macerie.

Il filo rosso, invece, ci strappa in avanti nella narrazione e ci presenta il Naldi attuale, commissario d’assalto, non propenso a finire dietro una scrivania, sempre pronto all’azione.

L’Autore ne rivela la crescita precoce, di orfano adolescente, e Naldi ci piace immediatamente. E con lui, la sua collaboratrice,  l’agente Cristina Colombo.

I delitti si susseguono, il ritmo incalza, e si scopre che la strage di Bologna non ha lasciato solo morti e feriti, ma anche altri generi di piaghe profonde che hanno lasciato segni che non si vedono, ma non per questo meno gravi.

E’ il caso del personaggio di Anna Serra, anche lei sopravvissuta alla strage, con il marchio indelebile di un disagio psichico mai superato, le fughe nel nulla, le poesie ispirate alle vittime innocenti di questa oscura pagina della nostra storia.

 

Lo stile è scattante, nervoso, i periodi brevi rendono la lettura incalzante e scorrevole.

Un melting pot da brivido davvero ben riuscito. Unisce infatti le caratteristiche del giallo made in Usa (inevitabile l’accostamento a “Il collezionista di ossa” di Jeffery Deaver) e l’orrore ossessivo caro ai norvegesi ed in generale ai giallisti scandinavi come Jo Nesbo e Anne Holt.

Bologna fa da sfondo ai personaggi, numerosi e descritti con minuziosità ed abilità. Lambrusco e piadine danno un sapore di casa a questa vicenda che si svolge nella città dei sogni, delle belle ragazze e delle  biciclette rubate.

Bellissimi e struggenti i flash sui quartieri e i personaggi: il Bar Loris, le birre che faticavano a rimanere fredde nell’estate torrida del 1980, Bisachén, il senzatetto, che rasente al muro, alla stazione centrale, con la mano tesa, è testimone e vittima di un segreto scomodo.

Originale e toccante l’accenno all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master. Vengono i brividi a ricordare  la celeberrima “Dormono sulla collina”, cantata dalla voce malinconica e inconfondibile di Fabrizio De André.

Ogni passo del romanzo presenta un nuovo enigma, i fili di passato e presente si intrecciano sempre più fittamente e, a tratti, l’orrore del bosco oscuro e delle foglie decomposte ricompare con i suoi miasmi fetidi,  ci tiene in tensione, spingendoci a finire più in fretta possibile il libro.

Raymond Chandler scrisse le dieci regole per scrivere un romanzo giallo e tra queste quelle che ho sempre condiviso: la storia deve essere credibile, deve essere tecnicamente solida, realistica, deve avere un valore di fondo, deve avere una struttura abbastanza semplice nella sua essenza per non farsi scappare di mano il finale e, infine, la soluzione del mistero deve essere in grado di sfuggire ad un lettore ragionevolmente intelligente.

Fabio Mundadori ha scritto un giallo ad alta tensione, credibile, che, come tutti i gialli a schema classico, risolve la vicenda, rivelando il colpevole  con il colpo di scena finale.

Non possiamo dilungarci perché diremmo troppo, togliendo mistero e fascino alla lettura, ma mi sembra doveroso fare un primo piano sul protagonista.Convince il commissario Cesare Naldi, cicatrice sulla fronte, ricordo di quel 2 agosto 1980, sessantenne che dimostra parecchi anni di meno. Segni particolari: un viso che ricorda Harrison Ford, single ma sentimentale, con il Creatore - per usare le sue parole -  ha un rapporto di cordiale amicizia, ama la birra rossa fredda e, soprattutto, non molla la presa.

Ha nella fondina la rigorosa Beretta di ordinanza che considera come una moglie, mentre la pelle liscia dell’amante è appannaggio della più spregiudicata Glock (pistola semiautomatica progettata negli anni ’80).

Il commissario fa sempre di testa sua, questo è sicuro, e non ha nessuna paura di ricominciare da capo una nuova vita.

D’altronde, è questa l’unica formula magica dell’eterna giovinezza.

Ed è anche vero che “solo pensando in grande che si diventa grandi”.

Dici solo cose giuste, commissario Naldi, arrivederci alla prossima avventura.

Loredana D’Alfonso

 

 

 

 

 

domenica 27 dicembre 2020

MARIA RIZZI LEGGE: "CROMIE" DI VINCENZA ARMINO



Vincenza Armino

CROMIE 

Recensione di Maria Rizzi

 

Mi sono accostata alla Silloge “Cromie” della professoressa Vincenza Armino, edita da Guido Miano, in punta di piedi, con pudore e rispetto profondi. Si tratta di un testo introdotto magistralmente dal caro Nazario Pardini e da Enzo Concardi, che mettono in rilievo le particolarità dell’opera e quanto la Poetessa, in virtù del suo talento meriti di essere inserita nella Letteratura Italiana del nostro secolo. La prima impressione che ho provato, scorrendo le liriche, è stata che l’Autrice l’abbia composta con quattro sensi. Il tatto, ovvero l’esperienza materiale dell’esistenza, sembra, e ripeto ‘sembra’, assente sin dalla dedica. “Al ricordo / compagno dell’attesa”. Un viaggio straordinario tra i colori dei sentimenti, tra i profumi, gli ascolti, le immagini che accompagnano le stagioni del tempo terreno. Un romanzo in versi di sfumature emotive, che imprigiona mente e cuore, come il vapore che annebbia lo specchio al mattino, come il calore che sale dal selciato, come il vento d’estate. La prima lirica recita il potere del silenzio e può sembrare un ossimoro in poesia, in realtà è l’incipit della sublime storia d’amore della Armino con il lirismo. Le parole rappresentano spesso un intralcio, in quanto le verità sono nodi nel legno dei nostri corpi, luoghi nei quali il sangue scorre all’indietro:

 

“Parlo

 nei miei pensieri

 affollati.

 Parlo nelle mie ore

 sveglie,

 nei miei momenti

 di abbandono.

 Nelle mie fughe

 nei silenzi,

 parlo.

 E’ forte la mia voce.

 Dentro”

(Lirica “Senza parole”)

 

La Poetessa coglie i misteri e i limiti della vita, ne evidenzia la precarietà e il dolore che derivano dal senso dell’effimero, che “si scioglie / in un bagno / di campiture / vivaci”. La distribuzione delle tinte dell’anima sul quadro spazio - temporale consente di creare il giusto sfondo per aderire alle paure, alle illusioni, alle aspettative, senza esserne fagocitata. La luce è il miracolo salvifico, luce che nelle sue rifrazioni si disperde dando origine alla magia dei colori. Ella procede, da splendida funambola, sul filo dei versi, grazie ai segreti delle cromie interiori. La poesia “Assolo” ne è la dimostrazione. Quattro versi superbi per dipingere l’anima che si districa, come corda di violino, in quella luce e trova le strade più ‘sentite’ per realizzare le proprie fughe.

 

“Ragnatele vibratili,

 lattiginosa luce.

 

 Passaggi segreti

 dell’anima assorta”.

 

L’Autrice possiede il dono di navigare nell’universo dei sensi liberandosi dalle convenzioni sociali. Sa seguire il flusso delle onde con fiera trepidazione. E con la sua poderosa cifra stilistica, che invita a pensare al grande Ungaretti, sa cogliere l’essenza, sa calarsi nel sole dei ricordi e riemergere tra le nubi del presente, confrontandosi con l’ineffabile e l’effimero insiti in ogni esperienza.

 

“Vita che fugge,

sfugge,

cerca,

anela”

(Versi tratti da “Nenie e…)

 

La Nostra procede per sottrazione, sceglie la poesia - frammento, eppure ogni pagina della sua Silloge è esplosione immaginifica. Saper comporre versi come i suoi significa possedere il coraggio di svuotare l’anima e di lasciarla libera di riesplorare il vissuto e di cercare, con ritmo incessante, la natura intima, la quintessenza del proprio universo sentimentale. Ella non teme il confronto con il nucleo delle singole forme di conoscenza della vita. Osa e soffre. Si consuma e risorge, quale Araba Fenice, dalle ceneri delle delusioni, delle amarezze. “il cuore / chiuso in un gemito / sommesso” non rischia atrofie, vibra arde, ‘si rattrappisce’ per poi liberarsi dinanzi ai miracoli poetici della natura. Figlia del mare, l’anima dell’Autrice, ne conosce i segreti, per dirla, parafrasando Charles Baudelaire, ‘contempla i moti del proprio spirito nello svolgersi infinito delle sue onde’:

 

“Sembrerebbe dipinto

il mare,

se non fosse

per le increspature

quasi impercettibili:

leggeri aliti di vita”

(Versi tratti da “Alchimie)

 

I territori della memoria concedono sospensioni al viaggio della cara Armino. Il minimalismo dei versi, compensato mirabilmente da una estensione emozionale che non finisce di sorprendere, trova nella saudade un’apertura d’ali infuocata. Ne è chiaro esempio la lirica “Musica e parole”, diversa dalle precedenti, in quanto pur composta di frammenti, si distende, chiede lo spazio per posare i battiti del cuore sui momenti felici, sul delirio d’onnipotenza, sulla magica certezza che la sofferenza abitasse altrove… deliziosa furia della giovinezza:

 

“E una voce,

lo stradivari di Dio

si leva

a completare

le armonie

 

Come balsamo scende

restituendo

gusto alla vita”

 

Il ritorno al paese della memoria concede al romanzo in versi di acquisire il quinto senso, di trovare la percezione tattile, quasi per il desiderio di arricchire l’universo interiore del colore della fisicità. D’altronde per comprendere i lati oscuri che sono dentro di noi è indispensabile ritrovare quelli radiosi. E devono esistere per tutti cuscini sui quali portino i ricordi, se quest’ultimi sono belli. La Armino sa tornare indietro, per incontrare i sogni, quasi li vedesse per la prima volta:

 

“Luci

in minuscole gocce

di rugiada,

bacche aperte

come bocche

al bacio.

Cespi di fuoco

e paglia.

Scricchiolii.

Teneri abbracci

nei vicoli segreti”

(Lirica “La meraviglia percorre)

 

“I ragazzi si baciano contro le porte della notte”, recitava Prèvert, e la nostra versatile Poetessa sa viaggiare su numerosi registri, rendendo il proprio romanzo un prisma atto a riflettere tanti giochi di colori. In questo spettro emozionale la Armino si misura poi nella verticalità, nell’ascesa verso l’alto, verso la storia di una fede, che è senza spiegazioni, come può essere solo la spiritualità autentica. Ogni certezza è figlia del timore, sangue del dubbio:

 

“Ci provo a parlarTi,

non oso,

misera è la favella.

Spesso Ti ho raccontato

Come se non sapessi”.

(Versi tratti da “Madre Celeste”)

 

Sul finire del viaggio il tatto entra di prepotenza nei frammenti, mentre la Nostra lascia che i ricordi si stringano, divengano simili a una stanza, le pareti della quale tendano a contrarsi sempre di più, finché possa rimanere solo lo spazio per due persone:

 

“Eccoti madre,

a ricucir ferite

sopra la soglia

della tua vecchiaia”

(Lirica “Amore di madre”)

 

Il grembo dona la vita e attende… Inizio e termine d’ogni storia terrena. Siamo nati dal ventre materno, dal grembo di madre - terra, e dal grande grembo celeste della Madre che diede vita al nostro Salvatore. Portiamo i segni, le cicatrici, le lacrime, i baci, delle madri secolari e la protezione della Grande Madre divina. Si muore ogni giorno nell’attesa di rientrare tra le pareti del liquido amniotico, atto a prevenire i traumi, di ridiventare zolla che darà semi e frutti, di tornare nel ventre sacro che accoglie suppliche, interrogativi, timori.

Legata dal filo di Arianna al miracolo di quella ‘casa’, la Armino compone note struggenti per le ultime pagine del suo romanzo in versi o frammenti, che dir si voglia. La penultima lirica l’ho vissuta come specchio, l’ho consumata con gli occhi umidi di lacrime. La Poesia è l’unica Arte che consente simili prodigi. L’Autrice si rivolge ancora alla madre e dimostra come i ricordi nei quali le nostre vite si decidono sono in continuo movimento. I tempi di colpo si uniscono:..

 

“Il tempo ha usurato

 la trama ma io,

 ritrovo te

 avvolta nella seta.

 Anch’io lo facevo

 di nascosto

 vedendomi già grande.

 E’ passato quel tempo.

 Sono io adesso,

 con la tua età

 di allora”

(Versi tratti da “Torna”)

 

Sono entrata nel prisma della Professoressa Vincenza Armino, ne ho colto la miriade di sfumature, mi ha abbagliata e coinvolta in molti stati d’animo e ho preso coscienza, una volta di più, che le parole possono divenire orpelli del nostro vivere. Spesso evaporano dalla bocca prima che si abbia il tempo di pronunciarle. Non saprei dire quali sono dolci e quali salate. Vi è una sola verità, condivisa dalla nostra soave Poetessa: il tempo cresce intorno agli abbracci come un rampicante… Ed è verità dirompente in questo limbo d’attesa.

 Maria Rizzi

 

 

Vincenza Armino, CROMIE, prefazioni di Enzo Concardi e Nazario Pardini, pp.104, Guido Miano Editore, Milano 2020, isbn 978-88-31497-36-7.

 

 

 

sabato 26 dicembre 2020

NAZARIO PARDINI: "EPILLIO", DIALOGO SUL SUICIDIO TRA UN FILOSOFO E UN GESUITA

Epillio

(Dialogo sul suicidio

tra un filosofo e un gesuita)

 

F.

 

Quanta storia! Mi affascina il profumo

della carta invecchiata. Ci respiro

tutt’intera una vita.

Figure di filosofi,

di poeti, di storici; di ognuno

mi facevo un’idea. Ricostruivo

immagini di santi o pensatori

tormentati dai dubbi più feroci,

isolati magari nei profondi

loro turbamenti. Atri pensieri

di violenze commesse da viventi

senza ancoraggi, in alcuni, ed in altri

amori eccelsi sopra soglie umane

d’imprevisti bagliori.

E proprio del suicidio

con te vorrei parlare Don Vincenzo.

 

D. V.

 

Brutta cosa! Non è che la tua vita

da Epicureo ti abbia stancato?

e che il pensiero privo d’Assoluto

mediti strane cose?

Speriamo che non sia.

Tu hai bisogno di fede, mio Roberto.

 

F.

 

Non sono qui venuto a confessarti

ripensamenti estremi. Tantomeno

medito torva fine. Nel mio credo

ci sono, e tu lo sai, saldi valori,

altrettanto vigorosi: l’edonismo,

il paradiso in terra, soprattutto

l’amore ed il piacere di gustare

le cose che natura ci ha donato:

la vita senza un fine,

la sana libertà,

con cui sfruttare il caso irripetibile

della nostra venuta. Ma quest’oggi

io sono qui da te per affrontare

il tema del suicidio nella storia,

mio Vincenzo. Tu sei un amico colto,

grande maestro, e in più sommo gesuita.

Con chi indagare in modo più appropriato

un contenuto che coinvolge storia,

filosofia, scienza, psichiatria,

letteratura o altro; verrà a galla

Saffo, Bruto minore, e prima Jacopo

o Werter o Eloise o perché no!,

L’uomo dal fiore in bocca. Per citare.

Premetto che il suicidio è sempre stato

in tutti i tempi il tema di filosofi,

religiosi e medici. E le cause

(pur personali) sono rintracciabili

nei rapporti sociali ed in culture,

che tanto hanno influenzato menti umane.

Ti ricordo che il più antico documento,

a proposito, è il papiro di Berlino:

la morte si considera in quei fogli

una gran sorte di accogliente porto;

liberazione estrema dai dolori.

E nella lunga storia poi sarà

a volte condannato, a volte ammesso.

Furono epicurei, stoici e cinici

a difenderlo. Anche Lucrezio amò

l’azzeramento come libertà.

Ed il saggio restava indifferente

sulle cose e la vita.

 

D. V.

 

Ma i seguaci di Platone e di Aristotele

vi videro un’azione

contraria a ogni volere degli dei.

La vita è sacra e per il primo è un dono.

Usurpare nessuno può agli dei

di ritenere il diritto che una sorte

sia giunta ormai alle porte.

Il pensiero di Aristotele va oltre:

cancellare non può un’azione umana

i doveri che l’uomo ha verso i simili.

Il cristianesimo prese il suo pensiero.

Ma parlare dovrei anche dei padri:

S. Agostino e S. Tommaso si ritengono

certamente contrari a tale pratica.

Grave delitto in quanto violazione

del fondamento biblico che è un ordine:

“Non ammazzare”. L’uomo, ti ripeto,

non ha nessun potere. Spetta a Dio

creare ed annullare vite umane.

Tribunali ecclesiastici sancirono

norme severe  e dure punizioni

per ogni inosservanza a pensatori.

Età particolare

fu certamente quella medioevale.

 

F.

 

Offuscava il tempo, con soffocante

aria di punizione e di peccato,

ogni coscienza. E si capisce bene

perché per lungo tratto quel fenomeno

si fosse assottigliato. Ma il suicidio

fu visto solamente

sotto il profilo etico

e religioso fino a quella età.

Attendere dovremo

il rinascente spirito

e ancora di più il tempo dei lumi

per essere stimato

come un atto di libertà dell’anima.

E ne fa fede l’opera di Hume;

da noi fu d’accordo il Beccaria

per un’azione vista con ragione

e non più sotto l’azione

offuscante dei sogni. Ma per Kant ...

 

D. V.

 

Kant è ben altra cosa mio Roberto.

L’osservazione sua sul suicidio

che fa torto a se stesso quando ignora

che l’esistenza (al di là dell’empirismo

di una persona umana portatrice

di valori esteriori) è dotata

di una particolare dignità,

è di radici cristiane. Ma è tra

i romantici che esplode il nostro caso.

 

F.

 

Veniva il tempo in cui amore, onore

ed eroismo furono ideali

che ne fecero incetta. E tutti furono

simboli di quella generazione.

E si aggirò senz’altro sulle sponde

del suo mare o sui colli solitari

del suo suolo, con in mente un duraturo

marmo sugli Euganei, il poeta.

Per lui deluso, solo la battaglia

più antica di un eroe con l’immagine

eletta di un aedo, fece sì

che vincesse la vita. Lunga storia

da caduco mortale ai propri versi

lesse esaltato. Eppure, epicureo

anche lui, e senza ardore per il regno

dei cieli, seppe dare ad un sepolcro

eterna giovinezza. Eppure vide

la durata dell’uomo nel pensiero

che tramandò la storia. E così,

il gran cantore di saffiche stagioni

e della cruda sorte del minore

dei Bruti, nonostante divorasse

natura l’Islandese, amò l’amore

e in Silvia e in giovinezza; e in arduo modo,

fuori da intendimenti trascendenti,

esaltò epicamente

il senso della vita e propugnò

che l’uomo si associasse contro sorte.

 

D. V.

 

Ma tanto più serena è l’esistenza

se si vede la fine

in grembo al Creatore. Di quei tempi,

di cui hai portato esempi

da fuoco degli Uberti, è pure il monito

di colui che predicò nel grande libro

la mano del divino e vide il còrso

a dominare il mondo perché fu

Iddio che lo volle. Più sereno

fu certamente l’animo dell’uomo

che s’impegnò civile e religioso

verso mete di fede e di speranza.

 

F.

 

Più eroico però di certo è il ruolo

di quelli che notarono convinti

nella vita terrena uguale sorte

per ogni mortale.  Ed in loro,

sfortunati di fede, fu senz’altro

più apprezzabile lo sforzo di assegnare

all’esistenza un impegno e un dovere.

 

D. V.

 

è il filosofo estremo ad affermare

che è attraverso il suicidio che un vivente

confermerà il dominio sul volere

senza esserne schiavo. Esistenziale

sarà il problema. E tanto crescerà

lo sfronto tra l’esistere e la vita

che aumenteranno i dubbi. Facilmente

si ridusse alla morte in un albergo

chi non vide possibile

risplendere la luna sui falò.

E proprio in questi tempi puoi notare

quanto sia duro il fatto dell’esistere.

Quanti dubbi imperversino in viventi

soltanto inariditi

da scopi materiali. I nostri giovani

li vedi spersi e incerti vagolare

in mondi defraudati dello spirito.

 

F.

 

Penso alla civiltà d’Oriente. E a quanto

sia diversa la prassi nei confronti

del suicidio. Accettato, spesso acquista

funzione religiosa, laggiù. In Cina

ha valore di protesta contro offese

di disonore pubblico

per chi l’abbia commesse. Ed in Giappone

moralmente non era condannato;

diventava una vera cerimonia

di “harakiri” che

(a volte, morendo l’imperatore)

portava a suicidi collettivi.

Questo è un solo esempio.

 

D. V.

 

Mentre il Buddismo è in linea generale

contrario a tale atto. Ché si pensa

non possa liberare dal circuito

delle reincarnazioni. Solamente

si ammette che (se un monaco si sente

di avere ormai raggiunto la beata

contemplazione) il religioso possa

compiere il gesto estremo con il fuoco.

è in India che si aggiunse anche una pratica

(detta “sutuee”): imponeva

di seguire alla vedova sul rogo

il corpo del defunto. Come vedi,

per chi era nei paesi più diversi

altrettanto diversi erano gli usi.

 

F.

 

Se mi permetti voglio completare

con note più precise

riguardanti la scienza. Solamente

a partire dal secolo di Freud

viene affrontato l’atto suicidario

con ottica medica e scientifica.

Tutti gli aspetti sono contemplati:

il diritto dell’uomo,

la libertà di scelta,

fino ad ogni forma preventiva

con studi sia di psiche che di ambiente.

 

D. V.

 

La psichiatrica tesi di Esquirol,

ripresa da Brondel ed alienisti,

portò alla conclusione

che il suicidio è una conseguenza

d’infermità mentale, temporanea.

Fu una condivisa affermazione.

 

F.

 

Anche Virginia Wolf era ammalata?

Disse di sé: “Mi sento come un cumulo

di sabbia sotto un’onda.” E proprio l’onda

recise la sua età

galleggiante nel rischio.

Forse doveva attendere

che il destino giungesse

a recidere il filo: una tempesta

per Schelley, una stazione per Tolstoj,

(la stessa conclusione per  Karenina)

o una povera spina di una rosa

per Kilke. Ma per Virginia forse

fu possibile soltanto epigrafare

l’idea di libertà in “death by water.”

 

E qui da noi che dire sul problema.

In Italia è follia? Ma di chi?

Degli indagati o degli indagatori?

In un paese dove cresce il numero,

vi cresce la pazzia?

È malattia di mente o è il sistema

che non funziona più, il potere occulto

che occulto più direi.

L’ultimo è Lombardini (e lo speriamo)

dopo Gardini, Cagliari, Amorese,

Moroni,Vittorìa; questi indagati

non ressero al tormento. In prospettiva

di un calvario così triste delle indagini,

e di una risonanza,

che un fatto può ottenere nei mass-media,

Lombardini ha scelto la sua fine.

Mi hanno insegnato a scuola ed ho insegnato

che alla base di un mondo democratico

vige la divisione dei poteri.

Non è così. Il sistema è squilibrato.

 

Ed anche un grande uomo

ha dovuto sottostare agli ostacoli

di lotta burocratica e politica,

che taluni individui

gli volsero contro con superbia.

Dimostrò lottando che la storia

della prima repubblica non era

del tutto da gettare. E quanto fosse,

al contrario, opinabile e illusoria

l’onestà della seconda. Che illusione!

 

Il piccolo cimitero di Hammamet

lambisce il mare e assorbe quelle aurore

che aspergono le coste dell’Italia.

Volge lo sguardo a Oriente,

le spalle ad Occidente

inebriandosi dei canti

degli inquieti gabbiani.

è là che, morto, vive un Italiano

in un perpetuo esilio della mente

rivolta alla gente del suo cielo.

Guarda lontano che si levi il sole.

Forse gli porterà note e portali

di Verdi, di Puccini e del Vasari.

 

Da questa parte

se vuoi vedere l’alba

gli devi volgere le spalle di vergogna;

per guardare il tramonto

sei costretto con gli omeri a una patria

rossa nelle facciate e sopra i tetti

di un’aria che ricorda altri sospetti.

 

19/01/2000