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Publio Ovidio Nasone |
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E allora Mercurio: «Sui monti gelidi dell'Arcadia,»
risponde,
«tra le amadriadi di Nonacre, c'era famosissima
una Naiade, che le compagne chiamavano Siringa.
Non una volta sola aveva eluso le insidie dei Satiri
e di tutti gli altri dei che vivono nell'ombra dei
boschi
o nel rigoglio dei campi: venerava la dea di Ortigia
votandosi alla castità. E appunto come Diana si
vestiva,
tanto da trarre in inganno e scambiarla per la figlia
di Latona,
se questa non avesse avuto un arco d'oro e lei di
corno.
Malgrado ciò traeva in inganno. Pan che, mentre
tornava
dal colle Liceo, la vide, col capo cinto d'aculei di
pino,
le disse queste parole...». E non restava che
riferirle:
come la ninfa, sorda alle preghiere, fuggisse per luoghi
impervi,
finché non giunse alle correnti tranquille del
sabbioso Ladone;
come qui, impedendole il fiume di correre oltre,
invocasse le sorelle dell'acqua di mutarle forma;
come Pan, quando credeva d'aver ghermito ormai
Siringa,
stringesse, in luogo del suo corpo, un ciuffo di canne
palustri
e si sciogliesse in sospiri: allora il vento, vibrando
nelle canne,
produsse un suono delicato, simile a un lamento
e il dio incantato dalla dolcezza tutta nuova di
quella musica:
«Così, così continuerò a parlarti», disse
e, saldate fra loro con la cera alcune canne
diseguali,
mantenne allo strumento il nome della sua fanciulla.
Questo stava dicendo il dio di Cillene, quando
s'accorse
che tutti gli occhi, lo sguardo velato di sonno,
s'erano chiusi.
Subito tronca il racconto e, accarezzando con la sua
verga magica
le palpebre illanguidite, ne assicura il sopore;
poi di furia, mentre vacilla, lo colpisce con la spada
a falce
dove il capo s'unisce al collo e in un lago di sangue,
che imbratta i dirupi del monte, lo sbalza giù dal
macigno.
O Argo, tu giaci: quella luce che possedevi in tante
pupille,
è spenta; una tenebra sola grava sui tuoi cento occhi.
Li raccoglie la dea Saturnia e li fissa alle penne
dell'uccello
che le è sacro, costellandogli la coda di gemme.
Poi, prendendo fuoco, scatena la sua ira
facendo apparire allo sguardo e alla mente della
rivale argolica
l'orribile Erinni, ficcandole in petto un pungolo
occulto
e facendola fuggire per tutta la terra in preda al
terrore.
E non restavi che tu, Nilo, a quella corsa senza fine:
non appena vi giunse, protendendo indietro il collo,
si buttò in ginocchio sul margine di quella riva
e levando, come solo poteva, lo sguardo alle stelle,
con gemiti, lacrime e muggiti angosciosi
parve dolersi con Giove e supplicare la fine dei suoi
mali.
Giove allora getta le braccia al collo della moglie
e la prega di por termine al castigo. «In futuro,
non temere,» le dice, «mai più ti darà motivo di
dolore»
e chiama a testimone la palude dello Stige.
Come la dea si placa, Io riprende l'aspetto di un
tempo
e torna com'era prima: spariscono le setole dal corpo,
rientrano le corna, si restringono le orbite degli
occhi,
s'accorcia il muso, riappaiono braccia e mani,
e nel disfarsi lo zoccolo si apre in cinque dita.
Nulla sopravvive in lei della giovenca, tranne il
candore;
felice d'usarne due soli, la ninfa si leva in piedi
ed esita a parlare per timore di muggire
come prima e con cautela ritenta l'idioma perduto.
Ora è una dea famosa, venerata da folle avvolte di
lino.
Da lei si crede che, fecondata dal grande Giove,
sia nato Èpafo, che in diverse città ha santuari
insieme alla madre. Pari a lui per fierezza ed anni
era Fetonte,
il figlio del Sole; e un giorno che questi, orgoglioso
d'avere Febo
come padre, si vantava d'essergli superiore,
il nipote d'Inaco non lo tollerò: «Sciocco,» gli
disse, «in tutto
tu credi a tua madre e vai superbo di un padre
immaginario».
Avvampò Fetonte, e pieno di vergogna represse l'ira,
riferendo alla madre, Clìmene, quella calunnia; disse:
«E a tuo maggior dolore, madre mia, io che sono così
impulsivo,
così fiero, m'imposi di tacere: non sopporto che
qualcuno
abbia potuto insultarmi così, senza che potessi
ribattere!
Ma tu, se è vero che discendo da stirpe celeste,
dammi prova di questi natali illustri e rivendicami al
cielo».
Disse e intorno al collo della madre cinse le braccia,
scongiurandola, per il suo e il capo di Mèrope, per le
nozze
delle sorelle, di dargli testimonianza del suo vero
padre.
Non si sa se spinta dalle preghiere di Fetonte o più
dall'ira
per l'accusa rivoltale, Clìmene levò al cielo
entrambe le braccia e fissando la luce del Sole:
«Per questo fulgore splendido di raggi abbaglianti,»
disse,
«che ci vede e ci ascolta, io ti giuro, figliolo,
che tu sei nato da questo Sole che contempli e che
regola
la vita in terra. Se ciò che dico è menzogna, mai più
mi consenta
di guardarlo e sia questa luce l'ultima per i miei
occhi!
Del resto non ti sarà fatica trovare la casa paterna:
la terra in cui risiede confina con la nostra, là dove
sorge.
Se questo hai in animo, va' e chiedi a lui stesso».
Balza lieto Fetonte alle parole della madre
e, tutto preso dall'idea del cielo, lascia
la terra dei suoi Etiopi, attraversa l'India che si
stende
sotto la vampa del sole, e di slancio arriva dove
sorge il padre.