Relazione
Le
nebbie del passato
di Filomena Martire
Eccomi
maresciallo Leonardi, eccomi a lei!
L’ho
seguita, sa, l’ho pedinata. E’ un paradosso, non trova? Una lettrice che decide
di vestire i suoi panni e di tuffarsi “nelle nebbie del passato” mentre con “le
movenze di un pachiderma” lei cerca di riprendersi la vita a Montebello che,
forse, come quella dei suoi abitanti d’adesso in poi non sarà più la stessa.
Succede
che dopo la caduta nello stagno, nella melma in cui tutto soffoca,riemerga
qualcosa di necessario: uno squarcio in quelle nebbie, la coscienza di una
nuova possibilità.
Mi è
piaciuto,maresciallo, quel suo andare lento nelle ombre, fra gli spettri, quel
sentirsi parte di una commedia dolente pur conservando la lucidità del suo
ruolo. Mi è piaciuta la sua analisi logica umana, senza fronzoli, così piena di
dubbi, quelle domande rivolte prima a se stesso e poi ai suoi indiziati, quel
relazionarsi discreto indossando la loro pelle.
Mi è
piaciuto come ha saputo far tesoro dell’intuito, fiutare l’assenzio e
riconoscerlo, andare oltre l’apparenza per riuscire infine ad aprire
quella”bambola russa” depositaria della verità, costruire la trappola
scegliendo come esca ciò che tutti a Montebello credevano fosse solo una
leggenda, un racconto di guerra passato di bocca in bocca, surreale e atroce,
una zavorra di cupidigia e di morte.
Mi è
piaciuto quel contrasto d’insofferenza e benevolenza nei confronti
dell’appuntato Riccoboni, uomo semplice, uno spilungone che sembra vivere in
superficie ma che poi stupisce superando la paura delle catacombe e ricevendo
“il battesimo del sangue”per salvare non soltanto il maresciallo ma l’amico.
E che
dire di Montebello? Quel borgo mi ha sussurrato che ogni mondo è paese
riportandomi nell’entroterra del mio Sud, all’Appennino calabrese che fa da
cordigliera tra l’interno ed il mare, alle dita nodose di quei contadini, alle
loro schiene spezzate dalla fatica, all’odore aspro dell’olio che scorre lento
dai frantoi, a quei volti di donne
fiere, amazzoni di una terra scorticata dagli errori che ricordano donna
Assunta Almiranti, “tigre ferita”di cui lei, maresciallo, ne ha subito il
fascino coltivando il pensiero di averla al suo fianco.
Caro
maresciallo, devo dire che a tratti, “Le nebbie del passato”, per il loro sguardo
attento su quel brulicare di vita nel
borgo, mi hanno ricondotto all’Antologia di Spoon River che rappresentò
attraverso quei poveri esseri, ai quali toccò in sorte di esistere soltanto da
morti, la voce di un villaggio, delle sue ambiguità, dei suoi vizi e delle sue
virtù.
Quando
l’anima di un luogo ti prende, anche se non è la tua radice originaria, non
scegli più ma impari a vivere per addizione.
Di un
luogo amerai i contrasti perché in quei contrasti sai di esserci anche tu. Non
è forse vero maresciallo Leonardi?
Presentazione de “Le
Nebbie del Passato”
di Diego Romeo
Prima di tutto vorrei ringraziare Maria
e l’IPLAC per questa bellissima opportunità che mi è stata concessa. Un
opportunità che mi onora sia per il bel libro che mi è stato proposto di
presentare che per il bellissimo
pubblico oggi qui convenuto.
Poi vorrei fare le mie scuse ad Andrea
Marchetti, perché quando Maria mi ha proposto questo libro, il mio pensiero è
stato che bello dovrò presentare “solo”
un ottimo giallo! Ottimo già lo sapevo perché Andrea è un autore IPLAC e
l’IPLAC è l’IPLAC…
In verità, ed è per questo che mi scuso
con Andrea, questo non è solo un ottimo giallo, ma è molto di più. Si perché
alla fine il fattore “Giallo” è solo uno dei molteplici aspetti che possiede
questo romanzo, ma andiamo con ordine.
Come dicevo questo è un ottimo giallo,
ma perché è un ottimo giallo? Oggi noi siamo abituati a serie televisive poliziesche,
spesso ispirate a libri, molto easy e flash. Dove tutto si risolve in 45 minuti
di spettacolo ed in uno o due gironi di indagini… magari fosse così. Anche il
crimine più prefetto ed efferato, per esigenze di copione e di scarsa
concentrazione del telespettatore medio, deve durare poco, troppo poco e
comunque le trame non posso mai essere troppo complicate. Qui invece ci
troviamo di fronte ad un giallo vecchio stile, dove tutto è umano ed imperfetto
dal criminale all’eroe che segue il caso. Anzi l’eroe forse è il più umano ed
imperfetto di tutti. Non è bello ne atletico, non è super intelligente, non è
super equipaggiato (visto anche il tempo storico in cui si svolge il romanzo),
ma è sicuramente fedele al suo ideale di giustizia, al suo paese e soprattutto
al sui amato corpo dei carabinieri. Si mette alla ricerca degli indizi, fa
domande, interrogatori, appostamenti tutto alla vecchia maniera e con i poveri
mezzi che il suo paese di Montebello gli poteva offrire, ma soprattutto ci
mette il tempo che ci vuole (Per esempio è molto bella la narrazione di come
l’appuntato Riccomoboni trascrive le deposizione degli indagati, a mano perché
non si disponeva neanche di una macchina da scrivere). Dicevo un giallo vecchio
stile dove da padrone la fanno i sentimenti e le intuizioni dei protagonisti e
non le analisi del DNA e i super database delle agenzie governative. Un giallo
nel quale alla fine, per fortuna, l’assassino non è il solito maggiordomo.
Anche se qui un maggiordomo c’è ed è tutt’altro che simpatico… ma ora basta se
no potrei svelare troppo della trama.
Un secondo aspetto che mi ha colpito
molto, forse più del primo visto la mia formazione da storico, è proprio
l’ambientazione sia temporale che geografica del romanzo. Andrea ha avuto la
capacità di descrivere minuziosamente l’Italia del dopo guerra. Ci troviamo
infatti agli inizi degli anni 50, in un paese che usciva dalla guerra e che
voleva solo dimenticare. Un paese dove l’imperativo era risorgere, un paese del
paino Marshall, un paese troppo occupato a ricostruire per pensare solo a se
(commovente la felicità di Don Alfio, che si pregusta i facili guadagni del suo
spaccio, quando apprende che dovranno arrivare in paese delle squadre di
muratori che devono ricostruire parte del piccolo borgo). Devo dire che qui
Andrea mi ha stupito molto, perché ha fatto di questo giallo un vero e proprio
romanzo storico, dove la storia delittuosa è solo un pretesto per descrivere
l’Italia degli anni 50. La repubblica era ancora giovane e il conte Alfredo la
faceva ancora da padrone, anche se doveva mediare fra democrazia cristiana di
PCI. Nessuno aveva la macchina ed il
telefono era appannaggio di pochi. Insomma un Italia genuina, un Italia a cui
forse anche oggi dovremmo guardare di più per capire meglio, forse, come uscire
da questa benedetta crisi.
Ma vi è stato un terzo aspetto che mi
ha colpito molto e che ha solleticato molto la mia indole sociale. Ovvero le
riflessioni che Andrea fa sul male della guerra e sulla povertà.
Il romanzo è piano di queste
riflessioni che vedono un Italia allo stremo delle forze fra le due guerre. Un
Italia in cui i padri si vergognano di non ricucire a provvedere alle proprie
famiglie (leggere pag. 39). Ma anche lo spettro della guerra madre di tutte le
povertà, sia materiali che spirituali, che trasforma un ragazzo qualunque in un
assassino senza pietà. Una follia che Andrea mette bene in evidenza in parecchi
punti come questi: (leggere pag. 188). Un romanzo che fa riflettere sulla
povertà, la miseria dell’animo umano e la guerra. Un romanzo che non usa parole
a caso. Da notare come per indicare la prima guerra mondiale il Marchetti usa
il termine più giusto di “Grande Guerra”, perché non è stata solo la prima
delle guerre mondiali ma è stata anche l’origine di tutti i mali del novecento
come teorizzava lo strico tedesco Fritz Fischer. Una guerra che cambiò il
concetto di scontro bellico convenzionale ed in cui per la prima volta si
coinvolsero i civili in maniera sistematica.
Insomma un romanzo che fa riflettere
per gli alti contenuti storici (anche se il paesino di Montebello era solo un
piccolo paese del centro Italia è comunque un icona dell’Italia di quei tempi)
che sociali.
Ultima considerazione che non posso non
fare, e mi scuserete se vi tedio ancora con le mie chiacchiere, visto il mio
passato da aiuto cuoco è la grande centralità che l’autore da ai pranzi e alle
cene. Dalla tavola dello spaccio di Don Alfio, al banchetto sontuoso del conte
Alfredo, ai manicaretti della moglie dell’appuntano Riccoboni (per inciso la moglie
dell’appuntano è una dei personaggi che più mi è piaciuta pur non apparendo mai
direttamente nella narrazione) per arrivare all’intimità della tavola di donna
Assunta, il Marchetti descrive ed invoglia il lettore con dei particolari
appetitosi che non mi hanno lasciato insensibile. Particolari che hanno
contribuito a dare quella pennellata di italianità verace a
tutta la vicenda.
Il figlio di Aziza - Pino Ferrara - 15 giugno
di
Manuela Minelli
“Il
figlio di Aziza“ è una bella storia. E’ una storia di donne, Lemlem e Aziza,
due sorelle, diversissime tra loro, anzi opposte per carattere e stile di vita,
con esistenze che definire travagliate è dire niente, vite fatte di rinunce,
sacrifici, situazioni pericolose, affanni e soprusi, ma loro nonostante tutto
vanno avanti, crescono, trovano la loro strada, si perdono, si ritrovano, si
supportano e si sopportano.
Ma “Il
figlio di Aziza” è anche la storia di due bambini, Sam e Adam ai quali, per
effetto di quell’antico detto “Le colpe dei genitori ricadono sui figli”, non gli
è permesso vivere l’infanzia, essere bambini, come Natura vorrebbe.
All’inizio
incontriamo Lemlem e Aziza bambine anche loro, cresciute senza i privilegi,
soprattutto affettivi, poiché figlie di una famiglia eritrea numerosa e
benestante ma che, vuoi per la guerra civile che si combatte nel loro paese,
vuoi per pregiudizi ambientali, religiosi e per l’anaffettività della loro
mamma (dovuta sempre al tipo di tradizioni, al ruolo in cui è confinata la
donna in certe società, pensate che la mamma delle due protagoniste del romanzo
ha avuto il primo figlio Idris a sedici anni, cosa normale nell’Eritrea degli
anni ’50) crescono senza l’amore, le cure, la protezione, l’educazione e
l’affetto che dovrebbe essere diritto sacrosanto di ogni bambino di qualsiasi razza,
estrazione sociale e continente.
“Il
figlio di Aziza” è una saga familiare che vede protagoniste le cosiddette
“categorie deboli”, donne e bambini, il che, detto così, potrebbe avere tutti i
presupposti per una storia un po’ lacrimosa, che coinvolge il lettore
facendogli vivere le emozioni dei personaggi, e il pathos forte di un romanzo
dove le sofferenza fisica e psicologica la fanno da padrone.
E
invece non è così. L’autore, Pino Ferrara, ha scelto di raccontare questa
storia da cronista, potrei quasi dire che Pino Ferrara è un giornalista, più
che uno scrittore. E infatti nel suo curriculum, tra le varie attività, c’è
anche quella del giornalista. Scientemente Ferrara ha sfrondato la narrazione
di tutti quei dettagli che avrebbero potuto toccare il cuore e la sensibilità
del lettore, niente lacrime dunque per la storia di Aziza, dei suoi figli e di
sua sorella Lemlem, semplicemente una cronaca, anche spietata in alcuni
passaggi, che racconta una saga familiare che inizia negli anni sessanta e arriva
sino ai giorni nostri.
Ma la
grande particolarità di questo romanzo è che tutto quanto descritto e
raccontato in queste 271 pagine è storia vera. L’autore è il papà, certamente
non biologico, ma il papà adottivo di Adam, il figlio di Aziza, appunto. Lui ha
raccolto con pazienza, coraggio e dedizione le testimonianze di tutti quegli
attori della vicenda che si sono resi disponibili. Lemlem, Aziza, il suo
bambino Adam, e altri vari personaggi rintracciati per il mondo, tramite
internet anche, che hanno raccontato vicissitudini vissute realmente e non inventate.
Pino
Ferrara ha ricostruito con pazienza certosina, un’enorme mosaico, incastrandone
le delicatissime e fragili tesserine, mettendo l’uno accanto all’altro i
pezzetti, in anni di lavoro.
Sapete
qual è la cosa che più mi ha incantata di questo libro?
E’ che
è un atto d’amore verso il suo bambino, un lavoro catartico per il piccolo Adam
che gli ha permesso di liberarsi dei fantasmi del passato. Ed infatti…ascoltate
cosa scrive Pino Ferrara nei ringraziamenti:
“Quando mi è venuta l’idea di scrivere
questa storia avevo pensato di non dirgli niente (ad
Adam, ndr) e fargli una sorpresa a cose
fatte. Poi mi sono reso conto che lui poteva aiutarmi perché le vicende sue e
di sua madre le aveva vissute in prima persona. Gli parlai del progetto e
l’idea gli piacque molto, ma si mostrò restio a collaborare perché ricordare
gli faceva male. Ero preparato a fare a meno delle informazioni che avrebbe
potuto darmi, quando, di punto in bianco mi disse che forse era meglio che mi
raccontasse quello che ricordava della sua infanzia, della sua vita con i suoi
genitori e dopo di quella con sua madre solamente. “Se ti racconto tutto – mi
disse – forse mi libero per sempre delle cose che ogni tanto mi vengono in
mente. Tu le scrivi e io non devo più pensarci”. Iniziammo a registrare quello
che lui ricordava, senza un ordine preciso. Cominciava a dire quello che gli
veniva in mente e spesso era colto dalla commozione. Allora smettevamo per
riprendere in un’altra occasione. E’ stato un lavoro delicato, ma alla fine
Adam si è sentito sollevato e contento, come liberato di un grosso peso che lo
opprimeva. Grazie Adam”.
A me
piace immaginare questo papà con sua moglie, Wilma, che con tanta tenerezza e
pazienza sono lì con il registratore in mano e gli occhi negli occhi del loro
bambino. Caro Pino Ferrara, devo dirti che questa è la cosa che più mi ha emozionata. Ed ora ditemi se questo non
merita già un applauso.
Ma
torniamo alla storia. Abbiamo Lemlem e Aziza, che vengono allontanate dalla
madre, un po’ per metterle in salvo dalla guerra civile, ma anche molto per
egoismo e per quelle tradizioni di cui parlavamo prima, in cui le femmine sono
un peso per la famiglia. Specialmente le femmine ribelli, sognatrici e
assolutamente allergiche alle regole imposte dalla società patriarcale e
maschilista, femmine che magari non vogliono sposare un promesso sposo
sconosciuto solo perché ricco, perché le famiglie hanno preso accordi ed è
meglio rendere infelice a vita una figlia bambina che mancare ad una parola
data.
E
quindi Lemlem è la prima a partire. Aziza arriverà a seguire. Entrambe affidate
ad un’amica di famiglia, come pacchetti postali da recapitare a qualcun’ altro
che vive ad Asmara, prima, e in Italia poi, tutte persone a loro estranee.
Nella
testimonianza scritta in corsivo nelle prime pagine del libro Lemlem,
ricordando la sua infanzia, parla di una vita rigida, senza calore umano, in
una grande famiglia-tribù molto ricca in cui si viveva come in un convento o in
una caserma. Ma comunque una famiglia.
E
quindi le bambine si ritrovano in un paese sconosciuto, con persone a loro
sconosciute, che comunicano in una lingua che non è la loro, con il terrore per
il salto nel buio che le era stato imposto. E da qui è tutto un peregrinare tra
scuole in cui i compagni – e sappiamo quanto sanno essere crudeli i bambini –
prendono in giro le nuove arrivate con un colore di pelle differente dal loro,
e poi tra lavori e situazioni umilianti.
Aziza
è bella e solare e diventata adolescente fa innamorare chiunque. Cercando
quell’amore che le è sempre mancato si lega rapidamente a uomini che si
rivelano essere fallimentari.
Lemlem
è molto più timida, introversa e prudente. Ci mette anni per innamorarsi. Ed è
anche il punto fermo per sua sorella di poco più piccola. Lemlem c’è sempre. E’
da lei che Aziza torna quando è in difficoltà perché perde i lavori, rimane
senza soldi, resta incinta, ma mal sopporta le regole imposte dalla sorella.
Lei, Aziza, è selvaggia, istintiva, disordinata, incostante, vitale. Ha un grande amore per la vita,
è una che non si lascia piegare. Frequenta i bar, esce con i ragazzi, fuma per
strada. Del resto è stata allontanata da casa e mandata dalla sorella “per
punizione”, per aver marinato la scuola. La mamma aveva detto a Lemlem che era
solo per un periodo di tempo. Ma Aziza è indomabile ed è un pericolo per la
reputazione della famiglia, quindi da una telefonata rapidissima, Lemlem
apprende che sarà lei in quanto sorella maggiore, a doversi occupare di Aziza
in tutto e per tutto. Quando Lemlem stava per replicare la mamma attacca il
telefono.
Le due
sorelle crescono, entrambe con numerose ferite dentro, ma crescono. Entrambe
hanno voglia di farsi una famiglia, ed è facile capire il perché.
Le
ragazze studiano e lavorano e per questo viaggiano tra il Sudan, i paesi arabi,
Perugia, Roma, Londra. Quando Aziza resta incinta di Sam, il primo figlio, il
padre non lo sa. Quando il bambino avrà cinque anni lei scriverà una lettera
alla sorella pregandola di convincere Kamal, il giovane padre che fa parte di
una comunità africana della Roma bene, a prendersi le sue responsabilità.
Fatto
sta che il piccolo Sam viene consegnato dalla stessa Aziza ad un’incaricata
della nonna paterna. E’ la storia che si ripete. Ma di Sam, Aziza non riuscirà
più a sapere nulla.
Per
tutta la sua vita Aziza avrà nelle orecchie le urla del suo bambino che, mentre
viene portato via, chiama “Mummy Mummy!” Questo sarà uno dei terrificanti
fantasmi che la accompagnerà fino alla fine.
Aziza
non è una madre scriteriata o senza cuore è una madre che non avendo i mezzi di
sussistenza per assicurare al proprio figlio una vita migliore di quella che
avrebbe avuto con lei, fa una cosa che, se la vogliamo vedere anche da un’altra
ottica, è un grande, enorme, atto di coraggio.
Aziza
si riprende, passa da un lavoro ad un altro, continua la sua vita. Passa anche
dei periodi tranquilli, in cui tutto sembra filare liscio. La sorella Lemlem la
aiuta, anche a distanza.
Aziza
incontra James, vedovo, dolce, simpatico, appassionato, scrive per la BBC,
suona il clarinetto, la aiuta. Diventano ottimi amici. Finché decidono di sposarsi. Lui ha 67 anni e la
differenza di età tra loro è evidente, ma si amano sul serio, l’uno completa
l’altra, sono le due metà della mela.
E qui
c’è la scena – scusate ma io ho un po’ la lettura cinematografica, nel senso
che vedo quello leggo, ovviamente se chi scrive è talmente bravo da farmela
vedere – c’è la scena di un gran bel matrimonio con alcuni parenti venuti da
lontano e con la sorella Lemlem che osserva la sposa: bella, leggiadra e felice
e si chiede perché non io? C’è gelosia da parte di questa donna saggia, buona,
previdente, assennata, che ha sempre aiutato quella scriteriata di sua sorella,
lei che ha una storia travagliatissima con Marco, anche per questioni di
razzismo da parte dei genitori di lui.
C’è
una bella analisi psicologica di tutti i numerosi personaggi di questo libro.
Fredda, da cronista come dicevamo prima. Almeno fino a pagina 176. Poi vi dirò
cosa accade a pagina 176.
Aziza
e James mettono al mondo un bambino, Adam, e James è un papà eccezionale.
Aziza
trova il lavoro che fa al caso suo, nella ludoteca di un centro benessere per
Vip, ad accudire i bambini dei clienti. Questo le permette di stare con il suo
bambino e anche con suo marito, e lei si sente realizzata perché il lavoro le
piace, forse questo è il periodo più felice della vita di Aziza, peccato che
duri poco, soltanto due anni.
James
è sempre più presente nella vita del figlio, ma un brutto giorno si ammala e in
breve tempo muore. In breve muore anche una delle sorelle, Lula, ma lei lo
viene a sapere per vie traverse. Ancora una volta ha la conferma che sua madre
non la tiene in alcuna considerazione. Questo getta Aziza nello sconforto più
totale, non mangia, non dorme, fuma troppo e quel po’ di alcool che usava per
tirarsi su il morale nei momenti difficili aumenta sempre di più, fino a
divorarla.
Il
piccolo Sam cresce nella più totale anarchia e tocca a lui, un frugoletto magro di otto anni, come
lo descrive Ferrara, prendersi cura di mamma Aziza che è sempre più prostrata
dal dolore, dall’incapacità di reagire, ma ha comunque degli sprazzi di
lucidità nei quali gioca con il figlio e cerca di fare la mamma come meglio le
riesce. E sono quelli i momenti felici che restano impressi nei ricordi di
Adam.
Ancora
una volta interviene Lemlem, che incontra l’autore di questo libro e inizia a
raccontargli di sua sorella vedova, con un bambino piccolo e con grandi
problemi di salute, accennando ad un esaurimento nervoso.
A pagina
176 avviene l’incontro di Pino Ferrara e di sua moglie Wilma con Adam e Aziza.
E qui la narrazione assume tutto un altro tono. E come non potrebbe essere
diversamente?
Ferrara
e sua moglie si trovano davanti uno scenario di miseria, disordine, sporcizia e
squallore, con il piccolo Sam solo in casa perché la mamma era andata a fare la
spesa.
Sarà
l’inizio di un lungo e delicato percorso che Pino Ferrara e sua moglie Wilma,
con infinita pazienza e dolcezza, decidono di intraprendere. Un percorso che li
porterà all’adozione definitiva di Adam, il frugoletto magro che oggi sta per
laurearsi in Business Management and Marketing alla Winchester University .
Ed ora
vorrei raccontarvi un rapidissimo aneddoto: quando la nostra Maria Rizzi mi ha
messo in mano il libro di Pino Ferrara chiedendomi di leggerlo, scriverci su
una recensione e presentarlo oggi, la prima cosa che ho fatto è stata quella di
guardare chi fosse l’editore. Questo è un mio vizio personale, ancora prima di
leggere il titolo di un libro devo vedere qual è la casa editrice che l’ha
pubblicato. “Il figlio di Aziza” è
pubblicato da “La Vita Felice”, questo editore ha pubblicato gli ultimi miei
due libri e conosco altri autori ed altri suoi libri e sapevo che questo
editore non pubblica nulla che non sia valido. E così, senza neanche leggerlo,
perché non riuscirei a scrivere una buona recensione senza che un libro mi
piaccia, le ho detto di subito di sì. E non me ne sono pentita.
Ma ora
ho una domanda per Pino Ferrara: io vorrei avere notizie di Sam. Possibile che
non si sia riusciti a rintracciarlo, magari su FB?
Il figlio di Aziza Di Pino
Ferrara
Recensione di Luca Giordano
Questo libro di Pino Ferrara è
interessante e ci porta a scoprire delle cose nuove con un modo originale di
esporle. Esso ha un solo difetto: sembra fatto apposta per far innervosire
l’ufficio marketing di una casa editrice.
Tratta di Africa: oggi, Africa!
come si fa a parlarne? Malattie, missionari, sono tutte cose già viste, noiose.
Parla di qualcosa che
coinvolge l’autore in prima persona, non solo in quanto tale ma anche nella sua
vita affettiva. Orrore! Un coinvolgimento! Non è neanche un libro - inchiesta,
un instant - book, un diario piccante, sarà uno di quei libri di cui se ne
vedono tanti.
Ma se leggerete il libro
riderete di queste affermazioni.
Perché è una storia
appassionante. Io personalmente mi sono identificato in donne africane che
fuggono dal loro paese. Io che abito da sempre nella stessa casa e che sono un uomo.
Con alcuni amici spesso
abbiamo riflettuto su come la vera fonte di un’opera letteraria non sia la
professionalità, ma debba nascere da un’esigenza profonda, essa provoca un’azione
autenticamente creativa, la professionalità è uno strumento ma non ne è
l’origine. Questo libro di Pino Ferrara è una dimostrazione di come un non
professionista possa essere un autore creativo. Ci aiuta un famoso aforisma di
Schopenhauer che è un elogio del dilettantismo:
"Dilettanti!
Dilettanti! Così vengono chiamati con disprezzo coloro che si occupano di una
scienza o di un’arte per amore di essa e per la gioia che ne ricevono, per il
loro diletto, da quanti si sono dedicati agli stessi studi per il proprio
guadagno, poiché costoro si dilettano solo del denaro che con tali studi si
procurano. Un tale disprezzo deriva dalla meschina convinzione, che nessuno
possa prendere qualcosa sul serio senza lo sprone della necessità, del bisogno
e dell’avidità. Il pubblico ha lo stesso atteggiamento e la stessa opinione: e
di qui nasce il suo rispetto per gli “specialisti” e la sua sfiducia verso i
dilettanti. La verità è, al contrario, che per il dilettante la ricerca diventa
uno scopo, mentre per il professionista rappresenta solo un mezzo, ma solo chi
si occupa di qualcosa con amore e con dedizione può condurla al termine in
piena serietà. Da tali individui, e non da servi mercenari, sono sempre nate le
grandi cose."
Arthur Schopenhauer
Questo libro effettivamente
nasce da un’esigenza profonda: la volontà di spiegare a un ragazzo la storia
delle sue origini.
L’elaborazione del testo è
fatta con un notevole cura, usando i migliori mezzi a disposizione: interviste
ai protagonisti e una ricostruzione storica degna, anzi a volte superiore, di
un ambiente di studiosi della materia.
Il libro di Pino Ferrara ha
molte identità, come una persona.
Amin Maalouf, scrittore
libanese, nel suo saggio “L’identità”, spiega come ciascuno porti in se molte
identità. Ad esempio io sono impiegato di banca, marito, aimè anche genero,
amante della poesia, viaggiatore e così via; alcune di esse si affermano per
motivi storici e contingenti e insieme creano l’individuo.
Parlerò di questo libro
attraverso le identità letterarie che esso racchiude.
“Il figlio di Aziza” è la
ricostruzione di una storia, questa è la prima identità esplicitata
dall’autore. La voce narrante spiega
alcuni passaggi, tiene le fila del racconto senza pesare sulla storia. È
gradevole e s’inserisce in un tassello tra un giornalismo capace di grandi
sintesi descrittive, raro in Italia di origine anglosassone e una ricostruzione
storica che mi ricorda alcuni passi dello storico dell’Italia coloniale A. Del
Boca.
Ci sono poi le storie, e qui
la seconda identità è la dimensione
biografica . È storia vera, intensa, nella quale noi traviamo il ciò che
rende il libro interessane.
Da una parte un conflitto
generazionale, che è la causa iniziale di tutto, dove le ferite inferte dallo
scontro con la tradizione familiare molto dura dell’Eritrea, hanno delle
conseguenze che , come in una carambola del biliardo, provocheranno un secondo
conflitto, quello con la dura realtà dell’emigrazione e la diversa capacità dei
protagonisti di affrontare le vita.
C’è chi trova in se una grande
forza e ne fa scaturire una personalità generosa e solida, chi invece soccombe
pur affrontando tante vicissitudini, chi è chiuso nel suo egoismo, chi con la
sua generosità ripara il vuoto lasciato dal male nella vita di un ragazzo.
Raccontando questa verità
l’autore non cede alla tentazione di adattarla, romanzandone alcune parti, e
non cede neanche alla grettezza di svelare dei particolari inutili che
risulterebbero solo mortificanti e falserebbero ugualmente la verità profonda
delle storie.
Qui si vede al servizio della
narrativa, una capacità che hanno i migliori dirigenti di banca in Italia - di
cui Pino Ferrara fa parte - quella di sapersi muovere in situazioni complesse
senza romperne mai gli equilibri, quasi come dei diplomatici esperti.
Questo libro ha un’altra
identità: la capacità di farci pensare, non accondiscendendo a quello che noi
già crediamo, ma inserendo tra le nostre conoscenze delle novità. Queste storie
sono la materia prima per capire qualcosa del mondo. Perché noi capiamo come le
vite siano complicate, come il male o il bene non siano in una persona sola,
capiamo di quanto siano ingiuste le considerazioni che si fanno adesso
sull’immigrazione, di come gli uomini non sono delle statistiche, sono degli
individui con ciascuno una storia. Capiamo perché il razzismo è stupido: la reale
complessità del mondo non sopporta la stupidità di chi si lascia andare
affermazioni senza conoscere le situazioni. Ci si può trovare un soggettivismo
che Gilles Deleuze sintetizza nella frase:
”Nessuno è la maggioranza, tutti sono una minoranza”.
Infine questo libro è
testimone di una passione. Appassionato ma non in maniera semplicistica, una
passione riflessiva che parte da un’esperienza personale dell’autore e di sua
moglie. Mi si permetta un inciso: apprendo dal libro che la signora Wilma,
moglie di Pino Ferrara, anche lei personaggio positivo di questa storia, sia insignita
del titolo di Cavaliere del Lavoro della Repubblica Italiana, se in Italia i Cavalieri
del Lavoro fossero tutti come la signora Wilma noi saremmo la prima nazione del
mondo.
La passione di Pino Ferrara lo
porta a scrivere un libro complesso. Effettivamente la ricostruzione è
complessa, ma l’autore riesce a non renderla complicata. La complicazione di
questo libro la paragonerei a un mosaico pieno di particolari che però ha nella
sua unità una bellezza.
Questo libro ha un’altra
identità: è un libro tipicamente italiano. Anche la genesi, induttiva nata
dalla volontà di spiegare a un ragazzo la sua storia, fa parte proprio di una
italianità che più che guardare a regole o a schemi precostituiti si getta
nella complessità del mondo cerca di capirla. Mi raccontava un amico, che ha
lavorato per un periodo società informatiche nella Silicon Valley, che molte
società hanno all’interno un italiano che, quando ci sono dei guasti o delle
situazioni per cui non si riesce capire perché le cose non funzionano, entra in
gioco e, senza saper neanche tanto spiegare come, riesce a risolvere il
problema. Questa capacità intuitiva-induttiva, questa creatività al di fuori
degli schemi è veramente una caratteristica italiana. Nel libro è una storia
concreta e non un ragionamento a far nascere l’opera, tutto funziona senza uno
schema.
Questo libro infine è un libro
europeo perché parla di persone venute in Europa, parla di giovani che sono
venuti in Europa e che hanno lavorato e vissuto in Europa. Parla di un ragazzo
figlio di una donna africana ora adottato da due europei e che sarà un nuovo europeo,
dicono studi con ottimi risultati e si avvia a diventare membro della classe
dirigente europea.
Infine mi sia concesso di
parlare di una cosa personale. Io lavoro in banca e prima di essere assunto ho
sempre pensato che il lavoro in banca fosse una cosa per persone con poca
fantasia. Mi sono dovuto ricredere, ormai le banche sono un luogo dove si
annidano le persone più sovversive che esistono nella nostra società. È chiaro
che si tratta di un essere sovversivi non in modo violento, ma certamente conoscere
le dinamiche interne dell’economia, capirne tutta la grettezza, provoca in
certi animi una ribellione.
Soprattutto non avrei mai
creduto di trovare dell’anticonformismo. L’ho trovato in alcuni colleghi, e in questo
libro Pino Ferrara mi ha fatto capire dove nasce. Lavorare in banca, controllare
tutti numeretti, non farsi sfuggire niente, fa restare molto con i piedi per
terra, ma se si sta con i piedi per terra a volte si riesce a prendere lo
slancio per fare un salto. Personalmente auguro a tutti di leggere questo
libro, perché si farà un salto nella comprensione del mondo di oggi, tirando i
fili delle storie che sono le storie che noi vediamo naufragare sulle coste
italiane e fa capire come la nostra fortuna di essere europei benestanti va
investita in amore e comprensione per l’umanità, per ciascun uomo, per poter
sperare in un mondo migliore.
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