Maria Rizzi su “Tra le crepe della vita” di
Cinzia Baldazzi e Andrea Lepone – Bertoni Editore
Cinzia Baldazzi e Andrea Lepone nel testo “Tra
le crepe della vita” di Bertoni Editore, consentono a noi lettori di affrontare
un viaggio tra la poesia di Lepone e la critica della Baldazzi. Un’esperienza
diversa, interessante e originale, che vede le liriche del Poeta affiancate da
lunghi stralci esegetici della Relatrice, nota per le ottime capacità di
esegeta. Quest’ultima presenta la
Raccolta dell’amico come una poetica ‘di stampo
espressionista’, che illustra in modo incisivo che se il poeta è fanciullo,
come si sostiene in genere, del bambino non eredita soltanto l’atteggiamento
ricettivo, creativo e vergine nei confronti del mondo, ma anche le sue angosce,
i suoi terrori che come la psicoanalisi ci addita, esorcizza con gesti e
rituali ripetitivi, volti a creare difese e sicurezze. Sin dalla prima lirica
“Decadi”, di ampio respiro creativo, la nostra Relatrice rileva lo stampo
espressionista e l’attesa di un ‘uomo nuovo’, nudo, descritto nella sua
dimensione metafisica, non nel contesto sociale, ma in una sfera superiore.
Uomo in quanto uomo, espressione di umanità, che si sente unito ai suoi simili.
“Un
pargoletto danza sulla spiaggia del
perdono,
il sincronismo delle nostre labbra
è ormai un isolamento forzato,
un rituale incenerito, svanito” - tratti da “Decadi”
L’Ermeneuta accosta le liriche di Lepone a
quelle del poeta salernitano Alfonso Gatto, che comunicò con la poetica della
rivista “Campo di Marte” , culla del
movimento ermetico fiorentino, e successivamente con il neo – realismo. In
effetti il linguaggio del nostro Autore è talvolta rarefatto e senza tempo, allusivo, tipico di una poesia
dell'assenza e dello spazio vuoto, ricco di motivi melodici e la poesia “Ombre”
riecheggia il timbro dell’Artista partenopeo, pur se caratterizzata da quello
che la Relatrice
definisce ‘linguaggio da incubo, freddo, gelido, da indurre a meditare su un
finalismo cosmico’. Lepone conferma la sua affinità con la corrente
espressionista e con il già citato Alfonso Gatto, nato nella città dello
sbarco, ovvero lì dove è soffiato il vento della liberazione contro gli orrori
del nazi – fascismo , dove si è innalzato, e Gatto ne fu partecipe, il canto
della resistenza : “senza fucili né
cannoni… come son belle le notti di maggio e com’è bella la terra senza il
ticchio della guerra”. Un’affinità, che è simbolo di fratellanza , di
questo termine che la
Baldazzi descrive come ‘la base di ogni assetto sociale, status
di qualsiasi progresso, capace di riconoscere noi negli altri, gli altri in
noi’. Bellissima la poesia “Ballata notturna” di Lepone, accompagnata da
lunghi, intensi, profondi stralci critici della sua Esegeta, che la identifica in
una ‘romantica parentesi, nella quale l’Io narrante e l’amata “godono”perché
sperimentano il territorio dell’Inconscio passeggiando “incoscienti”’. Con
umiltà mi unisco alla Baldazzi, affermando che nella rappresentazione poetica
può e deve coabitare il paradosso che nel già detto, nell’enunciato si
nasconde, il linguaggio latente, il rimosso. La lirica si potrebbe paragonare a
un’epifania esistenziale:
“Balliamo fino a tarda notte,
non
respireremo l’aria del mattino,
l’odore
di un caffè amaro chiuderà
questa
romantica parentesi, godiamo
dell’oscurità, passeggiamo incoscienti
su
questa spiaggia maledetta, dimenticata.
Vorremmo camminare sull’acqua, purificarci,
ma la
memoria delle nostre colpe non sarà mai scalfita.
A
piedi nudi sino all’alba, sulla sabbia, avvolti
dal
suono delle onde, imprecazioni miste a gemiti,
parole
soppresse da baci violenti, la speranza
di un
nuovo domani, la passione di due reietti.
La
libertà, perenne illusione, non è mai stata così vicina.”
E parlo di ‘epifania’, in quanto essa
rappresenta un momento speciale in cui un episodio diventa rivelatore del vero
significato dell’esistenza a colui o colei che ne percepisce il valore
simbolico, senza sottrarlo alla sensazione quotidiana dell’angoscia. Lepone è
consapevole, come scrive la
Relatrice, della ‘perenne illusione’ che contraddistingue le
giornate, i mesi, le stagioni. Il Poeta sembra avvicinarsi spesso alle
tematiche psicoanalitiche, secondo il dittato critico della Baldazzi per
fuggire in un ‘qui trascendente - oltre il limitato fluire predefinito dei
giorni’. Nella poesia “Amante” leva il canto “Ti sfioro in controluce, sotto una cascata di sogni, / blandisco la
riva del tuo cuore, come un naufrago / giuntosull’isola della bellezza, ti
contemplo in ginocchio, /grato all’idolo che permise il nostro incontro, una
sera d’agosto.” C. Baudelaire ne “Floeurs du mal” mise in evidenza un tema
che mi sembra rilevante all’interno della poetica di Lepone: partire dal
viaggio reale per affrontare l’avventura salvifica dell’immaginazione. La
psicoanalisi si sposa con le tendenze del Decadentismo e la Baldazzi nell’acuta
analisi dei testi prende atto di come ‘nel grande dono elargito all’umanità non
si rivela la virtù del “vedere”, ma quella di una luce che procede oltre: perché,
mentre la vista costituisce il compito degli occhi, l’orizzonte di proiezione
fantastica appartiene al cuore’. Un autore dicotomico, il Nostro, che crea
l’antitesi realtà – fantasia per esigenza interiore, che negli ossimori trova
la ragion d’essere dell’individuo, che scrive: “Indago sulla fioritura del nichilismo, nel mio eremo” – tratto da
“Catarsi”. Secondo la
Baldazzi ‘il personaggio di Lepone si attesta sulla deriva di
A. Schopenhauer , di F. Nietzsche, per approdare al grande M. Heidegger. Un
Poeta, quindi, pronto ad abbassare il velo di Maya, a calarsi nel pessimismo
cosmico e a scoprire nell’amore, anche inteso come visione, la via per l’accesso
alla verità. I versi di Lepone sono sovrabbondanti, densi di quelli che il
Poeta, con un eccellente ossimoro, descrive ‘quesiti assordanti’, e che
l’Esegeta precisa che ‘non restano elusi’, in quanto trovano supporto nei
ricordi. In effetti i territori della memoria costituiscono il pozzo dal quale
attingere linfa vitale. Noi siamo ciò che siamo stati.
“Troppe
domande, quesiti assordanti
che ovattano il mio incespicare
negli oleandri dei verdi campi
autunnali, tra lenzuola dilaniate
e incubi lancinanti, rimembranze.
Percorro mille miglia, condenso
ogni paura nella nostalgia, spendo
discorsi raziocinanti per attutire
il chiasso, per comprare qualche grammo
di benignità, di misericordia, anelo
all’indulgenza
totale delle mie ossa, agli organi della
pace”.
tratti da ‘Rabbia e amore’
Nel corso della Silloge troviamo anche il Poeta
chino ‘nell’atto materiale e psichico della preghiera’, come scrive il suo
alter ego, ovvero la Baldazzi,
che aggiunge che la lirica “Metamorfosi spirituale” sembra ‘assecondare
Sant’Agostino nel suo “credo per capire e capisco per credere”, e fa poi riferimento
a F. Dotoevskij, e alla sua concezione della preghiera intesa
‘come ascensione dell’intelletto’. Per quanto
mi riguarda ho preso atto che in questo testo a quattro mani, di raro valore
poetico e critico, l’Autore attraversa le macerie del tempo passato, di quello
presente, si graffia, si ferisce, si tormenta, ma la sua cifra stilistica sa
donarsi sempre in levare: “Un giorno
impareremo a parlare la lingua degli angeli” – tratto da “La lingua degli
angeli” . Soffre per poi spalancare le ali:
“Mi arrampico sugli alberi per afferrare il cielo” – tratto da “Il verbo
dei centenari”. E la Baldazzi,
immensa nella veste di critico, e oserei dire del Virgilio, che accompagna il
Poeta lungo i rovi e verso l’ascesa, è sempre sotto la sua pelle artistica.
Precisa che ‘i passi intrapresi da Andrea Lepone sono continui, sebbene
“incerti” nel risultato vincente perché, lo consiglia W. Goethe “non è
abbastanza fare dei passi che un giorno ci porteranno a uno scopo: ogni passo
deve essere lui stesso uno scopo, nello stesso tempo in cui ci porta avanti”’.
Lepone ne è consapevole e non teme le spine, le macerie, lo strazio… è teso
alla luce e possiede il dono di afferrare la coda dell’arcobaleno.
Maria Rizzi
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