Riflessioni su
A oriente di qualsiasi origine
di
Annalisa Rodeghiero
La poesia italiana, che,
prosecuzione d’un glorioso passato molto vicino, prolifica all’inizio del nuovo
secolo, non è, per molti aspetti, facilmente accessibile, né inquadrabile in
schemi preconcetti o, per meglio dire, precostituiti: emergono, infatti,
personalità con caratteri così diversi e distanti tra loro, che è difficile
ricondurle e inserirle all’uno della Poesia, intesa secondo i canoni
della cultura alessandrina. La produttività, a scapito della qualità, sorprende
per la facilità, con la quale si dànno alle stampe raccolte spesso insipide; e,
data la varietà dell’interpretazione, lontane persino dalla lingua italiane,
della quale emergono solo pallide reminiscenze, spesso deturpate e mutilate da
ghiribizzi innovativi, o creduti tali. La grande lirica, che prende le mosse
dalle consapevoli e intelligenti innovazioni di Carducci e di Pascoli e passa
per Ungaretti, Saba e Montale sembrerebbe tramontata per sempre, se di tanto in
tanto, non erompesse sulla scena una personalità fornita di solida statura: è
il caso, non fortuito, del volume pubblicato da Annalisa Rodeghiero, la quale
titola scientemente la sua fatica A oriente di qualsiasi origine.
Questo volume, che raccoglie
riflessioni disseminate nel corso di lunghi anni e assidue meditazioni sulla
poliedrica realtà dell’Uomo durante il percorso terreno, anche se da un lato dimostra
a chiare lettere che la struttura poetica è insita nella mente umana, come da
più parti si afferma, dall’altro rende consapevole il lettore che non tutti per
motivi intrinseci sono in effetti poeti e che una certa poesia, per una
particolare sensibilità, non può che sgorgare da una particolare cultura e
sensibilità, incarnata nell’animo della donna. Per tal ragione il titolo, che
potrebbe sembrare banale a una lettura superficiale, invia il lettore a una
certezza indiscussa, verificatasi tra i Sumeri nell’ultimo quarto del terzo
millennio prima dell’era volgare: richiama, infatti, il fruitore ad Enheduanna,
poetessa accadica e sacerdotessa del dio Nanna a Ur. Figlia del re Sargon,
Enheduanna è la prima donna, che nella storia dell’umanità scrive e firma la
sua poesia, come attestano fonti contemporanee e successive, quando parlano
della sua opera, scritta in sumerico e intitolata L’esaltazione di Inanna.
In ambito ebraico il titolo di
poetessa si potrebbe scorgere nell’appellativo di profetessa dato ad alcune
donne, come Ester, Debora, Anna e Abigail. Queste, a volte insieme con gli
uomini, vivevano presso i templi correlati con le corti reali; rivolgevano
suppliche alla divinità, protettrice della casa regnante, ed erano soprattutto
consigliere del re, cui promettevano prosperità e successi soprattutto in
guerra.
Le poetesse ebraiche, a
differenza di Enheduanna, sono essenzialmente legate al desiderio della
maternità, tema molto ricorrente e spesso molto sofferto, frustrato, o
avvertito come tale, secondo l’autorevole parere di M. Gluzman. Questo innato
sentimento, come in controluce traspare anche dalle liriche della Rodeghiero, è
presente nei versi delle cosiddette «madri
fecondatrici» della
poesia ebraica al femminile, come si evince da Anda Amir-Pinkerfeld, Rachel,
Esther Raab, Yocheved Bat-Miriam, le quali, emerse solo in tempi relativamente
recenti, hanno portato un contributo fondamentale all’antica letteratura
ebraica.
Collegato a siffatti legami, per
lo più accantonati, il volume della Rodeghiero, nel vasto e complesso rigoglio
della letteratura contemporanea, assume un ruolo del tutto particolare, segna
una tappa, costituisce una pietra miliare nella produzione poetica di alto
livello e per contenuto e per politezza lirica della versificazione. Difatti l’usus
scribendi e, in modo particolare, l’habitus cogitandi, qualità
essenziale per chi si accinge a scrivere poesia, allontana e distanzia la
poetessa dalla trita monotonia della produzione odierna. È più che ovvio che
Annalisa non è la sola che torreggia come un gigante nel paesaggio della poesia
attuale: altri ingegni di altissima levatura, sebben pochi, rari nantes in
gurgite vasto, continuano con onore la gloriosa tradizione della
letteratura italiana; ma questi, purtroppo, sono per lo più sconosciuti al
grande pubblico.
Si impone, a questo punto, un
cenno sulla complessa e coesa cultura di Annalisa, la quale nel corso della
vita non si è limitata solo agli studi liceali e universitari, ma con vigile
attenzione ha rivolto sempre l’animo alle menti pensanti sia antiche, sia
recenti, seguendo quanto il suo ego cogitans di volta in volta le
imponeva. Per cui da Omero e dai lirici greci, senza trascurare la poesia
latina, attraverso il Medioevo e l’Umanesimo è approdata ai poeti più
significativi della poesia italiana ed europea dell’Ottocento e del Novecento,
i nomi dei quali si possono leggere in controluce, come una filigrana, pressoché
in ogni lirica.
I processi poetici e i
particolari metaforici, sui quali è intessuta la lirica della Rodeghiero, oltre
ad essere continuamente modellati su costanti cognitive di grande spessore,
percepibili ora più, ora meno, quasi declinano il tema del viaggio, il quale,
pur costituendo la trama portante, lega in modo quasi impercettibile tutte le
liriche. In questo modo, sottile e sfuggente, la poetessa organizza e articola
la complessa cognizione dell’uomo, della realtà presente e, in modo molto
velato, del futuro, cui l’uomo va immancabilmente incontro. Seguendo la trama
della narrazione poetica, i particolari culturali e cultuali, comuni e
condivisi, canalizzano l’attenzione e la conducono a organizzare tanto la
percezione, quanto il pensiero del lettore verso un orizzonte, che sfuma nel
metafisico mondo dell’ens a se, mai nominato, ma presente; assolvendo,
in questo modo, alla funzione paideutica, cui la Poesia è vocata sin dalle sue più
remote origini.
Annalisa, però, nonostante
cerchi in qualche modo di dissimulare, rappresenta la sua esperienza tanto
cognitiva, quanto artistica come un viaggio nella vita, come necessaria
condizione considerata non solo in sé, ma anche, e soprattutto, in relazione con
gli altri individui, che tendono tutti, come lei, verso la medesima meta. Nella
silloge, ben strutturata sotto l’aspetto artistico ed estetico, non nomina mai
la Morte, che pure traspare da cenni molto colti e raffinati, percepibili solo
immergendosi nella stesura metafisica della poesia e nella sua concezione
eraclitea dell’esistenza. Non manca qua e là un’impercettibile venatura
cristiana.
Gli studi filosofici,
soprattutto di ispirazione hegeliana, hanno condotto la poetessa a considerare
in maniera molto particolareggiata la fenomenologia dello spirito. Ciò permette
di cogliere la conoscenza fisica della realtà nella coscienza del sé,
dell’ego cogitans e, di conseguenza, agens, mediante una visione
unitaria, che lega indissolubilmente la materia allo spirito, il pensiero
all’azione, l’esistenza fisica a quella metafisica, il tempo presente, nel
quale è fisicamente immersa, vive e pensa e agisce come ens rationale,
alla dimensione metatemporale. L’analisi di questo aspetto è di gran
lunga più interessante, per penetrare nei solchi della grande poesia tracciati
con mano sicura e grande intelligenza.
La Rodeghiero, però, nonostante
sia suggestionata dalla fenomenologia, cioè da ciò che fisicamente appare ai
suoi occhi scrutatori, dalle forme apparentemente più semplici di conoscenza si
eleva a quelle più generali, per condurre il lettore fino a quelle assolute,
che vanno individuate e analizzate con estrema cautela. In questo percorso non
trascura la logica di Aristotele, come, ad esempio, il principio di non
contraddizione; non estremizza la teoria logica della dialettica hegeliana, che
mette in continuo confronto con la logica del carpe diem oraziano e
della Morte intesa in senso cristiano.
La poetessa avverte lo scorrere del tempo, la
trasformazioni fisiche, che avvengono nel suo essere umano di spirito e
materia, la caducità di ciò che la circonda e con meditata consapevolezza
scrive:
Provvisori noi, nei sentieri d’oro
del mistero
che credevamo eterno - abisso e
dimora,
costole allargate al vasto respiro
portavamo ignari, corone di rose.
Niente era certo come il sangue.
Noi eravamo quelli del tempo
antecedente l’indugio
Ruggito di natura vergine. Urogalli.
I
castelli non avevano torri.
Il lessema provvisorio,
posto volutamente come termine incipitario della densa e pregnante lirica, non
si presta a molte illazioni, perché la poetessa, volgendo lo sguardo alla
brevità della vita, il sentiero d’oro, creduto falsamente eterno, assume il
significato di precario, di effimero, di caduco, di temporaneo. L’elenco dei
sinonimi non è stato citato per pura erudizione o, peggio, per sfoggio di
linguaggio, ma perché il lettore nel leggere la lirica provi il sentimento di
incertezza, di instabilità, che rimanda immancabilmente alla poco radicata idea
che tutti, una volta iniziato il loro percorso terreno, devono necessariamente
giungere alla fine. Questo concetto stride col bisogno prettamente umano di
eternità, perché l’uomo, preso dalla materialità, crede che la vita, il
sentiero d’oro ammannito dalla Natura, sia eterno. I primi due versi, come ogni
lettore avveduto si è accorto, richiamano apertamente Leopardi, il quale,
rivolgendosi a Silvia, con amarezza e disperazione dice: «all’apparir del vero / tu
misera cadesti». La provvisorietà, però, rimanda anche a Ungaretti, quando nella
brevissima poesia, Soldati, si ferma a considerare la fragilità e la
provvisorietà dell’esistenza e scrive: «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie». I significati di revocabile o di temporaneo nella mente
della poetessa inducono a riflettere che se l’uomo ha costantemente davanti
agli occhi questa realtà può alimentare il sogno di avere sempre la porta
aperta per la libertà. Non a caso, infatti, la breve lirica è chiusa da un
verso di icastica fermezza e saldezza: «I castelli non avevano torri».
La
poetessa oblitera, almeno in apparenza, la lezione evangelica e rievoca in modo
appena percettibile, al di là di ciò che i singoli lessemi e la stretta concatenazione
dei sintagmi possano significare, la fenomenologia trascendentale di E.
Hasserl, il quale accanto a fenomeni realisti pone la svolta trascendentale,
abilmente evocata in «noi eravamo quelli del tempo antecedente l’indugio». Il
tempo, infatti, è un quid dato all’uomo per viverlo, non per possederlo;
è un’opportunità, un grande favore che l’uomo riceve e gli va incontro, senza
interruzione: è come le «costole allargate al vasto respiro». Al tempo che
scorre con ritmo incessante, il kronos della filosofia greca, la
poetessa affianca in modo magistrale il kairos, l’opportunità offerta
dalla speculazione di ispirazione mistica. Colta sotto questa dimensione
l’esistenza terrena si arricchisce, perché l’uomo ha l’occasione di vivere il
proprio ego in modo più concreto e nel respiro universalistico della
psiche avverte la presenza del proprio simile accanto a sé, senza obliterare la
natura, l’urogallo, della quale avverte le pulsioni e le antinomie.
Nello svolgimento diacronico della silloge, la
lirica testé riferita è idealmente e psicologicamente legata con la seguente,
di chiara ispirazione ungarettiana, almeno per le movenze esteriori e
lessematiche della prima parte:
Persi all’alba polline e veleno
appesi si sta all’impermanenza
alla giusta distanza di salvezza
riparo persino da noi stessi.
Ma nella stanza c’è tutto un vuoto
sacro
da incontrare, una rinascenza d’acqua,
lontani dalle brame si prova a
separare
ciò che vale da tutto ciò che lacera e
scuce.
Svanisce
il dominio del domani.
In
questa lirica, psicologicamente e filosoficamente legata alla precedente dal
filo conduttore del tempo e della sua caducità, la lingua adoperata dalla
poetessa non diventa strumento di comunicazione, perché questa presuppone
comunanza di intenti con colui col quale si comunica. Come la lingua di
Mallarmé, ridotta solo espressione di se stessa, Annalisa invita a cogliere
l’essenza del dettato poetico celato sotto la concatenazione logica più che
sistematica dei sintagmi. Ma a differenza del poeta francese, il quale parlava
e scriveva per non essere compreso, la Nostra disambigua lessemi e sintagmi per
un più pragmatico e pregnante messaggio naturistico-filosofico, cui il fruitore
può giungere attraverso le vie delle conoscenze
apprensibili. Bisogna anche sottolineare che la poetessa evita l’incomprensione
e l’incomunicabilità di Mallarmé, ma ammicca con sottaciuta compiacenza a un
certo ermetismo ungarettiano, perché preferisce le immagini forti e incisive
alle idee, che, racchiuse in stilemi di non immediato impatto, spesso sfuggono
e svaniscono, senza lasciar traccia.
Nella
lirica precedente al lessema provvisori, collocato nell’incipit,
in questa, a conclusione del secondo verso, in posizione chiastica con la prima,
pone in modo non casuale impermanenza, che, sebbene di recente conio da
parte di Bernardo Bertolucci, risulta molto efficace, per la pregnanza
dell’immagine e della realtà evocata e ribadita dai versi successivi.
La
suggestione, suscitata dalle liriche di Annalisa, esercita un effetto imperioso
sul lettore, perché le garanzie del linguaggio adoperato, grazie alla studiata
e stimolante musicalità impressa alle parole, accarezzano e incantano l’udito
del lettore. La formazione scientifico-filosofica della Rodeghiero si rivolge a
un lettore aperto alla comprensione multipla: eccita, in ultima analisi, il
lettore a continuare un atto produttivo non concluso, ma sempre in fieri.
In ogni lirica, infatti, la poetessa non si cura di giungere a una conclusione
riposante, perché, mediante una propria produttività ulteriore, risveglia nel
subconscio del lettore potenzialità, mediante le quali gli trasferisce la
misura generante e un’infinità di atti interpretativi.
Il
lettore, oltre alla lettura dei singoli lessemi e dei sintagmi, non deve tanto
decifrare il complesso mondo del messaggio poetico, quanto entrare egli stesso
nell’enigmatico mondo dell’essere, dove intuisce decifrazioni e rifrazioni, ma
non le conduce a termine in anticipo, perché Annalisa con uno studiato sintagma
recide ogni altro sviluppo, come, ad esempio, «Svanisce il dominio del
domani», «e mai si arrende in noi questo volare inquieto», «la
verità si rivela nel palmo». Le citazioni potrebbero continuare.
La lettura
di questa lirica, alla prima quartina, nella quale all’incertezza e alla
precarietà dell’ens cogitans, nella seconda, mediante un brusco passaggio,
conduce quello stesso ens a prendere coscienza del proprio sé, a entrare
nella stanza segreta del proprio ego ontologico. Questo
particolare aspetto metafisico, presente nella produzione lirica della
Rodeghiero, costituisce la cifra, lo sfondo vero e proprio della sua maturità
lirica, apprezzata da più parti.
Con
consumata maestria, mentre medita e riversa all’esterno il proprio sé,
incarnandolo in lessemi facilmente logorabili, da lontano e ben nascosta dalla
fitta coltre dell’impermeabilità lessematica, guida il lettore a comprendere lo
svolgimento della sua poesia, e in modo che il processo innescato diventi inizio
ed esecuzione di una conquista a livello ontologico. Questo schema,
difficilmente individuabile a una prima lettura, risulta evidente dal fatto che
in tutta la silloge ricorrono, a volte in maniera inconscia, gli stessi atti
fondamentali, i quali conferiscono ai motivi, alle parole e alle immagini anche
più semplici e di impatto immediato una dimensione metafisica difficilmente
spiegabile solo sulla base di questi stessi elementi.
Si
trascura per il momento l’esame critico di questo schema, perché la sua
valutazione non può essere che sintomo di modernità, supportata da continua
riflessione filosofica e religiosa,
almeno allo stato embrionale. L’assoluta originalità del dettato poetico e del
contenuto ontologico-metafisico, come retale e metatemporale consiste nel
conferire alle esperienze fondamentali della modernità un’interpretazione
universalistica. Anche se mancano nella densa e feconda silloge esperienze del
fallimento sperimentato dalla passione per la trascendenza, per le incoerenze e
per le immancabili e obiettive fratture, emerge un’incantata visione panica
della natura, presente nel paesaggio alpino. Questo dato, che si coglie ora
più, ora meno nelle brevi liriche, ravviva l’essenza del lirismo e coinvolge
l’anima in esperienze trascendenti.
L’arte della Rodeghiero consiste, principalmente,
nel fondere lo schema ontologico e la parola poetica nella sfera del suono ora
vibrante, ora volutamente sottomesso, che sfocia non di rado nel fascino del
mistero, asse portante e fondante della lirica. È in questo particolare che
l’espressione lirica trova il suo terreno fecondo, anche perché sovente la
poetessa concretizza l’essenza nella concretezza, come si legge nella lirica
XXIV:
Più che la libertà
del volo invidio l’inconsapevolezza
quel gorgheggiarla intera la vita
senza battibecco dentro la selva
- tersi di cielo i nidi - nella verticalità beata.
Ché scavare, zampette isteriche
non appartiene al disegno
primigenio.
In
questa manciatina di versi, con linguaggio apparentemente ermetico, Annalisa tende
verso l’alto, verso il sublime spirituale mediante un innato desiderio di
fuggire la trita realtà del quotidiano, presente già nelle teorie di Baudelaire
e in gran parte della poesia prodotta da Rimbaud. Ma accanto a motivi storici e
in stretta connessione con questi grandi poeti francesi la Nostra aggiunge la
crescente presenza, e influenza, della letteratura naturalistica, come si
desume dai velati e sentiti cenni all’incomparabile bellezza del variegato
paesaggio alpino. Le vaste e incontaminate distese di neve viste da bambina
sugli altipiani di Asiago sono vive nei ricordi di Annalisa e le evoca con
accenti di accorata malinconia in metafore, che lasciano il segno, come
«Cancellarsi come neve, come neve crearsi». In questo verso, collocato come chiusura
della brevissima lirica XVI, con lo studiato chiasmo, insieme con l’omoteleuto
dei lessemi verbali, conferiscono a tutto il componimento un elemento quasi
magico, perché è strettamente legato al verso precedente, nel quale la neve
assume un ruolo del tutto particolare: «Imparare dai campi riarsi, il sogno di
neve».
Nel
pregno stilema, d’ispirazione ungarettiana, i due emistichi giocano con la loro
semplicità un ruolo del tutto particolare: all’arida e infeconda arsura del
periodo estivo, per il naturale susseguirsi delle stagioni, subentra il periodo
della fecondità recato dall’inverno, a torto ritenuto stagione morta. La
poetessa, mentre scrive il secondo emistichio, ha di certo presente il sonetto
di Pietro Mastri, Sotto la neve pane. Il poeta fiorentino, vissuto tra
la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, era presente in tutti i
libri di scuola elementare e media almeno sino alla fine degli anni Sessanta
del Novecento. Anche se ebbe uno spirito del tutto indipendente in
quell’arroventato periodo politico, trasse dal Pascoli non pochi motivi, che
rielaborò in modo del tutto personale. Annalisa sembra allacciarsi a questo
poeta, che fu un sensibile interprete della natura, ma nella tramatura della
lirica rielabora con sensibilità quanto le ha fornito, forse in maniera inconscia,
un poeta molto apprezzato prima e dopo il secondo conflitto mondiale.
La poetessa torna alla neve anche nella lirica
XVII, dove scrive:
Tu mi porti là, dove le cose
vengono
quando devono venire, con levità
come
di neve, se la neve torna al seme.
Nel
flosculo riportato agli occhi del lettore balza la rima costituita da due
trisillabi porti là - levità. Si osservi che l’enclitica là, insieme
col verbo porti, cui è strettamente legata, costituisce nella pronuncia un
solo lessema: il verbo assume la funzione di proclitica rispetto all’avverbio
di luogo.
Nello
scorrere la bella silloge si nota che la poetessa tende costantemente al sublime,
a ciò che è al limite delle possibili espressioni umane. Il sublime non è una
categoria presente solo nel Romanticismo, ma risale all’antichità classica; e
Saffo, Alceo, Catullo, Orazio e Lucrezio costituiscono ancora paradigmi
insuperabili.
Quando
Annalisa scrive questa silloge ha certamente presente nella mente quanto Kant
scrive nella Critica del giudizio. Secondo il filosofo tedesco, il
sublime apre all’infinito, presente anche un oggetto amorfo. Anche se questa
osservazione, giusta nella sua soggettività, si discosta dall’idea del bello,
che si riscontra nella finitezza e politezza del prodotto, dà vita al sublime
dinamico, presente nell’animo umano, mentre tende ad esprimere nel modo più
perfetto possibile quanto concepisce. Annalisa vive e versa tutto questo senza
sforzo nei versi, consapevole di avere in sé un infinito in potenza, che
diventa atto nel momento della scrittura, concretizzazione e proiezione della
dimensione metatemporale e metafisica dello spirito creativo.
Nell’asciutta
scrittura di Annalisa si nota un pacato, ma insistente, atteggiamento dialogico
ora con se stessa, ora con l’altro, come antagonista di una commedia, che si
consuma nello spazio vago e indeterminato dell’anima. È, questo, uno dei tratti
principali, che caratterizza la lettura di un testo letterario. Ma, oltre a
questo, che potrebbe considerarsi normale per il carattere paideutico della
poesia, si possono individuare altri aspetti, ugualmente rilevanti, per un
inquadramento più esauriente. Tra questi, trascurando altre proposte teoriche,
che attribuiscono un ruolo centrale alla lettura e alla comprensione del testo
poetico, particolare interessante, e imprescindibile, assumono i modelli
mentali, riferibili al genere e all’elaborazione figurata. Nell’elaborare
queste proposte C.F. Feldman ebbe come collaboratori J.S. Bruner e R.W. Gibbs,
ingegni di altissima levatura, accumunati dal tentativo di definire non tanto le
specificità della lettura letteraria, quanto dimostrare come i modelli mentali
di genere o i modi figurati del pensiero siano insiti nelle costanti cognitive.
Nell’elaborazione
e nella disposizione delle singole liriche, presenti nella silloge, emergono e
trovano pieno riscontro le indagini e le riflessioni dei citati studiosi
soprattutto sul costrutto di genere. Queste si innestano sul campo più
ampio dell’investigazione, rivolta essenzialmente al pensiero narrativo.
Legata a esigenze definitorie, normative e
tassonomiche, ogni singola lirica assume dimensioni quasi oniriche, che
permettono di percepire, insieme col fremito della Natura, l’intimo travaglio
del dettato poetico, e svelano la ricchezza e la sensibilità interiori della
poetessa, mentre scandaglia situazioni e stati d’animo difficilmente definibili.
Quale
fosse la meta artistica, cui tende senza indugi o lungaggini logoranti, si
coglie dalle molte espressioni programmatiche disseminate tra i sintagmi delle
singole liriche.
Nel
suo canto perenne alla vita, alla natura, che si rinnova o nelle fitte abetaie
o sotto il manto bianco e immacolato della neve, la poetessa inocula nell’animo
del lettore quel quid particolare, che sfiora ora solo l’umano, il
terreno, il contingente, ora il divino nella sfuggente evanescenza dell’etere.
Alla
preesistenza della natura Annalisa aggiunge invenzioni materiali, tangibili, mediante
i quali conquista la vera libertà dello spirito, domina gli eventi e li impiega
per veicolare l’eterno messaggio, insito nel mistero della mente. La poetessa
non nutre, né inocula nel lettore il desiderio di sfuggire dalla realtà, come
avviene nella teoria adottata da molti poeti contemporanei, ma si connette a
motivi storici e geografici per delineare la nobiltà e la trascendenza dei
valori insiti nella mente umana.
Accanto
al reale positivo e in piena sintonia con esso, nel tessuto narrativo della
lirica si insinua in modo impercettibile la fantasia creativa, che conquide più
per le immagini che per le idee, ora sottese, ora presenti in modo massiccio.
Nelle liriche il reale e positivo non contrasta con la fantasia creativa, né la
condiziona, ma procedono insieme per cogliere l’avvincente varietà del
molteplice, celato nell’immenso bacino minerario dell’animo. L’indagine sulla
psicologia letteraria della poesia offre uno strumento ottico, che la poetessa
offre al lettore per consentirgli di cogliere quel quid essenziale ed
esistenziale, del quale, probabilmente, avrebbe ignorato persino l’esistenza.
Orazio
Antonio Bologna