a
Nadia Chiaverini: I SEGRETI DELL’UNIVERSO
CFR Edizioni. Piateda (SO). 2014
Ma è la memoria che non torna/ rimane nascosta
nei meandri della mente
C’è sempre
vento che scompiglia i segreti
un treno
in transito senza fermata
s’inventa
ogni volta una storia
che
invece è ancora la vita
Poesia
ampia, aperta, armoniosa, esigente, carica di input esistenziali quella di
Nadia Chiaverini. Leggerla, miscelarsi ai suoi palpiti meditativi e alle sue
offerte di generosa levatura poetica, significa assaggiare l’aspro e il dolce, il
sacro, e il profano dell’esistere. Significa farsi poeti, con tutto noi stessi,
farli nostri questi sapori contrastanti, queste dicotomiche presenze, che, intrise
di terreno, di quotidianità, si elevano ai segreti dell’universo, del vivere,
dell’esserci, del morire.
Sento
a volte che la vita affonda
Come
una vite s’avvita nel suo cardo
A
volte s’intinge morbida nel legno
A
volte s’infrange in un duro
e
freddo pezzo di metallo… (pp. 1).
Sì!, è
proprio così! La vita a volte affonda,
a volte s’intinge, a volte s’infrange. Una suggestiva e diacronica
emotività volta a cogliere, con estrema duttilità, la luce dei giorni, le ombre
delle notti; il senso delle stagioni primaverili o autunnali del nostro andare.
É doveroso pescare nei rigagnoli più nascosti di questo “poema”, negli anfratti
più ombrati per coglierne i significanti più incisivi. E annotare che tutto confluisce
in un fiume tanto ondulante come l’anima che li ispira. Ondulante per la
varietà della versificazione a contenere tanto impatto emotivo. Ondulante per
le fughe, i ritorni, le calme e le piene, le tensioni, ed i riposi di questo
viaggio. É qui la compattezza e l’organicità dell’opera. In una visione
scrupolosa, personale, tormentata, anche, dell’esistenza. Un’esistenza infarcita
di sogni, di illusioni, delusioni, che contribuiscono a infoltire un memoriale
che conturba la poetessa per la sua fragilità. Per una fragilità che nasce e si
sviluppa nelle meditazioni che si innervano di tale sentimento. E questi messaggi
da personali si amplificano ad una significazione universale; perché sono di
tutti, appartengono all’uomo in quanto tale. Perché sa, e di questo si
tormenta, che il tutto si svolge in uno spazio ristretto. Azzardare lo sguardo
oltre la siepe provoca solo smarrimento, e conferma di questa nostra pochezza.
Umana, quindi, anche troppo umana, questa vicenda nelle sua tormentata storia personale
e sociale, e di vita e di spleen. Sì!, male di vivere. Direbbe il poeta: “Il
sogno, lo spazio, e il tempo, segnando i limiti di un fatto, ne sono anche
motivo, forte motivo di inquietudine e di elevazione spirituale”. Perché sa e
teme la poetessa di perdersi in un mare tanto vasto che incute paura. Quella
umanissima paura che il patrimonio, il grande patrimonio delle nostre memorie si
annulli in così tanto spazio. In così tanto mare indifferente a storie di
salite, e discese, di andate, e ritorni che si fanno sempre più preziosi col
correre del tempo. Proprio come quelle essenze riposate in segrete, fuori dai
rumori e dalle intemperie. Che da cristalline si fanno color oro, tanto sono
preziose.
strappo
le pagine del giornale
urlo
che irrompe
duro e
tagliente come un diamante
certo
la vita è abbondante
sfrontata
e sprezzante
tracima
la vita che chiama
vita
mai collaudata (pp. 1).
Dal ventre di un antico garage
-ruggine
sulla saracinesca e pareti ammuffite-
chissà
cosa risale alla luce
secchielli
e palette del mare
retini
per pescare
vecchie
pagelle e la prima cartella di scuola
di
pelle rossa
barattoli
di latta e pezzi di stoffa
Mi
ricordano una lotta tra le cose
per
rimanere vive
per
non scomparire
Ma è la memoria che non torna
rimane
nascosta nei meandri della mente
dove è
tabula rasa, non c’è più niente
Solo
di ciò che è importante
rimane
un bagliore, una luce
di chiavi
a mazzetti, di oggetti
tanti
oggetti, di plastica di legno di ferro
oggetti senza senso oggigiorno
oggetti senza ritorno… (pp. 5).
Sì!,
forse, esiste il timore di perdere la memoria, e non solo i piccoli suoi
urgenti frangenti, schegge di vita. E' il tempo, nella sua corsa sfrenata, che
tutto corrode. E c’è questa meditazione, questa visione eraclitea dell’essere e
dell’esistere. Della labilità del presente. D’altronde è una nostra condanna
quella di vivere a terra col pensiero rivolto all’oltre. Azzardare lo sguardo
oltre i confini. E' pascalianamente dicotomica questa simbiotica fusione fra
l’essere umani e il pensiero che azzarda.
Ma, qui, c’è anche un profondo
sentimento di attaccamento alla vita. Alla sua sacralità. E ai doveri dei padri
per i figli, all’amore per tutto ciò che ci circonda e ci turba per la sua
bellezza e misteriosa rarità. E tante le questioni che si addensano nell’animo
della Nostra. Come gli stessi interrogativi sulla continuità delle familiari
vicissitudini; o su quel patrimonio che si è fatto storia. Dum loquimur fugerit invida aetas. Ed è questo che turba, è questo
che infonde pathos al dipanarsi dello spartito poetico, tatuato da un’anima
fortemente irrequieta. Sì!, fugge il tempo, ma si lascia dietro un carico di esperienze
umane che si fanno vive, pesanti, soprattutto se prospettate nel lontano
futuro. Da qui i tanti dubbi che si concretizzano in versi dettati da tanta
generosità ispirativa. E la parola si fa essenziale, matura, nuova. Sconnessa,
anche; incurante dell’ordine morfosintattico; inventata nella sua forza
evocatrice, tanta la voglia di dire. La poetessa la lavora, la amplifica, la
scompone e ricompone, perché sente l’urgenza di termini finalizzati a tale
portata. Termini adatti e propensi ad affiancare tanta effusione emotiva. La
poesia per Nadia Chiaverini è lavoro, non certo scrittura nata da
un’ispirazione pensata intoccabile, ma ricerca; è ampliamento o riduzione del
verso; è insieme di enjambements e figure stilistiche che creino significanti
metrici adatti a far risaltare i ritmi varianti del cuore; insieme di accorgimenti
lessico-fonici, di astuzie, anche, frutto di esperienza sul campo. E la parola
non sempre è sufficiente a coprire gli spazi tanto misteriosi, quanto pressanti
dell’anima. Da qui, anche, l’insoddisfazione perpetua del “poeta” che non trova
mai adeguato l’incastro verbale.
Accettare
il tempo
Delle
domande senza risposte
Mentre
si stempera e dilava
La
collera che più non m’appartiene .
Abitare
le parole come una casa
Adattarle
al corpo come un abito da sera
Nuova
dimora il tempo che consola
Finché
il silenzio eterno comincerà a parlare
Come
una madre che non si dà pace
Perché
ormai il tempo è scaduto
Come
un piccione finito sul selciato (pp. 2)
E c’è
la natura, in questi versi, a fare da supporto agli intenti meditativo-esistenziali
della scrittrice. Una natura sempre presente con i suoi colori, le sue ombre, o
le sue luci a rendere visivi gli impulsi emotivi. Una natura trattata in tutte
le sue misure occorrenziali.
Stentano le rose quest’anno
come domande senza risposte
fuggite come illusioni perdute
stelle
cadenti
in un
cielo nero d’inchiostro
Pensa a me
quando un fulmine l’attraversa
come un pensiero perverso
non è ancora maggio
e le lucciole tintinnano la notte (pp. 1).
Le rose, le stelle cadenti, il cielo, il
fulmine, maggio, le lucciole… configurazioni di tanti segreti
che danno forza e colore, concretezza al sentire. Si traducono in allegorie di
un linguaggio teso a evidenziare i significati più intimi. É uno dei momenti di
maggiore effetto lirico. Di grande portata poetica. La musicalità intrinseca,
contenuta nella magistrale disposizione del verso libero, e il contenuto che si
slarga dal soggettivo a considerazioni oggettive “Stentano le rose quest’anno/
come domande senza risposte/ fuggite come illusioni perdute…” fanno di questi versi una vera melodia di
suggestione plurale.
i
segreti dell’universo I
In un mondo di maschere
si
nasconde l’anima in orbite vuote
E’ la
vita che strazia e nessuno ci crede
È lo
specchio la prova:
-Davvero, ma’ , eri così?
Opera
d’arte stravolta da genio d’artista
Che
gonfia le reni e affloscia i seni
Forse
tutto poteva essere altrimenti
Lo
sanno le pietre dei torrenti
Che rubano i segreti dell’universo (pp. 3).
i
segreti dell’universo II
-Quando puoi, torna presto-
Lo so, hai bisogno adesso
Quando
io non ci sono
Ti
chiederò perdono, dopo
Quando
sarà tardi
Forse
tutto potrebbe essere diverso
Lo
sanno le
sabbie del deserto
Che rubano i segreti dell’universo (pp. 3).
Ma quanti i segreti dell’universo. Di un
universo che ci ruota attorno, che ci assedia, che ci liscia, ci lambisce, ci
arrovella la mente, l’anima e ci stravolge. E noi ci torturiamo coi perché. Ci
poniamo questioni insolubili, e ci tormentiamo, non trovando risposte giuste.
Quello che distinguiamo è solo l’apparenza, la superficie sottile di un
misterioso processo; ma non riusciamo a districare i reconditi nessi di un
imperturbabile fieri. “Forse tutto poteva essere diverso/ …/ Lo sanno le sabbie
del deserto/ Che rubano i segreti dell’universo”. “Lo sanno le pietre dei
torrenti/ che rubano i segreti dell’universo”.
Il dubbio, il letto vuoto, la notte
insonne, fonda, il richiamo di parole, e un cielo che trattiene il respiro, muto.
Un concatenarsi di sequenze psicologiche devastanti: tentativo di appigliarsi
al sogno, per confutare una realtà amara. Ma tutto fa parte di un gioco umano,
fatto di passioni e di sconforti. Di sconfitte, forse. Ma anche spia di un
grande attaccamento alla vita, perfino a quella sua parte che più ci addolora.
E Nadia Chiaverini fa della poesia uno strumento di vibrante realismo
psicologico e filosofico. Costruito su riflessioni amare, scatenate da quello
specchio realisticamente impietoso che ci parla di tempo, di affetti, di
autunni e primavere. Di carne ci parla. E della
miseria del corpo umano dovuta a quei segreti che tanto ci assillano.
Ma
anche se la Nostra,
alfine, giunge all’amara conclusione che tutto si disfa in polvere, in una
misera polvere che chiude una stagione senza dèi e senza precisi orizzonti, non
è detto che in quella pietra nera - e mi piace pensarlo - non possa vedere un
futuro punto luce quale simbolo di spiritualità e di prolungamento di vita. Quel
prolungamento che troneggia anche nel
disperato grido di emorragia
d’amore
“e mi stringevi la mano, amore”
Nazario
Pardini