Dopo l’ennesima crisi di governo, stavolta la meno necessaria e la meno comprensibile, ci si ritrova a fare i conti con due politiche: una che coinvolge le masse a colpi di slogan, e una che tenta di farsi capire senza riuscirci. Il problema sembra che sia la comunicazione, la prima efficace, la seconda fallimentare. In entrambi i casi, la comunicazione è legata a un sistema ormai consolidato che ha visto la luce in anni recenti, dove regna la contrapposizione e latita il dialogo. Comunicazione che, con tutte le sue sfumature che vanno dal dileggio dell’avversario al più crudo “vaffanculo”, accende il faro del manicheismo con la chiara divisione tra bene e male.
Qualcuno
ricorda come Berlusconi, oltre a promettere mari e monti, ad ogni intervento
sottolineava che gli altri erano i comunisti, brutti, cattivi e anche
puzzolenti, che andavano visti con repulsione e ribrezzo. Ricordo un mio
viaggio nel Matese, quando andai a trovare alcuni zii e cugini, erano gli anni
novanta: una mia zia, attaccata alla televisione in cucina, mentre
scarabocchiava un cruciverba, ripeteva le parole dette dai giornalisti o da
Berlusconi, sorridendo quando parlava lui, e ribattendo l’astio contro i
comunisti…
Non ebbi
incontri facili con quel ramo della famiglia, io ero quello che andava preso in
giro, quello che doveva essere deriso, un cittadino che pretendeva di obiettare
quel modo di subire il messaggio del “potere”. Non era questione di simpatie
politiche, ma di mancanza di dialogo, le porte erano chiuse e i comunisti
(sebbene il comunismo fosse morto e sepolto da anni) erano nemici che andavano
estromessi da qualsiasi forma di dialogo. Punto e a capo! La separazione tra
due fazioni (i buoni da una parte e i comunisti dall’altra) fu l’opera maestra
delle TV di Berlusconi.
Certo, il mio
esempio è un caso estremo che forse dipendeva anche da me, ma quando invece del
dibattito si ricorre alla derisione, qualcosa non va. Fu in quel periodo che si
iniziò a parlare di persone più che di idee, e solo il più bello, il più
telegenico, il più presente nei notiziari o nei salotti TV era meritevole di
ascolto. Gli altri erano dei cialtroni.
Conseguenza
della TV privata, che ha indottrinato gli elettori? Forse. Oggi, però, è
innegabile che gli strumenti e i codici della comunicazione hanno subito una
loro evoluzione fino a fondersi nelle reti sociali e a vivere di slogan e, se
non di informazione pilotata, di disinformazione. Che è assai peggio.
Eppure stiamo
vivendo una fase storica senza precedenti. Una rivoluzione incredibile che
stenta ad essere capita. Mi permetto, quindi, di dire la mia.
Abbiamo visto
cambiare l’Europa, prima con l’abbattimento del muro di Berlino, poi con la
riunificazione delle due Germanie, poi con la crisi dell’URSS che ha visto
paesi come Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Bulgaria, Cipro,
Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e altre meraviglie della Terra, diventare
europee (diciamo anche atlantiste, del resto non esiste una Difesa europea,
piaccia o no), poi con l’apertura delle frontiere, lo Schengen, l’Euro,
l’Erasmus, il roaming e ora il debito comunitario e il Next Generation Europe,
dovremmo cogliere il messaggio che viene dall’evoluzione dell’Europa per capire
che ormai non ci si può più dividere in Destra e Sinistra, ma in europeisti e
sovranisti.
L’Europa, cioè
l’unione di popoli, culture, economie e strategie politiche, è il futuro per
cui dovremmo lottare, mentre l’isolamento delle nazioni è, invece, la peggiore
delle catastrofi che potremmo augurare ai nostri figli, che sono nati europei.
Mi sembra
chiaro che i programmi di sviluppo locali, che ignorano la visione d’insieme,
siano fallimentari. Il futuro nasce da una visione d’insieme, nasce dall’unione
delle intelligenze, e questo è il maggiore dei patrimoni che abbiamo in Europa:
l’intelligenza. Già, non dimentichiamolo mai: non abbiamo materie prime, non
siamo i migliori, non siamo incolpevoli dei disastri della storia, ma abbiamo
fondamenta che durano millenni in democrazia, diritto, arte, musica, danza,
opera, scienza, ricerca, sviluppo, filosofia, critica, letteratura, poesia… e
tante altre bellissime realtà che costituiscono il nostro patrimonio culturale.
E sebbene la nostra piattaforma comune sia fatta di territori e di gente
diversi, abbiamo strutture sociali, per certi versi, simili, dove i diritti
alla salute, all’istruzione, alla libertà di credo e di opinione e altro,
determinano una parità di diritti che raramente si trova in altre aree del
nostro maltrattato pianeta.
Direi che è
innegabile che un programma di crescita unitario, con visione a lungo termine,
è l’unica idea degna per cui vale la pena di lottare. Un cittadino europeo non
è straniero in qualsiasi paese dell’UE si trovi. Se la barriera è la lingua,
basta un po’ di studio e si abbatte. Se le differenze culturali sono una
barriera, allora sì che si incorre nell’errore più grave della storia: le
differenze culturali non sono una barriera, ma un arricchimento perché la
cultura si nutre di scambi!
Del resto,
quando Marco Polo andò in Cina, e ci andò a piedi, ad ogni passo imparava una
parola, ogni giorno scopriva un modo diverso di fare il pane, ogni settimana
incontrava tribù e popolazioni diverse, ogni mese imparava a cucinare qualcosa
che gli era piaciuto (fino a insegnarci a fare gli spaghetti, che vengono
proprio da questi scambi) … Questo è il punto: imparava!
Prendiamo
spunto da lui per essere europei e progressisti, poi ragioniamo sempre con
questa idea in testa: L’Europa non è estero e, una volta capito che si tratta
di una piattaforma comune, capiremo che l’Unione, lo scambio,
l’interculturalità e l’integrazione ci rendono migliori di quello che ora
siamo. Da tutti i punti di vista.
A noi, e a
queste torride elezioni, sta scegliere tra tentare di costruire un mondo
migliore o fare marcia indietro, facendoci adescare dai soliti specchi per
allodole.
Claudio Fiorentini