PREFAZIONE A "I DINTORNI DELL'AMORE..."
I dintorni dell'amore, ricordando Catullo, la più recente opera poetica di Nazario Pardini, proposta nella memoria del grande poeta latino, è anch'essa divisa, come la precedente, I dintorni della solitudine, in tre sezioni; è inoltre preceduta da una Lettera ad un'amica mai conosciuta, testo che ne richiama subito alla memoria un altro, che immagino vicino al sentire e alle intenzioni del nostro autore. Si tratta della poesia di Luis Cernuda, dal titolo A un poeta futuro dove troviamo gli stessi interrogativi, le stesse incognite, lo stesso bisogno di colmare il vuoto e la solitudine interiore e di trovare un senso alla propria vita che rintracciamo nel testo di Nazario Pardini. Vi compare anche l'immagine di uno stesso fiume che porta in Uno vicende ed esperienze umane - metafora dell'esistente da cui precisamente prende l'avvio il testo in prosa del nostro autore. Ma, al di là di questo, un unanime respiro connette le due scritture: un tono epistolare intimo e confidente che con movenze accattivanti ed emblematiche, si innesta in una concezione dell'amore fortemente idealizzata, a testimonianza e suggello di una visione poetica e di un credo artistico che rimane a fondamento della loro opera.
Il testo di Pardini si apre, come già detto, con una lettera che prende l'avvio dall'immagine di un fiume che trascina, insieme alle sue acque chiare, tutto ciò che incontra sul cammino, fino al mare infinito.
Ed è, per l'appunto, una metafora della vita: il fiume che porta nell'immensità del mare, ovvero nella totalità dell'Essere, bene e male insieme a tutte le contraddizioni e le antinomie che connotano il contingente: il nostro essere, e quella realtà limitata, parcellare, conclusa che sembra fronteggiarci, ma che ci costituisce nel nostro essere più proprio, essendo una con noi.
Il poeta, che si interroga intorno a questo “fiume”, si interroga sul senso dell'esistere, e in altri termini si chiede dove andiamo, a cosa siamo destinati, e che senso abbia la vita umana in quanto costruzione di qualcosa a cui - nel bene o nel male - siamo chiamati.
Quando “foscolianamente” ci induciamo a pensare nei termini di una nostra eternità laica, dicendo che ci eterniamo nella memoria dei posteri, credo che intendiamo dire anche questo: tutte le esperienze e conoscenze dell'uomo sono fiumi, rivi, torrenti, che confluiscono nel grande, sconfinato mare della conoscenza che è nuova creazione e nuova vita. Un mare, dunque, che mescola la ricchezza e multiformità delle tante acque che affluiscono in lui, riportandole ad Unità. Riportando il multiforme e difforme ad Unità, cioè a nuova realtà e a nuova vita. Pertanto, l'uomo è parte integrante di un processo che estende l'opera divina, anche in forza del suo “libero arbitrio” - che non è assoluto, ma condizionato, anzi spesso pesantemente condizionato - ma è comunque quella facoltà di scelta che mette in moto il divenire, e che contraddistingue il suo pensare e il suo agire.
A proposito dell'Amore, un tema che riveste vitale importanza in quest'opera, il poeta afferma che non debba mai allontanarsi dall'ideale della Bellezza, e dunque dalla Poesia. L'Amore, infatti, primo attributo divino, è il principio che informa l'universo. È Pneuma, spirito, energia del cosmo, che costituisce anche la nostra parte divina, la quale, tuttavia, nell'attuale civiltà sembrerebbe messa da parte, dimenticata in qualche oscuro canto di noi stessi. In questo concetto che lega insieme Amore ed Arte, il Bene e il Bello, possiamo rintracciare quello della Kalokagathia che esprime l'essenza di quello spirito dell'arte greca, da Nietzsche definito apollineo.
Nello stesso testo, inoltre, partendo delle premesse che l'autore va sviluppando, si fa strada l'idea di una poetica ben definita sulla base, non nuova - perché mai risolta e sempre, di epoca in epoca risorgente - di una quaestio a carattere concettuale e linguistico che contrappone, in ambito letterario, il valore del “Nuovo” a quello dell'“Antico”-
Pardini opta per una concezione in cui l'“antico” si innesti sul “nuovo” per dare nuovi germogli, nuovo frutto, nuova vita all'arte. Ma anche dove l'antico possa intendersi come il terreno, l'humus, il sostrato, la base feconda e intatta (eterna) della poesia che verrà dopo: una poetica che pienamente condivido.
La prima sezione del libro, quella che dà anche il titolo all'intera silloge, sembrerebbe una rivisitazione dello schema amoroso catulliano delle Nugae, che costituiscono la prima parte di quel Liber di 116 componimenti poetici a noi pervenuto.
Nelle Nugae vivono le alterne vicende della passione amorosa del poeta latino per una donna cantata col nome di Lesbia - nel riecheggiamento del mito e del fascino della poetessa di Lesbo, Saffo.
Anche nella prima sezione della silloge pardiniana trovano posto le vicissitudini di un amore nel dispiegarsi di momenti e tappe che in qualche modo richiamano ed intersecano il paradigma catulliano che procede dalla passionalità e fedeltà amorosa fino alla tragica constatazione del disamore e dell'abbandono finale. I componimenti di questa prima sezione non hanno titolo e sono separati tra loro da un asterisco.
Questo attraversamento di momenti e di stati d'animo dispiega, anche nel nostro autore, un corollario di sentimenti ed emozioni, finemente elaborati, che stempera, tuttavia, e ammorbidisce i toni della passionalità più accesa di certi carmi catulliani.
Le liriche pardiniane hanno lo stesso andamento tematico, e tutto è rivissuto e rivisitato nello spirito e - per certi versi - nello stile catulliano che è quello amoroso per eccellenza - anche se di un amore che ha i connotati e le sfumature peculiari dell'anima del poeta: connotati e sfumature che indicano una consonanza spirituale che attraversa il tempo per divenire nei due autori, afflato, visione, emblema di uno stile che è misura di vita e immagine di una realtà.
I componimenti sono brevi e, come i carmi catulliani delle Nugae con continui riferimenti alle personali vicende amorose. Si innestano nel tessuto dell'opera richiami più puntuali, e parziali rifacimenti di alcuni dei testi più rappresentativi del poeta latino, come è nelle pagg. 33, 45, 47, 48, e forse in qualche altra ancora.
L'incipit di questa prima sezione è dato da versi pregni di amara dolcezza e del senso di ogni fatale declino che - sempre all'insegna dell'amore - conduce alla ricerca di una vita che sia più vera ed essenziale. I paesaggi sono un riflesso dell'anima, un esempio è fornito dalla pag.38: mare e spiaggia, pensieri e immensità che recano connotazioni dell'anima “...e un'aria grigia / ricopre i miei pensieri. (…) brusio di poca gente / ma tutto è vuoto /non mi consola niente.”
Natura e paesaggio sono, del resto, lo sfondo costante dell'opera, che i versi dispiegano in ampia e variegata fenomenologia. Vivono sovente della dimensione del ricordo, e aprono a scene in cui si mescolano note passionali che vagheggiano sogni lontani (pagg. 37 e 39).
In alcuni componimenti di questa prima sezione incontriamo una dolcezza che sconfina, a volte, nel gesto voglioso e irruento come pure avviene in qualche testo del poeta latino. Il personaggio centrale, è una Delia/Lesbia che ci riporta alla donna amata da Catullo, e che, come la Lesbia catulliana, si mostra a noi di riflesso, attraverso i sentimenti che suscita nel nostro poeta. Gli stessi versi aprono talora a suggestioni e vagheggiamenti di un passato arcaico in cui l'immagine femminile era accostata a quella della divinità, e vi si effonde una malinconica dolcezza che pare emanare dalla natura e dal paesaggio ed irradiarsi in palpito e in levità che si fanno canto di delicata elegia.
Così la nostra Delia/Lesbia, trasfigurata, diviene ninfa vagante per i boschi, che ci appaiono intramati di elementi vegetali e umani: “ ...tingevano i capelli / i raggi rossi / penetranti tra i rami / e i butti smossi. / Olezzava il salmastro e la tua pelle...” E poco più avanti, in un altro componimento: “(…) Forse non giungi, Delia, / ché più non mi ami? (...) Ma dal fondo del bosco, / ninfa vagante, / dal fondo del viale / verso i miei dubbi / muovi le tue grazie (...) ed io respiro / il tuo dolce profumo, / il tuo sospiro.” Una mescolanza visionaria in cui la bellezza femminile compenetra e anima la natura. E questa, a sua volta, si mostra come la degna cornice entro cui cantare la donna amata. Ma in essi si insinua il dubbio della fedeltà amorosa della donna, che ci riporta alla parabola catulliana, prima ascendente, poi declinante, di un amore che ci appare, nel suo incedere, fatalmente segnato.
Comunque - al di là delle affinità che accomunano i versi dei due poeti - le vicende amorose sono, nelle loro opere, diversamente contestualizzate e il sentimento che le anima dipende dall'apporto complessivo delle singole esperienze di arte e di vita.
L'immagine della donna amata riflette, in ognuna delle due opere, atmosfere che appaiono consone al suo tempo, così la vicenda dell'amore tenero e appassionato del poeta latino riceve l'impronta nuova della realtà che vive nel nuovo poeta: e l'”Antico” trova un prezioso innesto nel “Nuovo” che avanza.
Nella seconda sezione del libro Di vita, di mare di amore, i temi affrontati sono esplicitati nel titolo. E il primo componimento sembrerebbe, appunto, un inno alla vita e alla natura, tradite e devastate dall'uomo. Delle quattro strofe che lo compongono, le prime tre presentano l'anafora del verso iniziale “E noi ti demmo morte” a ribadire con enfasi e immagini di brutalità, lo scempio operato su di esse dall'uomo. D'ora in avanti, infatti, anche in considerazione dell'opera nefasta dell'uomo su di esse, percepiremo il sentimento dell'autore mutare, e i paesaggi e la vita intera ci appariranno, nei versi, disabitati, inquieti, silenti... “(...) Mi prende il largo spazio: / sono il nulla e il nulla si dilegua / nel vento salmastro dell'immenso./ Non odo più la bàttima né provo / sogni e tristezze in questo diluirsi / del cuore nel mio mare.”
Anche nei versi di Chissà per quali mete, troviamo lo stesso abbandono, lo stesso senso di vuoto e dismissione che si riflette nello sguardo che si allarga alla campagna “ Spentisi i girasoli, ammorbiditisi / i colori della mia campagna / resta un canto che accompagna / i rintocchi di una campana funebre. / Questo rimane di un'intera stagione: / un suono lento e peso /che rinnova un trasporto; / seccumi senza scricchi / per assenza si sole; / viti disabitate; / uccelli che svolazzano nel vuoto, / immemori di nidi.” Il senso di una morte incombente emana da questo lento sfiorire della natura, dallo spegnersi dei colori accesi dell'estate: cenni che divengono segni e simbolo dell'inesorabile fine di ogni cosa.
Alcuni versi, come quelli di Ignoto verso il mare hanno poi un andamento lento e riflessivo, modulato, si direbbe, su una meditazione che proceda sugli stessi passi del poeta “E' febbraio. Non vedi per i campi / traccia di paesani; tutto è fermo. / Persino lo svolare attende l'ora calda...” L'occhio osserva la natura che lo circonda, minuziosamente, in una calma riflessiva che conduce al ricordo di un tempo lontano, di una giovinezza colta nel dolce e amaro sentimento del nostos. Il presente, infatti, non vive più delle grandi speranze di allora: “ (…) “A te mi dono / mese di nostalgie! Di quando a sera / ci si accostava al fuoco con un animo / già pronto ad incontrare primavera: (…) E ti rivivo, / seppur la mia speranza / non cova rami in fiore”
In altri momenti, l'interiorizzazione del paesaggio è dovuta a un sentimento di vastità panica che abbraccia il Tutto, tutto il paesaggio in un unico afflato, e la terra in un sentimento filiale: “Nessun pensiero / mi assalirebbe di dolore o di paura / sui sentieri di campo solitari / di papaveri tinti e di ginestre. / Volerei felice tra le reste / scricchiolanti di calura estiva / alla deriva / in possesso dei suoni e degli afrori /della mia madre antica.” E l'uso ottativo del condizionale avverte, appunto, dell'insanabile distacco tra la realtà e il desiderio.
Ritorna spesso, come in E' l'aria di novembre, il parallelismo tra il trascolorare della natura e il declino della vita umana, già rilevato nei versi di un'altra silloge I dintorni della solitudine: “ (…) Resta / un silenzio che ingloba nel suo manto / la stanchezza del mondo. (…) Qui respiro il riposarsi fragile dell'aria, / lo scorrere caduco di stagioni / che sembravano eterne. (…) E se mi specchio / mi vedo stagione / che lascia alla corrente / l'ultimo verde delle sue memorie.” La consonanza tra immagini e sonorità del verso è di straordinaria bellezza e levità. E straordinaria, come dicevo, appare la chiusa della poesia dove il pensiero e il sentire umano trovano espressione nel simbolismo universale della natura.
Il tema dell'amore ricompare evocato dal ricordo di un paesaggio visitato insieme all'amata. E il personaggio della dolce Delia torna nei versi di Ode, - e in altre pagine - e si mescola a questo tenue rammemorare, al vagheggiamento di momenti estatici che si fondono al paesaggio e lo nutrono di atmosfere vaghe e fluenti come il trascorrere delle stagioni nell'aria. Torna anche, nell'ultima strofa, un riecheggiamento dei versi catulliani del “soles occidere et redire possunt”, a commento di questo dileguarsi di eventi e di visioni che è la vita.
Nell'Ecfrasi, intitolata il Canto della bellezza, compare il tema dell'idealità amorosa che si dispiega nella sublime immagine di un amore estatico, immortalato fuori dal tempo attraverso la descrizione di un gruppo marmoreo in cui gli amanti non consumano l'acme della loro attrazione, che è magnetica, fatale. E la rappresentazione delle forme è, pertanto, la rappresentazione di questa attrazione che rimane ferma in se stessa, senza trovare un divenire nella materia. Attrazione che diviene astrattezza e pura idealità nel suo esimersi dalla incarnazione ed oggettivazione nel reale, e dunque dallo scadimento di quel gesto puro in una contaminatio che lo priverebbe di quella assoluta bellezza che lo apparenta al divino: sublime descrizione di un attimo che ferma sulla soglia del divenire un gesto estatico, e lo rende eterno simulacro dell'Amore.
Il tema del mare, presente in vario modo nella silloge, si presta ad esprimere, per traslato, più di un aspetto della vicenda umana, e al tema del mare è da ascrivere La barca, ultima lirica della seconda sezione: qui i versi sono tutti intessuti di metafore – barca, mari indifferenti, onde pellegrine, aspri scogli, porto, faro ecc.– afferenti per lo più a un'area semantica di dominio psicologico-esistenziale, ma anche a quella valoriale delle esperienze umane “ Sono una barca che s'inarca al mare, / sono un fuscello in balia del vento / che cerco un porto (…) I remi stenti / hanno solcato mari indifferenti / verso il chiarore delle mie speranze. (…) Ho navigato incerto in queste acque / sbattuto spesso da onde pellegrine / in scogli aspri e crudi; in rocce scure. (…) Aspetto un porto. Un faro che m'illumini; / una scia che segni la mia rotta (…)”. E i versi chiudono con un desiderio e una ricerca, dentro una quasi disperata speranza.
La terza sezione della silloge è intitolata Canzoniere pagano; ed è da escludere, naturalmente, che l'attributo, abbia alcun riferimento al significato che esso andò acquistando in relazione alla sopravvivenza degli antichi culti politeistici nelle campagne dopo l'avvento del cristianesimo.
In questi versi non è implicato alcun rapporto con la religione se non quello con una realtà che, nella sua idealizzazione, conserva tuttavia qualcosa di sacrale – tema anch'esso rilevato nella silloge I dintorni della solitudine - dove è intimamente rivissuto il rapporto con un paesaggio della memoria e con uno stile di vita, che riconducono l'autore alle sue lontane radici, alle ancestrali forme di un mondo dalla bellezza e purezza archetipiche.
Compaiono, come in precedenza, immagini scelte di luoghi amati - accomunati in un canto intensamente lirico - ma ci si mostrano spesso anche in abbandono: luoghi dove, a volte, una Natura malata, quasi moribonda, parrebbe esalare un ultimo respiro “La zappa è appesa al filo del vitigno / incolto e abbandonato e tra i filari / è cresciuta gramigna (…) filtra quell'aria sana di campagne /odorose e feraci che a frinire /continua in mezzo a scorze rosicchiate // da talpe o a sibilare alle micragne /rimanenze di vita. (…) Paesaggi, cari alla memoria che rappresentano per il poeta un richiamo vitale, un amore cui, nel vago, si mescola una incerta malinconica speranza. Così, talvolta, come nei versi di Albeggia, lo sguardo si posa con affetto sulle cose, le osserva vagheggiando un lontano, impossibile ritorno a quel passato, a quel minuscolo paradiso che racchiude gli esseri cari, il senso di un tempo che l'anima custodisce: centro e forza del suo essere stesso, richiamo e voce di cose care e sacre non più presenti, non più raggiungibili come un tempo, e da cui nasce il respiro dolce e amaro di questa poesia.
L'amore per la bellezza è una costante della continua ricerca che i versi sottendono, dipanandosi in un cammino attraverso un universo reale e, nello stesso tempo, entro il se stesso, nell'interiorità della propria anima che della bellezza fa tesoro, di essa respira. Nella lirica San Rossore, i passi, lo sguardo, lo spirito dell'autore documentano, appunto, questo anelito e ricerca costante della bellezza nelle forme di quel grembo paradisiaco che è la Natura, la grande Madre che questi tesori ancora elargisce, a dispetto dell'incuria e del degrado cui l'ha condotta l'uomo. L'andamento dei versi, il loro ritmo riposato e lento, ci riportano ancora a un andare “Solo et pensoso per i deserti campi...” -come già, forse più palesemente alla pagina 49 della prima sezione - ma non per nascondere agli occhi indiscreti l'animo esacerbato da una passione amorosa divorante, bensì in meditazione, per una necessità di ascolto di se stesso in solitudine e di un colloquio col suo essere più intimo e profondo, vale a dire con la sua stessa anima. Gli accenti e le sonorità dei versi, le descrizioni dell'elemento naturale, evocano l'insistente richiamo di questa voce che tutto riporta a un ancestrale mondo di sanità e purezza, ormai in disuso, e a canoni estetici e valoriali che hanno dato un imprinting radicale all'anima del fanciullo e dell'adolescente, in un tempo lontano.
In tutte le poesie di questa sezione, torna, infatti, e trascorre, proprio il ricordo di “quel tempo lontano”: troviamo versi memorabili in All'alcione; e in Giusto figure di un'antica età compare un aspetto di quel mondo che una sacra nicchia conserva nel suo cuore: il ricordo dei pastori transumanti la cui anima sembra vivere, in pienezza, degli spazi smisurati e della purezza dell'essere in una natura ancora incontaminata.
Troviamo, in alcune poesie, echi e rimembranze di altri testi, per esempio in Il tempio, la memoria va alle Correspondances baudeleriane, mentre La casa del colle - ma solo per lievi assonanze -
vagamente richiama La casa dei doganieri di montaliana memoria.
Anche l'amore si lega spesso a queste immagini di paesaggi, e di quel mondo che lo santifica e lo rende eterno nel ricordo. E nelle descrizioni talora aleggia l'impronta di un passato leggendario, e il mito si frammischia alla realtà e alla storia come è, ad esempio, in Volo pagano: “Lèucade profumata di salina / memoria io ti trovai tale alla spiaggia / dell'ombrata Versilia, ove la pina / rumoreggia con tonfi sulla gaggia / dorata dai suoi tirsi (…) Mi ghermirono / con violenza gli artigli di possenti / avvoltoi e mi levarono su rade / tanto in alto, che vidi sotto me / il brulicare d'isole affollate / di miti, ninfe, dèi e antichi re. (...)
Fedeli alla sostanza delle affermazioni presenti nella prosa iniziale, in cui il poeta ci dava visione del suo modo di intendere e di fare poesia, i versi di questa silloge coniugano in modo alto tradizione e modernità in una sintesi di elementi e valori che procedono naturaliter, come genuino sentire di chi questi valori ha maturato nei lunghi anni di studio e di ricerca, ed elaborato con profonda raffinata sensibilità che investe tutto il portato esperenziale della sua individualità umana, poetica e culturale.
Ci appare consono, pertanto, trovare nella raccolta, a fare bella mostra di sé, versi che seguono lo schema fisso della tradizione, come i diversi sonetti, finemente elaborati, che punteggiano e impreziosiscono il testo. E una corposa presenza dell'endecasillabo, anche a prescindere da essi.
Altra peculiarità è il subentrare, e a volte la mescolanza, di livelli linguistici che potrebbero sembrare eterogenei: quello di una lingua aulica, colta e raffinata, e quella di una più dimessa, di matrice bucolico-agreste, con terminologie che partono da un quotidiano che inerisce a quella specifica realtà, verso una parlata che si assottiglia in idioletto come specchio di una realtà in disuso, abbandonata e dismessa.
E questo scarto del linguaggio è, naturalmente, lo scarto stesso di una realtà che sempre più si allontana al nostro sguardo. Lo scarto e l'allontanamento di un mondo caro al poeta, e che il poeta torna a rivivere, e a far rivivere con la nostalgia del suo cuore innamorato e devoto.
Una dissonanza che, al tempo stesso, convive e “consona” nell'unità dell'anima che compendia e condensa ogni diversità e disparità in nuova e unitaria acquisizione, in personale patrimonio di cultura e di vita.
Rossella Cerniglia
Anche il lettore frettoloso è in grado di constatare
la centralità del tema della natura nell’opera poetica di Nazario Pardini,
ormai davvero ricca di testi.
Le raccolte
più recenti confermano, all’interno di una ricerca artistico-letteraria
contraddistinta da forti elementi di continuità ideale e formale-stilistica,
tale rilievo primario, non certo limitabile alla semplice frequenza
quantitativa bensì qualitativamente prezioso nella sua dimensione privilegiata
di espressione oggettivata degli stati interiori, àmbito della manifestazione
concreta e coinvolgente delle differenti
situazioni etico-sentimentali, nonché momento dell’esplicitazione
commossa e meditata di una coerente concezione della realtà.
Questa nel
discorso lirico pardiniano appare, fin dagli esordî, percorsa da un’intima
dinamica energetica, da un élan
espansivo, teso a prorompere e dilagare, insofferente di argini, ostacoli,
limiti di sorta. Tale idea si obiettiva, ad esempio, nella potente
rappresentazione della piena di un fiume: “Piove a dirotto stamani, ed il
Serchio / gonfia il suo letto; è già nelle golene, / tra gli alberi che invocano
l’aiuto / frusciando malinconici richiami / col loro ciuffo sopra alla
corrente; / niente risparmia l’acqua inferocita, / tutto porta con sé, alla
deriva. / Qui dall’argine l’occhio si spaventa / a mirare la potenza che
sprigiona: / le barche sradicate dai pontili / corrono in grembo al grosso
defluire, / e ciottoli, tronchi, tavole, e ferraglie / si rincorrono in gara
verso il mare...” (La piena del Serchio da
I dintorni della solitudine, 2019). Dinanzi
al moto imperioso della vitalità naturale il primo atteggiamento dell’autore
consiste nell’abbandono positivo, in un acuto desiderio di immedesimazione, in
un bisogno di fusione panica e disindividualizzante: “… Odori di salmastro e
d’acqua smossa, / di erbe trascinate contro voglia, / mi invadono narici. E mi confondo / con tutto quel fracasso
naturale: / divento un ramoscello in
mezzo al mare.” (ivi, corsivi miei, come in seguito). Ho citato da I dintorni della solitudine (2019), la
silloge che avvia un percorso ideativo proseguito con I dintorni dell’amore ricordando Catullo e I dintorni della vita, libri pubblicati in questo stesso anno, a
comporre un’interessante trilogia.
Nella prima
raccolta emerge altresì il ripiegamento riflessivo, il distanziamento
meditativo, magari coadiuvati dal recupero memoriale, dalla riappropriazione
intellettuale delle esperienze del vivere, potenziate così nella loro rilevanza
morale e affettiva: “Ed il ricordo /
l’ho in saccoccia cogli altri. A questo punto / penso proprio di tenerli vicino
/ ad un cammino ormai giunto alla fine (…) Ogni tanto / me ne riprendo uno come
quando / si gioca con i petali sui prati. / È come ripescare un angolino / della vita. È come riviverla / col supporto fecondo dei ricordi. / Allungarla? Chissà…” (Vis à vis con la sorte da
I dintorni della solitudine). È questo
l’altro tratto caratteristico dell’elaborazione estetica di Pardini,
coessenziale nell’ordine strutturale-compositivo del suo lavoro d’arte, come in
varie occasioni mi è occorso di sottolineare: tale disposizione mentale implica
l’aspirazione a un punto di vista personale, all’acquisizione di un abito
critico che, concentrando l’attenzione sui “dintorni” di determinate, capitali
situazioni spirituali, ne focalizza gli aspetti problematici, ne sonda la profondità
sentimentale e intellettuale.
Nella Lettera ad una amica mai conosciuta
premessa ai componimenti riuniti ne I
dintorni dell’amore lo scrittore si dichiara credente (“…L’avrà (Pneuma) lo
Spirito Santo questo potere di infondere tutta la sua forza sulla materia per
evolverla in bene? Io ci credo. Sono un credente. E non mi pongo tanti
interrogativi…”), dopo aver esordito con un’immagine a lui congeniale secondo
che si è in precedenza documentato: “È proprio vero, il fiume scorre,
portandosi dietro ciottoli, acque chiare, torbide, detriti, piene, e bonacce. E
tutto va a finire in un mare immenso, infinito. Avrà funzione catartica quel mare,
che all’apparenza pare chiaro e brillante, poeticamente tanto vicino
all’eterno? Potrà purificare tutto? La portata del fiume è pesante. Pesante
quanto la nostra memoria…”
Rammento un
verso di Charles Baudelaire, poeta molto caro al nostro autore: “Homme libre,
toujours tu chériras la mer!” (Uomo libero, ti sarà sempre caro il mare!, L’Homme et la mer, da Fleurs du mal, 14, v.1); se la seconda
silloge risulta sostanzialmente monotematica, incentrata com’è sul motivo dell’amore, l’idea del mare - come ha
evidenziato nella lucida prefazione Rossella Cerniglia - vale un’istanza
idealizzante e unificante i varî momenti di un sentimento che unisce alla
passionalità istintiva, edonistico-sensuale (“Il profumo del corpo / ed il tuo
seno, / rosa d’aspetto / e marmo nel suo tatto, / in me sopite voglie / destano
ancora / e rotonde e compatte / nelle mani / stringo le forme tue.”, Il profumo del corpo da I dintorni dell’amore) l’ambizione di
darsi misure superiori di immensità e di transtoricità: “… Son fuscello / che
si annulla nell’aria mattutina / portato sull’onda dall’aria leggera / del
novembre. Forse rincaserà / l’anima mia in fuga negli abissi. / Ritornerà in
prigione nel suo corpo, / riprenderà i suoi occhi per mirare / l’immensità del mare, / per pensare di
nuovo che la vita / è quel fuscello breve che dimena / in un’immensità che ti rapina…” (In un’immensità che ti rapina, ivi).
Il rientro
dell’animo nella dimensione corporea e quindi il recupero di un’ottica
storicizzante e relativizzante rendono comunque lo scrittore toscano - anche
attraverso la stimolante mediazione dei testi di Catullo - consapevole della caducità
della vita umana e quindi pure dei rapporti d’amore: “… Così passiamo Delia.
Noi saremo / polvere e cenere sotto quei fiori / o sotto il gelo che
l’indifferenza / porterà sempre a mietere l’estate. / Fuge quaerere, Delia!
Amiamo, amiamo / e ancora amiamo. / Facciamo d’ogni tempo primavera.” (Ode, ivi). L’intonazione oraziana
intride di malinconia lo spunto conativo e partecipativo tipicamente pardiniano
e dispone il lettore a quella “conversazione con Thanatos” di cui constano i
versi de I dintorni della vita.
Può sul
momento sembrare curioso che un complesso di liriche intitolate alla “Vita” si
richiami con insistenza e sistematicità alla “Morte”: nondimeno l’interesse
critico-intellettuale ampiamente dimostrato riguardo alla seconda si risolve e contrario nell’apprezzamento e nella valorizzazione
dei pregi della prima.
L’antitesi vita/morte pervade da sempre il pensiero
e le forme dell’arte degli uomini, se gli antichi Greci riconobbero nel
“pensiero della morte” (μελέτη ϑανάτου) l’origine stessa della filosofia; e un
poeta moderno fornito di una robusta cultura classica, Giovanni Pascoli, mise
in risalto nell’epilogo di quello che è il più noto e forse meglio riuscito dei
Poemi conviviali (1904), L’ultimo viaggio, l’effetto psicologicamente
angoscioso ed eticamente devastante dell’assillo costante della morte: “Non
esser mai! Non esser mai! Più nulla / ma meno morte che non esser più!” (XXIV, Calypso, vv.52-53, cioè: ‘è meglio non
esser nati, che nascere e vivere una vita tormentata dalla continua preoccupazione
della morte’).
La tradizione
teorico-culturale ha nel tempo concepito al proposito differenti strategie difensive.
Per esempio un pensatore stoico come L. Anneo Seneca raccomandava di
familiarizzarsi progressivamente con la prospettiva della fine individuale,
rilevando il carattere liberatorio (“Qui mori didicit, servire dedidicit”, ‘chi
ha imparato a morire, ha smesso di essere schiavo’) del contenimento e della
crescente limitazione degli impulsi che legano alla vita: se non è possibile
sradicarli, si deve almeno ridurne l’efficacia vincolante (“Una est catena,
quae non alligatos tenet, amor vitae, qui ut non est abiciendus, ita minuendus
est”, Epistulae morales, III, 26,10);
si tratta di una posizione che Bino Sanminiatelli, un raffinato prosatore della
mia terra di Toscana, ha attualizzato e ridefinito in termini esistenzialistici
nelle splendide pagine dei suoi Diarî:
“Sentirsi vivere significa (generalmente e
mondanamente) dimenticare la morte. Sentirsi vivere, invece, non è altro che
sentirsi morire (…) A me non interessa tanto l’uomo nei suoi rapporti sociali
quanto l’uomo di fronte alle cose della natura, all’amore, alla morte,
all’esistere dell’universo” (da Quasi un
uomo, 1968), giacché con
la morte “crolla nel nulla l’illusorio sodalizio creato da vivi. Ritroviamo la
solitudine della nostra preesistenza.” (da Ultimo
tempo. Diario (1967-1976), 1977). Nazario Pardini non ignora di certo la
presenza dolorosa e disorientante della morte, la sua azione distruttiva e
deprivante, come è ribadito in questi versi tramite la sequenza anaforica: “Morte - Lo sai che prima o poi faremo i
conti. / Verrò da te da anima negletta, / ti
toglierò gli affetti, le memorie, / ti
toglierò la vista, e quel che è
peggio / ti toglierò il pensiero. /
Raccogli i tuoi bagagli, preparati alla fine, / saluta la tua terra, i luoghi
sacri / dai quali hai preso tutto...” (Dialogo
con la morte).
Il poeta però
sul fondamento del proprio vitalismo naturistico si oppone ad essa, inveisce
con durezza contro di lei: “… Non hai alcun rimorso, / morte nefanda, morte
senza scrupoli, / morte che veglia anche sopra i mari, / per captare innocenti
forse in preda / di terrore e miseria? Tu che scorrazzi ovunque, / sui colli,
le città, sulle montagne, / sui paesi nascosti alle intemperie; / proprio tu,
morte, presente in ogni dove…” (E quella
imbarcazione?); “…Tu non hai passione, / sei nata senza cuore, né potrai
provare / il bello di una storia. Solo morte; / la tenebra, l’oscuro, i
cimiteri,/ i loculi infecondi sono lì / che attendono il tuo passo desolato (…)
A te è negato ogni volo in cielo, / dacché conosci solo l’ipogeo…” (Se ti guardi dattorno); “… Come faranno
a vivere, lurida morte, / morte lurida che indifferentemente / ti accanisci da
sempre sulla gente / innocente e perbene (…) Per dirti quanto è vile il tuo trascorso. / Vivi senza rimorso?” (Senza rimorso).
La rima dell’ultima
citazione - piuttosto isolata in un contesto lirico dominato dal verso libero -
rinsalda l’aspro giudizio e un antagonismo irriducibile: “… C’è già nell’aria
clima di sereno / anche se il mare continua il travaglio; (…) Ma i dintorni
riprendono il colore, / aprendosi in segno di speranza. / Questa è la danza / a
ritmo di natura; / danziamo la ballata delle gialle gramaglie; / invidiosa
sarai, morte, / dinanzi ai nostri salti…” (Mi
sembra che il vento).
Dalla
correlazione antinomica risulta pertanto un elogio della vita (“Non scriverò di
certo della tua / falce nemica, né del tuo volto / macilento e avvilito,
stamattina. / Non avrai il privilegio di occupare / la testata di questo
poemetto / che racconta la vita, le
memorie. / Scriverò, al contrario,
della gioia / che zampilla dattorno per i prati / indifferenti al tuo potere
maligno; (…) delle ardite primavere che sempre / impavide ritornano a tradirti /
coi tessuti cromatici vibranti/ all’asolo di marzo. Tradimento! / Mi piace
tutto quello che si oppone /
all’impertinenza della tua presenza, / morte...”
(Non scriverò di certo, morte), della
sua forza tonificante, dei suoi valori (l’amore, la poesia) capaci di vincere
la morte: “… A dicembre quel ramo ebbe la gioia / di vederli cresciuti, forti e
rossi, / cachi rotondi come il sole a sera; / ma poi cedette. L’ho rivisto
quest’oggi / secco tra i rami, inanimato a terra. / Un simbolo d’amore e di
preghiera, / che ti ha fregato, morte, / annullando la lama della sorte.” (Un ramo secco a terra); “… E la parola /
fedele obbedirà / alle risacche pronte / a essere risolte in tatuaggi: // ‘Vola
oltre la morte / e amami ancóra come io ti ho amata / e non lasciar che il
mondo ti contamini / togliendoti dall’anima quel succo / nato per trasformarsi
in poesia…’ ” (Infangare Calliope).
Interrogandosi
assiduamente intorno ai misfatti della morte (“… E poi dove sei andata? A chi è
toccato? (…) Tu non lo sai ? / La conosci la storia di mio padre? / oppure
l’hai falciato come tanti, / senza chiederti niente?…” (E tu, quando morì mio padre?), l’autore non si nasconde le responsabilità
degli uomini nello spargimento del sangue, nella diffusione del lutto e può
altresì concedere che Thanatos aiuti paradossalmente la vita liberando le
creature dal dolore (“Forse a questo punto hai fatto bene, / sono d’accordo con
te questa volta. / Soffriva da tant’anni; il male lo rodeva. / Gli leniva il
dolore la morfina. / Era un urlo perenne (…) Forse ha trovato pace; io non so/
cosa succede dopo, ma senz’altro / ha smesso di patire. Oggi ti approvo.”, (Oggi ti approvo, morte), ma la sua
opzione convinta a favore della vita non è mai posta in dubbio.
Stante il
contrasto di fondo di cui si è detto è consequenziale il fatto che nei
componimenti de I dintorni della vita
assuma una funzione strutturante la figura dell’antitesi e specificamente quella costituita dalla compresenza
conflittuale di buio e luce: “… ma il tempo non ci fu: / venne
per te una sera non sperata / anche
se amavi tingerla / coi buoi della Maremma. / Venne oscura per te che amavi il giorno”
(Lettera al fratello scomparso);
“Racconteranno con le loro storie / i luoghi dove io conobbi amore, / per
contraddire con la loro forza / il nero
vuoto della tua esistenza. / O primavera! / Torna fulgente sopra i verdi prati…” (Non
scriverò di certo, morte)
Pardini, che
altrove si è notato, ha affermato di essere credente, confida poi nella
sconfitta finale della Morte, nel
trionfo della Vita, in un tripudio di
luce: “Si aprirono i cieli, / la luce
incoronò valli ed abissi, / e tutto fu chiarore (…) Dovunque fu un abbraccio /
di fratelli, madri, padri; / sugli avelli dei tanti cimiteri / nacquero fiori;
danzarono le anime / rinate a nuova vita (…) Fu gioia. Fu luce attorno,
accecante, / nelle case, sul mare, e per le vie (…) Vinse l’amore, e nella notte
/ si accese la lampada divina, / grande, enormemente forte, / più che d’agosto
la calura estiva. / Più che di giorno la gloria del Signore” (Si aprirono i cieli).
Floriano
Romboli
Nazario
Pardini ha al suo attivo molte raccolte
di poesia. È un personaggio, noto, da decenni nel campo della scrittura. Sulla
sua produzione hanno scritto i più
qualificati critici letterari. Alla sua poesia sono state applicate varie
chiavi interpretative, dalla motivazione esistenzialistica a quella
psicanalitica alla religiosa a quella naturalistica. Ad essa egli perviene in
maniera quasi inconscia, o meglio, sulla scorta di un cammino empirico, di
sofferenze vissute e ben radicate nel quotidiano.
Il
suo pensiero non conosce la freddezza dell’astrazione filosofica. È piuttosto
un’analisi che scandaglia gli abissi della coscienza, una sorta di speleologia
dell’anima che procede per constatazioni. Un narrare per sottrazione, incarnato
in una lingua nuda e spinosa, che mira allo svuotamento e alla esasperazione
delle forme implicite nella realtà. Un’essenzialità ascetica anima il lessico
di Nazario Pardini, quasi retaggio atavico della sua terra di Toscana come nella lirica La solitudine del mare: “Sono solo e
l’inverno mi percuote / coi suoi venti freddi e burrascosi” o nella lirica E venne sera: “La luce crepitante
dell’estate / invadeva la piana, delle reste / il giallo profumato d’erba
stanca.” O nella lirica Vis à vis con la sorte: “Sono troppi i ricordi. / D’altro lato / non
è che il vento li possa disperdere / come fossero foglie”.
Irrompono
gioiose esplosioni di eventi naturali… “Erano vive le stagioni / dei biondi
girasoli” (È arrivato l’autunno), così
la sua poesia è percorsa da accecanti apparizioni che squarciano la
monocromia dell’angoscia in violenti chiaroscuri. È lo spazio per così dire
lirico di un percorso intellettuale non circoscrivibile in un orizzonte
destrutturante “Verranno giorni neri e dovrai scendere / dal limbo in cui
accedesti / per riposare i sogni; la tua isola / sarà deserta senza gli
abbandoni / che ti resero uccello migratore.” (Verranno giorni neri).
Sarebbe
fuorviante definire Pardini mistico dell’essenza, perché si verrebbe inevitabilmente ad intaccare quella
razionalità di pensiero e quella misura che caratterizzano il suo fare poesia.
Eppure non gli sfugge il senso della sproporzione essenziale dell’uomo, la
macerazione spirituale che deriva dalla consapevolezza di essere un frammento
sospeso nel vuoto del tempo ma anche di rappresentare qualcosa di unico grazie
al pensiero. La natura così ritorna e riecheggia spesso sovrana e con lei i
vecchi sopravvissuti di un tempo non alienato e non urbanizzato in cui “La luce
crepitante dell’estate / invadeva la piana, delle reste / il giallo profumato
d’erba stanca. / Sortivano i rumori dalle scaglie / di sterpaglie corrose.” (Venne sera).
Ritorna
anche l’infanzia dei ricordi come nella poesia In una immensità che ti rapina: “Lasciatemi almeno le memorie / di
questo sacro fiume; il verde canto / delle acque moriture; il fluire / delle immagini fioche di stagioni / che si
affidavano a un guado indagatore / di sponde misteriose”, come il microcosmo di
valori che incarna, tenace nel suo perpetuarsi tra padre e figlio, la metafora
della speranza sempre presente nell’uomo. Si leggano i versi della struggente
poesia Disatteso: “Disatteso mi è
apparso questa notte / il campo di mio padre. Una vigna. / Sicuramente in
sogno. Lui che sfrasca / ed io che apro, di ritorno da scuola, / le braccia al
genitore”.
Ma
sono la speranza e l’amore i cardini della poesia di Nazario Pardini: infatti
anche davanti allo spettro della morte il poeta trova sempre l’urlo della
rivincita. Egli vive in ogni uomo e dell’uomo scruta la trasparente caducità e
per questo il poeta esalta le cose più semplici. Per lui è essenziale fermare
il tempo ma anche penetrare nella mobilità mentale dell’uomo per scoprirne i
disagi e la parte più creativa della sua odissea, per potere poi cogliere
quegli aspetti che spesso sfuggono anche all’osservazione più attenta. “Ti
posso solo dire dell’inquieto / mio essere. Del suo bramare invano; / del suo
microscopico restare / davanti a un mondo che non ha ragione / di essere tanto
immenso e così estraneo / al pensiero di un uomo troppo umano.” (Non chiedermi). Il messaggio della
poesia deve contenere i valori più intimi della vita e dell’esperienza umana.
Per questo il poeta trascende con i propri versi la realtà e nella meditazione
e nella densità dei concetti egli vive la propria odissea di uomo, di cronista
della propria storia ma anche di quella degli altri, che vede compagni di un
viaggio senza ritorno. Proprio per questo Pardini avverte nella sua libertà una
simbologia che costruisce i caratteri esteriori dell’essere, così soffocato da
un dinamismo moderno senza precedenti.
Il
suo non è un canto illusorio, poiché sogno, realtà ed illusione si fondono con
la sua identità presente e pienamente raggiunta con il pensiero e con l’azione.
Si legga la lirica La poesia si scrive:
“… non pensare / alla miseria umana, al suo degrado, / fingi che quel momento
sia per sempre. / È l’unico sistema per fregare / lo scettro imperituro della
sorte.”
La
poesia di Pardini rivela anche la preoccupazione per quanto della vita rimane,
di ciò che egli ha vissuto e sofferto nell’iter terreno e comprende che
soltanto l’opera del pensiero individuale può continuare a vivere dopo
l’annullamento fisico. Pardini enuclea con disinvoltura la bellezza della
stessa creazione nella quale s’immerge per raccoglierne i frutti della chiara
odissea di uomo ma anche di spirito libero. Meditazione, recupero, densità dei
concetti, abilità evocativa e psicologica del profondo sono le componenti
essenziali della sua ispirazione, specchio di un’anima non inquinata, dotata
com’è della capacità di comprendere e di cercare nell’uomo ciò che spesso
sfugge alla maggior parte di chi affronta una ricerca tesa a rilevare le
problematiche esistenziali che in ogni tempo lo hanno condizionato. Il recupero
di questi valori dell’anima e del pensiero affiorano nei suoi versi, e se vede
nel passato qualcosa che non può essere rivissuto e ne potenzia la carica
trascendentale: il vissuto è qualcosa che non va perduto e il suo valore resta
immutato; si evidenzia in una densità di concetti che il poeta riesce a farci
rivivere sia metaforicamente che liricamente, in una concezione in cui l’uomo
nulla di nuovo ha da scoprire di sé se
non il limite di sé stesso.
Ed
è forse qui che il poeta rispecchia la sua amarezza: avverte la sottile
presenza non della morte fisica ma dell’essenza dell’intelligenza umana che si
perde nell’infinito cosmico, in questo ritrova se stesso e l’amarezza di non
poter creare, di non potere sentire ed esprimere quella poesia del suo stesso
pensiero che lo porta a vibrare all’unisono con la totalità umana. “Ci sono
cose molto più feconde / a riempire il fondo della sacca: / il dolore di un
figlio che ti lascia, / l’inquietudine che provi nella vita, / la gioia per un
mondo ritrovato, / il senso di una noia che ti assedia, / lo smarrimento in
cieli senza fine.” (L’ incendio dei
papaveri, I).
Se
la musicalità del verso e il fluire delle immagini sono le componenti più
significative, è necessario aggiungere che sulla via della chiarificazione
interiore e della conquista spirituale, il poeta non è mai solo; va oltre la
suggestione crepuscolare nonostante alcune liriche appaiono il riflesso amaro
della meditazione sull’esistenza, soprattutto sulla morte, contro la quale alza
la bandiera della stessa poesia piena di vita e amore. E il tema del ricordo
non è mai fine a se stesso ma è strumento per accedere a una sorta di dominio
ancestrale della terra, in una componente solare. Il ricordo del padre e della
madre diventano così indicazione di un nuovo percorso da raggiungere: “… forse
non era luce, / forse non era / quella che io bramavo, / ma pur sempre la luce,
quella chiara, / quella di casa mia. /
Chi dice che non fosse / quella che io cercavo.” (Verso la luce). La vera strada del ritorno, che è poi l’essenza
pura del nostro vivere.
Michele Miano
Già molti anni or sono il Corriere
della Sera di Milano pubblicava un articolo letterario, nel quale l’autore
riportava un’apodittica affermazione di Eugenio Montale: “La poesia è vita”.
Leggendo quest’ultimo lavoro di Nazario Pardini, il collegamento con tale
memoria è stato quasi immediato: Nel frattempo viviamo contiene la
coniugazione al presente del verbo, dell’azione del vivere. Ed è un
amore per la vita incondizionato, che viene prima di ogni domanda esistenziale
e finalistica su questa nostra avventura umana, ancor prima dunque di aver
scoperto o capito il suo significato, il suo senso: il poeta scommette sulla
vita e l’uomo s’identifica con l’artista senza alcuna scissione o dicotomia.
Tante sono le liriche che
possono dimostrare tale assunto, a partire da quella intitolata Gioachimismo,
con riferimento alla dottrina e al movimento spirituale di ispirazione
millenarista generatisi dalla predicazione e dai testi del monaco cistercense
calabrese Gioacchino da Fiore (1130-1202) che, basandosi su una interpretazione
allegorica della Bibbia, profetizzava la venuta di un’età dello Spirito sulla
terra, con il trionfo del Bene e delle virtù cristiane: “Se il Paradiso fosse
in terra, / mio Signore, /…/ senza la guerra, l’odio e il patimento, / qui tra
le povere cose, / tra l’erba fresca delle mie radure, / o sopra i colli, / tra
i papaveri, le spighe e le ginestre / ove io conobbi amore. /…/ Sparirebbero
dannati e qui tra noi dominerebbe aperto il Paradiso / col viso blu profondo ed
il suo altare / di giada verde come il nostro mare” (Gioachimismo). È l’umana nostalgia dell’Eden perduto dopo la caduta
iniziale, sempre secondo il racconto biblico.
Altri componimenti poi fanno
riferimento ad un mestiere di esistere, che occupò a lungo anche la riflessione
di Cesare Pavese - Il mestiere di vivere - da cui emerge un accentuato
clima di solitudine esistenziale: “Passavo la sera seduto davanti allo specchio
per tenermi compagnia”. Fuori da ogni equivoco, Pardini sa che esiste il
rischio della solitudine, ma sa bene anche che nessun uomo è un’isola e dunque
il suo ‘mestiere di esistere’ va in direzione opposta alle conclusioni dello
scrittore piemontese, abbraccia la voglia dell’incontro, di natura, di
meraviglia, di restare abbarbicato alla vita in ogni modo: “Ho conservato una
foglia; / svenata dall’autunno / si macchiava di sangue e non aveva più potere;
/ l’ho salvata per miracolo. / È lì in un barattolo / sotto vuoto spinto. /
Mantiene, sì, l’aspetto / di chi muore, / ma pur sempre un colore senza fine” (Ho conservato una foglia).
Ed anche: “Sarà solitudine,
/ sarà tristezza, noia, / sarà pesantezza per il bagaglio / dei ricordi che ci
portiamo: / la vecchiaia! / Ma pur sempre / l’unico mezzo, / il solo, possibile
mezzo / di restare più a lungo / a respirare la vita” (Sarà solitudine). Emerge il realismo dell’autore, impresso anche
sullo stile letterario qui opportunamente ad usum populi, ma per nulla
mancante di ampi respiri lirici, di vera poesia. Un realismo che si veste di
volta in volta di memorie domestiche e familiari, di momenti del quotidiano tra
suoni di campane e lavori nei campi, delle storie che potrebbe raccontare il
marciapiede, della scaltrezza del tempo che nasconde il suo trascorrere dietro
gli eventi della vita così che giunge la fine quasi senza preavviso, della
sottile ironia su funerali e morti... Il poeta traccia dunque un campionario di
varia umanità e molteplici atmosfere che letterariamente compongono una sorta
di ‘zibaldone esistenziale’ in versi, in cui, se volessimo cedere alle
formalità classificatorie delle tematiche, potremmo individuare due triadi
essenziali: vita-anima-destino e natura-memoria-amore.
Eccoci dunque a pedinare
l’anima del poeta per scoprire insieme a lui e alla sua ricca umanità quale
cammino s’intravede nella sua ‘realtà spirituale’: “…L’unica voce / che unisce
ogni elemento / è il momento dell’arte, / è il sesto senso / che l’anima /
possiede. / È nell’anima / la stessa geometria / molecolare” (La geometria che attorno si distende).
Una facoltà - il sesto senso - invisibile: invisibile, ma concreta, non
vi è alcuna contraddizione, perché produce elementi tangibili! Ogni poeta
profondo lo sa. Ed infatti nell’articolo del Corriere
della Sera citato in apertura, lo stesso Montale dichiarava: “Io sono un amico
dell’invisibile!”. Inoltre il poeta ligure sosteneva che la poesia tende a far
intuire quel quid in più che le sole parole non riescono ad esprimere. E
Pardini cosa fa? Ascoltiamolo: “Ho pescato con la rete dell’anima / rumori
nell’oceano del blu stellare. / Non sono affogati, / li ho mantenuti in vita /
nel vivaio della poesia” (Ho pescato con la rete dell’anima). Con linguaggio
analogico ci dice come le sensazioni dell’anima, invisibili, diventano poesia
attraverso immagini che vanno oltre la parola. Lo stesso processo avviene in
altra lirica, quando è certo dell’esistenza del soprannaturale ascoltando la
musica di Puccini.
L’anima non è dunque per il
poeta un concetto filosofico astratto, definito attraverso speculazioni
teologiche o teoretiche, ma un’energia vitale capace di penetrare in ogni
dimensione dell’universo e dell’esistenza, quindi anche nella natura e nel
sentimento. È una facoltà della personalità che potrebbe stare tra la voce
interiore del fanciullino pascoliano e gli stimoli dell’elan vital bergsoniano.
Nella sua visione la natura non ha fine, possiede una vita immortale, è un
eterno divenire: si rinnovano sempre le stagioni, i colori, le fioriture, i
canti e il suo giorno non muore; essa possiede un’armonia che lega insieme
tutti gli elementi. Le immagini sono quelle della sua terra: il colle, il
bosco, il rustico, il cipresso solitario, il callare (viottolo di campagna), il
mare, il molo, il maestrale… Il canto d’amore ha qui brevi pennellate liriche;
dipingono il sogno di un’isola fatata, le fantasie di storie giovanili da
inventare con l’amata: “… E col sorriso l’isola accoglieva / solo utopie
forgiate per amare” (Stai qui con me);
dipingono l’immancabile connubio fra amore e luna: questa comanda il mare,
quello il cuore; dipingono ancora il suo potere anche nei confronti della
morte: “Pare un’inezia / il peso della fine / se guardo gli occhi tuoi su me
posati…” (Pare un’inezia). Per una
più approfondita conoscenza della poesia amorosa di Pardini rimandiamo al suo
libro I dintorni dell’amore ricordando Catullo (2019), con prefazione di
Rossella Cerniglia, la quale sottolinea “una concezione dell’amore fortemente
idealizzata”.
Nel frattempo viviamo presenta una seconda parte a cui
l’autore ha dato come titolo: Dal serio al faceto. Dal sacro al profano. Egli
dice delle liriche di questa raccolta: “Tante portano come titolo Il fatto… Per me è una silloge un po’ diversa
dal mio stile: poesie brevi, apodittiche, attuali, e soprattutto motivate da
fatti concreti”. Oltre a questo genere vi troviamo anche composizioni che
assomigliano a massime, aforismi, detti, proverbi con strofe e rime libere in
sciolti versi armonici e sonori: non ci è dato sapere se d’invenzione del poeta
o se anche ispirate alla tradizione popolare. Fatto sta che sono veramente
facezie godibili che portano al sorriso, oltre che alla riflessione o ad una
morale sottesa, come spesso succede per questo tipo di scrittura.
Letterariamente esse sono, a mio avviso, collocabili in quel filone burlesco
toscano di lunga data, che va da Cecco Angiolieri al Giusti, variamente
definito dalla storiografia come ‘realismo comico-sarcastico’ o ‘scherzo
satirico’: tutto ciò rientra pienamente anche nel temperamento di Pardini,
sempre duale - come lui stesso ha scritto - tra serio e faceto, fra sacro e
profano; ed io aggiungerei tra intellettuale e concreto, spirituale e
materiale, ideale e possibile.
Tra i motivi più ricorrenti
citiamo la vita, l’amore, la gioia, il destino, la speranza, il vino, la
solitudine, la morte… ed un paio di esempi per carpirne il clima: “È come un
lecca lecca, sai, la vita, / finito non ti resta che lo stecco, / non te ne fai
di un becco, caro mio!, / gustala bene prima sia finita” (È come un lecca lecca). “La milza, la pancetta, la coratella, / la
bazza, il calcagno e le budella / si lamentano in continuazione / perché messi
in un cantone. / Per non parlare poi della chiappa e del rognone. / L’autore
cita sempre nella poesia / cuore, occhi, bocca, crini, anima mia, / e in
disparte lascia sempre la plebaglia. / Gridano adirati: «L’autore è una
canaglia!»” (La milza, la pancetta, la
coratella…).
Nazario Pardini, un poeta
infine che sa anche uscire da ambienti e modi accademici per andare incontro
agli uomini e condividerne il destino, nel profondo dell’io, nelle relazioni
con gli altri, nel mistero “del cammin di nostra vita”.
Enzo Concardi
Prefazione
a
Lettura di testi di autori contemporanei
di Nazario Pardini
Pasquale Balestriere
Questo
libro contiene e riassume l’impegno esegetico e critico fin qui espresso e
coltivato da Nazario Pardini, poeta e scrittore pisano di Arena Metato; e,
nella parte finale, si arricchisce di contributi critici redatti da autori vari
sulla cospicua e cattivante produzione poetica di questo nostro versatile
artista.
Partiamo da qui, dalla generosità. Ne è
pervaso Pardini, non solo perché aperto a ogni esperienza di lettura, ma anche
per una disposizione mentale e culturale che lo impegna a corrispondere sempre
positivamente a richieste di prefazioni, recensioni, note critiche; come sarà
facile verificare a tutti coloro che avranno il privilegio di sfogliare questo
volume.
Relativamente al primo aspetto, in
quest’epoca in cui il contatto con le opere letterarie - e con la poesia in
particolare - è così asfittico ed epidermico, credo che sia molto improbabile
imbattersi in lettori propensi a vivere con pienezza di cuore ogni avventura
dello spirito e dell’intelletto che un testo poetico (nella sua accezione più
ampia) offre, fidente, al fruitore.
Ma, e siamo all’altro aspetto, Pardini è
scrittore di tanta disponibilità, nobiltà e apertura mentale che mette a
disposizione di chiunque lo chieda il suo contributo esegetico, la sua saggezza
critica, la sua sensibilità e finezza valutativa, in una parola, la sua
ricchezza culturale.
In questo libro c’è tutto questo. E
molto altro. Per esempio, il metodo critico.
Funziona così: Pardini lettore si immerge
nel testo con la sua fiduciosa curiosità
intellettuale, caratterizzata - se così posso dire - da un ampio orizzonte
d’attesa, ossia da una sua sicura disponibilità a positive rispondenze. E
subito, per la passione che lo contraddistingue, intesse con l’opera (e con
l’autore che vi è sotteso) un franco colloquio, instaurando un accurato
confronto per indagarne ogni aspetto, ma innanzitutto per coglierne l’essenza e
rivelarne la pregevolezza e la bellezza. Perché a me pare che nell’indagine
pardiniana, per la conformazione intellettuale e per l’humanitas dello scrittore toscano, l’aspetto estetico abbia qualche
prevalenza sul dato puramente critico. Sicché il testo ri-vive, si ri-anima in
tutta la sua sostanza e potenzialità creativa, fonica e cromatica. Il fatto poi
che il Nostro sia dotato di spiccata sensibilità artistica e abbia dalla sua
una lunga militanza poetica (occorre forse ricordare qui che la sua doviziosa e
fascinante produzione lirica si sia coagulata in più di venti pubblicazioni?)
gli consente di individuare elementi e risvolti che sfuggono talvolta anche a
critici particolarmente avvertiti. Ad esempio, per capire fino in fondo un
testo poetico, è indispensabile il momento emotivo che colloca il lettore sulla
stessa lunghezza d’onda del poeta: giacché l’atto critico non è semplice e
fredda esercitazione autoptica, ma commossa e tuttavia serena indagine
testuale. E a Pardini non fa certo difetto la capacità di vivere intensamente
le emozioni, a patto che l’opera in esame sia in grado di risvegliarle. Sicché
la vera forza della sua indagine critico-estetico-esegetica sta proprio nella
spiccata potenzialità intuitiva e nella perspicua sapidità disvelatrice: le
quali trovano nutrimento in un humus
culturale ampio, ricco e fecondo che fa capolino ad ogni riferimento o
citazione, ammicco o chiosa. Ne consegue una lucidità di giudizio davvero
encomiabile che tiene da conto ogni testo nella sua completezza, compresi
quegli aspetti che a un occhio piuttosto superficiale possono apparire
secondari o addirittura trascurabili, come, nel caso della poesia, aspetti
retorici e metrico-ritmici, e perfino tratti soprasegmentali, sfumature
fonosimboliche, rilievi filologici.
Insomma, sotto la mano sapiente di
Pardini il testo s’accende, spiega pienamente la sua vita e, ricco di tutte le
sue potenzialità, raggiunge il lettore con la sua intrinseca forza e grazia
suasiva.
Far
rivivere il testo. Questo in fondo si richiede a un esegeta, a un critico
letterario, a un ermeneuta.
E
questo fa Nazario Pardini.
Pasquale
Balestriere
PREFAZIONE DI ANTONIO SPAGNUOLO
A
NAZARIO PARDINI: I CANTI DELL'ASSENZA
Immergersi quotidianamente nelle onde
magnetiche della poesia, quella che rimane indelebile e profondamente incisa
nella nostra memoria, per un non so che di misterioso e di affascinante, di
melodico e di ancestrale, appare quasi sempre come una illusione che il nostro
sub conscio incamera per elaborare e riguadagnare particolarmente ad occhi
chiusi lo spazio tempo protagonista della scena esistenziale. Il poeta cerca di
allontanare la discontinuità che nasce involontariamente dalle immagini, come
colore e suono, per rimodellare il simbolo tra la realtà e le singole
stravaganze del quotidiano. In presa diretta, senza troppi tentennamenti, il
racconto che Nazario Pardini ricama reca un marchio di fabbrica inconfondibile,
e gli scatti in avanti stimolano un inanellato imprimere delle
intensificazioni, un tentativo per allontanare da sé ogni falsificazione del
rito, scandagliando nei ritagli della speculazione ritmica. – Il canto nasce
già variopinto, con una elegia che apre alla visibilità dei sentimenti, mediante
incipit ed incisi di una esperienza che attinge ai ricordi e continua nelle
immagini. “… Quante sono le sagome sperse/
per strade, per monti,/ sobborghi,
marine,/ quante ombre su terre diverse/ a me sconosciute./ Quasi tutto nel
nulla s’adagia/ e in me che un
notturno/ scolora/ perfino il ricordo vacilla.” - Le memorie si perdono
purtroppo nello scorrere inesorabile del tempo, di quel tempo che ci rende
sempre più vulnerabili ed irriconoscibili a noi stessi, sperduti nello sguardo
di chi vorrebbe comprendere e descrivere con più profonda cognizione il
susseguirsi dei frantumi, un privilegio che integra le relative apparenze e
provoca il privilegio della espressione, sotto una normalità più o meno
apparente che si avviluppa a scansioni alternando interruzioni, sconnessioni,
disinganni – “Non
sarà più la sera che calante/ annuncia
solo un giorno che va via/ coi suoi
colori vecchi. Declinante/ il segno
non sarà della mia vita/ volta a
rammemorare. Alla natura/ riaprire
le finestre di un ostello/ non varrà che annunciare alle mie mura /colori di
serate ritrovate.” - Il poeta sa che è arduo essere classicamente
contemporanei, ma sa anche che al giorno d’oggi non può fare a meno di esserlo.
Di qui la sua ricerca lucida e appassionata che attinge nello straripare
dell’assoluto, con richiami al quotidiano, con richiami a ricordi, con richiami
a fantasie trascorse. Leggendo
queste poesie si ha come la sensazione che non sia più possibile fare poesia
oggi se non aderendo a quel programma espresso così bene agli inizi del
Novecento per una «poesia da camera», dove l’occhio avesse anche una sua parte
rispetto a quella svolta dalla funzione acustica, ancora inebriata da quella
energia mitica, che dava, un tempo lontano, senso alle grandi narrazioni. Nel
nostro tempo ci sforziamo di rinvenire il pulviscolo dell’io, mescolato a tanti oggetti tecnologici,
virtuali e non. Le riflessioni, le visioni, i segni colorati: realizzano un
album di ritratti-digressioni che s’inseguono, una capsula di polveri variegate, dove ciò che si vuole comunicare
al lettore è il continuo rimescolarsi degli atomi del vissuto, del pensato e
delle associazioni mentali, ossia molto spesso felice aspirazione all’empireo. La sottigliezza del segno verbale, una
sottigliezza che corrisponde ad una acutezza dell’ impegno del cuore e alla
capacità di cogliere il senso nascosto delle opere giornaliere e dei loro enigmi, svela gli intenti creativi
di Nazario. Una poesia dagli scarti umorali, soprassalti, tensioni,
discordanze, che cercano intrecci sorvegliati, impennate dell’io, registri
multiformi e cangianti.
Ancora la memoria lavora di cesello, realizza
riprese scandite attraverso un ritmo semplice, un ludico corrodersi del
pensiero, un contatto continuo con le emozioni, una sintassi delle osservazioni,
il comprimere nel ritmo un diaframma che possa svelare ogni sussulto del sub
conscio. “Begli occhi che
incantate,/ voi splendete del
mistico lucore/dei ceri accesi meridiani; il sole/ affoca, ma non lede quella
fiamma/fantastica; essi celebran la morte,/
voi cantate il Risveglio; ed incedete,/cantando il risveglio dell’anima
mia,/ astri che alcun sole può offuscare!” – Il canzoniere si arricchisce
risalendo sino alla delicatezza fulminea delle apparizioni, nella scelta di un
prestito dalla vita per verificare ciò che viene messo in scena dalla vita
stessa, virare entro uno spazio di finzione per consentire ai suoni di superare
la rete dell’abbandono. Così i mistici rintocchi dell’occaso esplodono nella
teatralizzazione di alcuni versi scritti per Baudelaire (Rivelazione ), per
Rimbaud (Battello ebbro), per Verlaine (Grotteschi), ove brillano le scelte
musicali, nella traduzione libera dei testi. Anche il paesaggio, i luoghi della
gioventù, le mura del rincorrersi, ritornano nei versi incastonati per illuminare
trasalimenti biondi di grano, macchie di ginepri, ondulazioni di nubi, la
collina dal grande piano azzurro, la pineta, lo stormo dei piccioni, e rivelano
nell’autore la scelta del doppio codice che si libera nell’utopia o incalza nel
relativo controllo della ri/costruzione.
Non vi è un campo di preferenze lessicali, ma un approdo sicuro che al
poeta rimane dopo una sofferta proiezione nei suoi ciclici ritorni: le cadenze
che fanno riemergere la voce in quella densità di intonazione che appartiene alle
metafore pregne di rappresentazione. Un
tentativo di mantenere – quasi in forma di compromesso – l’immagine al riparo
dall’erosione temporale; senza tuttavia farla scomparire nella dimensione non
temporale, e perciò sempre un poco astratta. Non è una scrittura incline a
rinnegare la sua provenienza per farsi custodia di un ricordo. Al contrario, i
versi sono consapevoli del duplice rischio cui si espongono – svanire nel tempo
o ridursi a un «senso» astratto; perciò non esitano a frantumare se stessi per incidere
risuonando. Il titolo del libro vorrebbe indicare al lettore il tentativo di
ritrovare quelle cose che si sono magicamente allontanate, ma in gioco
c’è una elaborazione profonda, fatta di metafore ed astrazioni, che modifica le
proporzioni e le aspettative. Ecco quindi l’idea di una scrittura laboriosa e
ricercata, i segni che vorrebbero rinunciare a farsi verità al posto delle
immagini, rifiutando di sostituirsi all’immediatezza della visione e creando
una dimensione altra.
Raramente la poesia può permettersi di gareggiare con
l’esperienza. E l’esperienza diventa vita subito, bruciando il perché della
vita stessa fuori da ogni asprezza che nulla ha a che fare con il realismo, con
qualsivoglia realismo.
“… Ed è il cielo che crea quella
gioia,/ proprio quel cielo/ a cui lo sguardo alziamo raramente/ intruppato in
una morsa di fanghiglia./ Se forse
gli levassimo le braccia/ per
scenderlo fra noi,/ se tutti quanti
alzassimo le mani/ per cogliere il
suo immenso/e riportarlo a terra,/il nostro volto si farebbe blu,/ blu come gli
occhi/di un largo mare azzurro/che rassomiglia tanto a un verso immortalato...”
– La distanza, devota ed affidabile, attraverso il filtro della devozione,
avvolge in un alone di mistero, che potremmo riprendere nella intemperie
sentimentale, nel tessuto della speranza, nel coinvolgimento dello scambio
della fantasia.
Antonio Spagnuolo
Antonio Spagnuolo
22/1/2013
Prefazione
di
Sirio Guerrieri
a
La vita scampata
di
Nazario Pardini
-Puntuali, assorbenti alcuni momenti d’arte barocca, assorbente l’immagine di un antico quadro: “L’Estasi di S. Teresa”-.
Rileggo una pagina di Giacomo De Benedetti e la riassumo consapevole del rapporto di analogia tra poesia del ‘600 e la letteratura romantica, della quale la nostra lirica novecentesca non è che l’estremo, estenuato, ma coerente epilogo arricchito di una sensibilità più immediatamente spontanea e vibrante.
Giacomo De Benedetti dunque annota che il carattere dominante comune a tutta la poesia del ‘900 è proprio questa contraddizione immanente all’interno dell’anima umana, questa inconciliabilità tra apparizione sensuale delle immagini e l’imporsi delle loro forme alla vista, all’udito, a tutte le nostre facoltà sensitive e sensoriali e il loro negarsi al nostro bisogno di conoscerne il significato.
In altri termini nella poesia del ‘900 si assiste (come in genere nelle arti seicentesche) all’alleanza dei sensi con l’esperienza del trascendente, col contatto dell’assoluto e dell’eterno che è tipica dei processi mistici, nei quali il massimo della spiritualità si rivela associato al massimo della sensualità, come proprio appare nella lirica e nella pittura e nella scultura dell’età barocca.
Pensavo appunto a questi giochi analogici leggendo le poesie di Nazario Pardini, intorno al quale l’unanime giudizio dei critici sembra privilegiare le zone-rifugio della sua anima immersa nel sensibile memoriale, ma anche protesa verso spazi eterni.
Nazario Pardini appare, in questa prospettiva metafisico-mistica alunno non solo di molte scuole italiche e non italiche, particolarmente di Rimbaud e Mallarmé, ma anche di molti consonanti momenti lirici che esaltano la perennità della memoria fatta presenza reale e di presenze che si trasfigurano e sono rese stabili ed eterne dalla perenne creatività della memoria visionaria, che imbalsama vicende, stati d’animo, modi di essere, immagini sensibili, vertigini di infinito leopardiano e li sottrae alla labilità del tempo.
Pardini si muove nel solco della tradizione toscana e obbedisce ai richiami delle “Voci della sera”. Floriano Romboli annota: “Pardini non nasconde il legame profondo con la campagna, anzi ne sottolinea la essenziale rilevanza nella sua vicenda personale”, in conformità, aggiungiamo noi, a certi remoti topi che gli giungono dalla Provincia letteraria, da Paolieri, da Tozzi, da Pea e, per uscire dal Pisano, da Renato Fucini e da Icilio Felici.
Il ritorno a “Strapaese” è certamente uno dei momenti più tonificanti della poesia dei tempi del “Selvaggio” di Mino Vaccari e Malaparte, al “Figlio del Pastore” ai “Vageri” Vianeschi, all’opera narrativa di Bino Samminiatelli. Se poi a queste suggestioni regionalistiche, peraltro liricizzate da Pardini, si aggiungono i fatti che il nostro poeta è professore di lettere a Pisa e i richiami che gli pervengono da antiche testimonianze esiodee, teocritee, virgiliane e catulliane, che attraversano come filoni luminosi la sua formazione culturale, il quadro si integra di una reverie georgica, di una sommessa risonanza di memorie, di voci, di immagini che consente alla poesia di essere documento di vita e di cultura, di parlare, leopardianamente, in nome della natura, di essere la via temporale e documentaria verso un adempimento di memorie sopravvissute, purificate dalla lontananza, in un presente di contemplazione serena e di gradevole pathos nostalgico.
Pardini vive ad Arena Metato in mezzo a campi coltivati bagnati dal Serchio, delimitati dai Monti Pisani, tra la pineta e le estreme orientali spiagge versiliesi tra soffi di resina e mare.
Da questi rimasugli di civiltà rurale, ricchi pure delle suggestioni letterarie del dannunziano “Alcione”, sotto lo stimolo creativo di una memoria visionaria, riemergono attimi rifatti vergini e nuovi da una sottile e curiosa introspezione psicologica capace di ricuperare frammenti di vita, cadenze di canti popolari persistenti e immanenti, incollati a moduli categoriali, essenziali, di una sensibilità fertile e prensile, impossibili trame di enigmi esistenziali, fremiti naturalistici, indugi estatici, soprassalti di stupore e di pathos, aneliti di vitalità spirituale e fisica, rimandi di echi inteneriti e stregati, valenze simboliche, illuminazioni e meditazioni sofferte in una dimensione lirica ingenua e sognante.
Ripenso a questa raccolta di Nazario Pardini come prova documentaria di verità e di cultura, di poesia portatrice di valori che sono antidoto all’indifferenza, che si alimentano di passioni etiche e di coscienza critica, filtrata attraverso una interiorità delusa dai comportamenti di una società che vive di artifici e vane trasgressioni, di allucinazioni lontanissime dai valori, dai simboli del sentimento della natura, invasa e soverchiata da ideologie e tecnologie. Pardini contrappone la sua offerta lirico-esistenziale, il tentativo di superare il contingente, il sensibile, gli aspetti immediati del suo mondo, delle sue radici, a questa società che frastorna e capovolge i significati delle cose e li mescola ambiguamente, ama più le tenebre che la luce, non intende venire a capo dei bandoli opposti di matasse intricate.
Così questa democrazia appare sempre più chiaramente fondata sui disvalori, sui “commoda” e sempre più invadente la sfera privata, sempre più scandalosamente totalitaria.
La specificità di una visione critica, le evasioni nella lirica pura danno il senso della diversità di fondo dei costumi, dei moduli di cattivo gusto e di cattiva coscienza che lacerano la vita contemporanea.
Il linguaggio è vivo e allusivo, ricco di istanze verbali popolari tendenti al fugurativo, al simbolico, al colore che viene, per le vie dell’inconscio e di una razionalità lirico-ancestrale, dal sussultare di ogni corda, dalle composizioni sinfoniche di cromi teneri in germoglio vibranti di echi di memoria, di lontani sibili di pene, di pietre e di scaglie legnose che si sfaldano al sole e al gelo della terra.
Quello che rimane a Pardini è quello “che è scampato” alla rapacità del tempo e degli eventi, la capacità di condurre la sua reinvenzione riflessiva e memoriale elencativa e diaristica, tesa, ma fondamentalmente colloquiale, intessuta di ritmi che non disdegnano l’ausilio melodico della rima, al di là dei grovigli del quotidiano, delle esperienze sensitive, per tragitti interiori che inverano condizioni d’animo, approcci poetici densi e intensi.
Pardini tramuta leonardescamente, il mondo esterno in personali moduli mentali, si fa interprete tra natura e arte, perché la poesia è sempre qualche cosa di più della realtà che esprime e di quanto il lettore più impegnato possa già sapere. Poesia, dunque, quella di Nazario Pardini, come “Vita scampata” come ripensamento e conoscenza dell’oltre, come percorso “Au rebours” di repéchage di immagini degne di esistere alla stregua di quelle memorie incastonate nella Storia e rievocate dai “cocci” presenti sulle “Terre del silenzio”.
Sirio Guerrieri
Prefazione
di
Elio Andriuoli
a
L'azzardo dei confini
di
Nazario Pardini
Quelle che Nazario Pardini raccoglie in questo libro sono le poesie con le quali egli compie il consuntivo di una vita, gettando lo sguardo sul tempo trascorso, nel tentativo di recuperare giorni e stagioni, per ritrovarne l’antica virtù. Ma sono, queste, anche poesie ben volte sul presente, al quale si aprono con giovanile entusiasmo e vigore.
Ciò che subito colpisce in lui è l’incisività di certi versi, limpidi e intensi, la composta virtù di uno stile classico e moderno ad un tempo, che avvince con la felice inventiva delle immagini e la netta scansione dei ritmi.
Particolarmente significativi appaiono qui taluni incipit, per la loro immediatezza, così come taluni explicit per la loro netta perentorietà. Si vedano, ad esempio, tra i primi: “Antichi svoli tra i giganti platani / vibrano cinguettii sulle panchine” (Piazza Santa Caterina) e “Autunna. Eppure verzica / al volto chiaro della luna piena / il sentiero degli elci” (Autunna); e tra i secondi: “Fu presto primavera ed i ricami / tracimarono all’asolo di maggio” (Salmodiava la Bibbia) e “«lo sapevi che è morta zia Rosina?» / Mi disse mio fratello. Era di marzo” (La vecchia zia). Ma un po’ dovunque s’incontrano in questo libro versi memorabili per novità e freschezza della resa lirica.
Molteplici sono poi le “occasioni” che danno luogo a queste poesie. Esse vanno dalla meditazione su un frammento di Eraclito: “E tutto scorre portandosi dietro / il dolore, la gioia, il bene, il male, / i lampi superbi dei cieli di luglio…” (E tutto scorre) all’affiorare del ricordo di una giornata felice: “Andammo a Siena quel giorno. Settembre / sospirava i suoi colori Limonges / e proponeva viali decadenti / a noi abbracciati ad un’aria serena…” (Insieme a Siena); dall’evocazione affettuosa della figura paterna: “Per chiederti perdono, padre, / sono giunto a questo marmo ormai ingiallito / dai rivoli del tempo” (Perdono padre) al triste riaffacciarsi di certe tragiche immagini del dopoguerra: “… uno dei nostri amici / ci venne incontro gridando che Franco / era stato colpito da una mina / (gli brillò tra le mani)” (Era un giorno di luce); dalle calde parole rivolte alla sua donna: “E tu Delia mi appari in nuova veste, / involucri il mio amore, tutto quello / che la tua immagine dice: i capelli / si confondono ai grani, la tua bocca / mi chiede primavere, ed i tuoi occhi / mi parlano di mare…” (A nuova vita) al pensiero affettuoso rivolto alla propria terra: “Ho trascorso la vita nella mia / sorridente campagna” (Forse l’anima); ecc.
Ma s’incontra in queste poesie anche la suggestione del mito, come avviene in alcuni testi, quali Alla battigia (dove viene ricordato Enea), o Per respirare assieme alla mia terra (dove viene rievocato il mito di Dafne). Così come s’incontra la dialettica serrata dei Dialoghi: dei veri e propri poemetti in forma dialogata, di cui ricordiamo L’anima dell’ancella e il re e Dialogo sul suicidio tra un filosofo e un gesuita, nei quali si dibatte, con toni alti, di importanti problemi, come quelli della sopravvivenza oltre la morte e della legittimità del suicidio, come estrema espressione della libertà individuale.
La limpida freschezza del verso è invece propria dei Canti Larigiani, che prendono il nome da Lari, un antico borgo situato nei pressi di Pisa, e famoso per i suoi pittoreschi dintorni.
Sempre viva è inoltre in questo libro la nostalgia per il tempo andato, che dischiude i suoi sortilegi, senza però che il poeta si lasci vincere da una troppo greve tristezza, perché Pardini è un uomo che ama la vita e sa scoprirne ognora il bene che essa sovente nasconde, ma che pure a tratti ci dona.
Basti guardare all’entusiasmo col quale egli contempla la natura e gode di ogni suo aspetto, colto in maniera autentica e non convenzionale. Vi è infatti in Pardini il vivo sentimento della terra, percepita come creatura vivente, che egli ama in tutte le sue epifanie e nei suoi sentori intensi e struggenti, che è proprio di chi ha a lungo soggiornato in campagna e dalla campagna ha tratto nutrimenti non soltanto per il corpo, ma anche per lo spirito.
Si guardi, ad esempio, alla vicenda delle stagioni, che si susseguono, recando ciascuna i suoi incantesimi e la sua letizia agli uomini che ne godono e ne sono partecipi: “Oggi è d’agosto e cade giù dal cielo / un’abbondante pioggia” (L’odore della pioggia); “Il cielo è terso e il bianco della luna / quasi innerva i miei campi” (Ignoto verso il mare); “Sulla spiaggia d’inverno perfino i gabbiani / si confondono col vento” (Il mare d’inverno); “Era settembre. Dall’aria malata / ci giungevano suoni vagabondi” (Era settembre); ecc.
Pardini dimostra inoltre in queste poesie di possedere una non comune perizia tecnica nell’uso del verso che, partendo da una base endecasillabica, sa poi assumere molte variazioni, senza mai stancare il lettore. Basti guardare a come egli sappia passare dal verso di undici sillabe al settenario, al senario, al quinario e poi all’ottonario e al decasillabo con estrema facilità; e come sappia adoperare differenti forme prosodiche, passando dalla lirica in versi sciolti al sonetto; dall’ode alla poesia dialogata, assecondando le diverse esigenze dell’ispirazione. Si veda inoltre come egli sappia avvalersi della rima per collegare i versi, creando effetti musicali di notevole efficacia e come sappia far un uso sapiente dell’enjambement: “Ma forse è della gioia / che non parlai abbastanza. La provai / senz’altro nell’amore, nell’ascolto / attento e prolungato di quel mondo / che generoso aprì i suoi incantamenti / a me che lo ascoltavo” (Canto irlandese).
Un canto aperto quello di Pardini, ma controllato e senza cadute, che sa trovare il giusto equilibrio tra l’espressione immediata del sentimento e il fren dell’arte; tra l’emozione e la sua compiuta espressione; tra musica ed esigenza narrativa; tra l’urgere del contingente e la meditazione sui problemi eterni dell’uomo.
Quanto alla forma espressiva, è da osservarsi che Pardini fa uso di una lingua agile e varia, dove la parola colta e quella del quotidiano armoniosamente si uniscono, con scioltezza e felicità di risultati poetici e dove l’urgenza dell’emozione viene fermata con precisione e nitore: “Sapido il vento d’erba che recisa / porta l’aria del piano” (Sapido il vento); “I tremiti d’autunno si dilatano / rochi” (Sera d’autunno); “Rientrano da luci consumate / gli uccelli tra le fronde della sera” (Primavera); “Guardo oltre il muro. Tento inutilmente / di rendermi tutt’uno col mistero”; ecc.
A lettura finita, si ha l’impressione di aver incontrato un uomo e un poeta vivo e vero, capace di esprimere le proprie emozioni in maniera compiuta ed efficace, così da trasmetterci dei sentimenti autentici, che quasi sempre raggiungono la compiutezza dell’arte. E ciò è in poesia, come in ogni altra forma espressiva, quello che veramente conta.
Elio Andriuoli
Innesti d'anima
Prerfazione
di
Floriano Romboli
a
Il fatto di nascere umani
di
Nazario Pardini
È un tratto significativo della poesia di Nazario Pardini l’attenzione spiccata e diffusa per la natura, al cui ritmo armonioso, alla cui vitalità tonificante l’autore vorrebbe abbandonarsi, in un moto di totale oggettivazione della condizione emotivo-psicologica:
“Mi soffermavo ai bei freschi intrecciati
dal refolo estivo e allungavo a perdita
d’occhio lo sguardo a un orizzonte largo
e circolare che assorbiva il mio
essere e m’immergeva in uno stato
d’assenza totale. Dimentico di
me, amalgamavo il mio sentire al dolce
profumo dei tigli o all’azzurro che
lontano si confondeva ai crinali
dei monti...” (Mi era caro, vv. 6-15, corsivo mio).
Nel testo citato risulta evidente la funzione lirico-compositiva e meditativa dei numerosi enjambements; è proprio di tale procedimento stilistico-metrico spezzare l’unità sintagmatica, non sconvolgendo il discorso logico, ma sottolineando la densità, ora concettuale, ora sentimentale, delle componenti dell’articolazione sintattica, che appaiono rilevate ( e quindi parzialmente isolate) all’interno della normale scansione del verso. Nella sequenza franta che mi è occorso di corsivizzare è contenuto un cenno fondamentale alla situazione problematica che spiega la conclusine di questa poesia:
“.... Restavo imbambolato.
Poi ad un tratto per lo schiocco di un volo
o lo stridere di un carro sul viale
uscivo da questo stato d’ipnosi.
E dalla fuga
mi rincasava l’anima” (ivì, vv. 26-29).
Il “rincasare dell’anima”, il ritorno della consapevolezza intellettuale descrivono efficacemente la peculiarità della posizione dell’uomo nell’àmbito dell’ordine della natura. Animale al pari degli altri e come gli altri partecipe, in forza della sua fisicità, di una realtà biologico-istintuale che rivendica spesso in lui la comune appartenenza (”Dentro noi/sparirebbe il mistero del fiume/incavato nel tempo. E la natura/direbbe con voce tremante/occhi e emozioni/per farsi confidente”, Mi piacerebbe tanto, vv. 5-l0), esso tende irresistibilmente a distaccarsi dall’ universo naturale, in un processo di differenziazione, che è conseguenza della sua capacità di elaborazione critica del dato fisico e di transvalutazione morale della semplice materialità del vivere:
“Se penso, seduto su questo
scoglio solitario, al fatto che la
vita mi si è data ed io ne vivo il
frangente irripetibile, l‘idea
insistente della casualità
di un dono così raro
e prezioso, mi rende immensamente
godibile anche il vasto orizzonte
nel suo approdare odorato di mare
al declino propenso al naufragio” (Dichiaro di esistere, vv. l-l0).
La coscienza esistenziale, che si realizza allorché la tensione etico-intellettuale investe e trasforma l’esperienza indifferenziata e sulle circostanze scontate e impersonali ”s’innesta l’anima” (”Freme l’aria/ed i raggi si stancano/sopra l’azzurro.(...) Se profonda/è la marina, l’anima s’innesta/su questa sera annaffiata di cremisi/ e cobalto...” Dal molo w. -5; 8-11, corsivo mio), rappresenta la scintilla divina, quel che di miracoloso ed esaltante è insito nel “nascere umani”; ciò costituisce un privilegio, ma è anche fonte di tormento e di grave responsabilità: ”Sono sicuro! Dichiaro di esistere/però che impegno/che peso determina il pensi- ero” (Dichiaro di esistere, w. 17-18). E dalla duplice sollecitazione di un appassionato amor vitae e di un’esigenza interrogativa e riflessivamente raccolta si produce la struttura formale di un complesso di testi originalmente animati da una serrata dialettica di estroversione esuberante, di fervida apertura sui molteplici aspetti e sui tanti episodî della vicenda naturale (il fiume, il mare, la campagna, l’alternarsi delle stagioni), e di introversione e di distanziamento indagatori, vòlti alla ricerca di un significato ideale-morale, di un senso razionale per l’esteriorità ripetitiva e le ovvie apparenze di una realtà consueta. Tale dialettica si concretizza linguisticamente in un doppio registro stilistico-espressivo, non nuovo nella poesia pardiniana, ma ora privo di dissonanze, assai fuso e ben amalgamato; voci di un lessico ricercato, di matrice aulico-illustre (”rezzo”, “carole”, “celicoli”, ”erbali silenzi”, invanire”, etc. ) si uniscono a vocaboli tipici della comunicazione ordinaria, magari localistico-dialettale (”ingollare”, ”sgola”, “bulicare”, “buttate”, ”sciabicando”, ”accileccolate”, etc.): il primo livello è il contrassegno di un’inclinazione astraente, di una vocazione teoricamente definitoria, il secondo di un’immedesimazione rigenerante; se quest’ultima scelta indica un franco e appagante incontro con la vita (”Sì!/saremo inebriati e confusi;/ascolteremo solo suoni/di un’aria che ci ruba. Vieni, andiamo!”, Vedi. La vita è questa, vv. 19-22), l’altra si risolve in uno scavo critico culminante in versi di grande, sintetica incisività (“È inspiegabile questa crescente attrazione./Il morboso desiderio del ritorno”, L’antico profumo di gramigna, w. 10-11); (“Il cielo abbevera attese irrequiete”, Forse è meglio serbarne ricordi, w. 12); (”Non avrò più ricordi/la memoria risale dalla morte” , ora che un velo malizioso di seta, w. 17-18, corsivo nel testo). Nei componimenti compresi ne Il fatto di nascere umani si verifica comunque un’interessante convergenza delle due istanze in precedenza evidenziate nella forma di una personalizzazione dell’esperienza vitale. Questa tende infatti a particolarizzarsi qui e ora, ad assumere contorni determinati, ben individuati, frutto dell’ “innesto dell’anima” del poeta: (“Se penso, seduto su questo/scoglio solitario...” Dichiaro di esistere, w. 1-2). (“Quando mi assali, sera,.../e zeppi di allungate/ombre i miei pensieri, quando infiggi/i tuoi tratti tanto labili nel mio/animo cosciente della sera”. Quando mi assali sera, w. 1; 4-7). (“La riconoscerai questa mia terra/ questa mia terra mia,/proprio dal mare./Da là vedrai lontano” La casa sulla collina, vv. 37-40, corsivi miei).
Il desiderio di radicare in una dimensione concreta e individualmente fruibile la dinamica vitalistica induce altresì il poeta a raccogliere tanti momenti spiritualmente preziosi nel ricordo; la concentrazione rievocativa ne distilla il valore e la collocazione nel tempo passato, attraverso il recupero memoriale, ne dilata la significatività morale “Ai freschi degli ulivi/cozzarono bicchieri i paesani,/aprirono la terra e stille di sale sulle labbra/ resero aspre al gusto/le gocciole del sole. Riecheggiarono/stornelli su queste inclinanze; gorgheggi/etruschi impigliati tra i sarmenti./Ricordo dolce il confondersi tra i pampini/di dita di perla, dì guance rubino” (I tetti_verde-ocra, vv. l5-23). Il naturismo lirico-evocativo di Nazario Pardini non conosce appiattimenti bozzettistici, rifiuta la compostezza fasulla e mistificante dell’idillio; la contemplazione dello spettacolo naturale offre all’autore l’occasione di puntualizzazioni problematiche talora inquietanti (“Mischiava un ricordo giocoso/a una tristezza inspiegabile/in fondo alla mia anima”, (Piccola luce_amica,vv. l0-12), di considerazioni accorate sulla contraddittorietà del reale, resa formalmente mediante il ricorso alla figura dell’antitesi:
“Non portò gioia per noi
l’ora della luce
pur se tememmo il senso della notte.
(Già agosto dissecca, vv. 9-13, corsivi miei).
Nei suoi versi s’insinua di frequente il dubbio, e la pienezza vitale rivela l’insopprimibile contrappunto negativo del nulla, non eliminabile né razionalizzabile, eppur attivo e disorientante:
“In me c’è il prima e il dopo, il divenire,
l’inizio, il suo finire;
c’è questo senso vitale; e anche se so
che il nulla ne fa parte
è il suo principio che mi tormenta;
un principio senza capo, un divenire
che è sempre fine, una fine che non ha fine” (Il nulla, w. 11-17).
L’estrema elaborazione del dettato stilistico, che il sistema delle iterazioni spinge ai limiti del contorcimento espressivo, attesta l’inesplicabilità del ”principio senza capo”; nondimeno se ne accetta infine l’angosciosa e misteriosa presenza (”Il nulla è fuori misura/di tempo e di luogo: è nulla;/non è umano, è troppo non umano”, ivi, vv. 8-l0), nella convinzione che il dono grande della vita - la fortuna di nascere umani -, nel suo insieme di letizia e di sofferenza sovente fra loro mal separabili,
può anche concludersi nella serenità e nella quiete:
“E … vittima di un’aria che mi ruba
perché non sperare che la sera
apra le porte a tanta quieta ambita”.
(Ora che un velo malizioso di seta, w. 21-23).
Floriano Romboli
Prefazione
di
Carlo Giuseppe Lapusata
a
D'Autunno
di
Nazario Pardini
Penso che il titolo sia, qui, non una generale connotazione descrittivo-coloristica, bensì il nocciolo emblematico della lirica unitaria di una raccolta che in parallelo svolge il gomitolo cromatico del paesaggio, dell’ambiente esterno e quello, più incisivo, interiore, di una visione personale (con un tocco di malinconia, che non raggiunge mai toni eclatanti e drammatici) dell’esistenza nell’uomo e nel poeta.“Il treno trasporta le sue storie”in questa stagione autunnale ricca di memorie, di timbri musicali, di aurore e di tramonti, dei colori sanguigni delle estati e delle pavide ombre autunnali, in un totale, georgico abbandono al mondo vero, genuino, agreste di una campagna sempre presente nell’anima virgiliana del poeta.Un paesaggio interiore, fatto di suoni ma anche di grandi, misteriosi silenzi, dentro cui avverti la presenza-assenza del divino. Memorie del passato come nostalgia di un mondo di odori familiari respirati nella pace silenziosa davanti al camino fumigante (sopra il cielo chiaro rilucente di stelle e un profumo di gigli, di asfodeli e crisantemi). Stagione di aurore e di sogni, in cui domina l’ “amor vitae” e dove l’essere si identifica col nulla, la luce con le ombre, il rumore gioioso, festante dei ragazzi e delle ragazze coi “tocchi del silenzio” di un quadro lirico dipinto con l’anima di una trepida e panica religiosità. L’autunno della trasfigurazione poetica è pausa di riflessione e di introspezione, per poter elevare un canto alla Natura, le cui assonanze e dissonanze sono il concreto, perenne fluire, senza sosta né requie, della vita. Il tutto è sapientemente orchestrato con versi di ritmica plasticità, col retroterra di una assimilata cultura classica, e una parola sempre vigile, attenta, sofferta e meditata, musicalmente armonica, che confluisce alla Forma della silloge pardiniana il diritto di elezione al Parnaso degli autentici poeti del nostro tempo.
Carlo Giuseppe Lapusata
Prefazione
di
Vittorio Vettori
a
Alla volta di Leucade
di
Nazario Pardini
Su Pisa, sulla multipla poesia e verità di Pisae Pisarum esistono innumerevoli referenze e testimonianze non solo classiche e antiche ma anche moderne e contemporanee. Ma nessuna credo, né tra le prime né tra le seconde, ha quel valore ultimativo e supremo di “giorno del giudizio” che dobbiam riconoscere al grande libro pisano di Rudolf Borchardt Solitudine di un Impero.
Borchardt è stato uno scrittore novecentesco europeo di lingua germanica, goethianamente legato al suo popolo e nello stesso tempo innamorato non meno di Goethe dell’Italia, da lui considerata rivisitata soprattutto nello specchio imperiale di Pisa, dove le suggestioni drammatiche della scultura di Giovanni Pisano trovano eco e riscontro nella “mirabile visione” (particolarmente cara a Borchardt, eccellente traduttore-interprete del poema sacro) di Dante.
Si aggiunga il peculiare talento narrativo dello scrittore tedesco, autore tra l’altro di uno straordinario romanzo uscito in anni recenti anche in italia presso le edizioni Adelpi e intitolato L’ospite indegno: e si potrà meglio capire come e perché Solitudine di un Impero abbia l’andamento romanzesco di un archetipico labirinto, con tanto di filo di Arianna internamente innestato nell’aria di una dimensione enigmatica, equivalente praticamente alla reversibilità del bellissimo titolo che potrebbe pertanto essere pronunciato e risolto come “Impero di una solitudine”.
Solitudine di un impero e impero di una solitudine: tale è la realtà bipolare in cui, parva si licet componere magnis, ho trascorso quasi trent’anni della mia vita (esattamente ventotto, dal 1949 al 1977), abitando prima in Lungarno Mediceo e poi in via Consoli del Mare non lontano da Piazza dei Cavalieri, dove adesso abitano mia figlia Cristina e i miei nipoti Sergio e Lucio impegnati, non diversamente dalla loro mamma e dal loro babbo Massimo Bontempelli, sul duplice fronte dal pensiero e della scrittura.
Sullo stesso piano, nel fare i conti con quel che resta di una solitudine e con quel che resta di un Impero, mi trovo grazie alla mia buona sorte, adesso che da più di vent’anni sono ridiventato “fiorentino”, alle prese con queste pagine di poesia altalenanti fra memoria e preannuncio, che mi regalano l’occasione di una simpatica e confortante “rimpatriata” pisana.
E questo perché?
Ma perché l’autore di dette pagine, Nazario Pardini, nato e cresciuto ad Arena Metato nelle immediate vicinanze dell’antica Alfea ribattezzata poi Pisae quasi si trattasse di una nuova Athenae e di una nuova Syracusae, è in realtà un Pisàntropo – avrebbe detto Roberto Ridolfi – come altri pochi, legato strettamente al nucleo genetico di quella solitudine e di quell’Impero di cui facevo cenno più sopra e a cui faremmo bene a richiamarci in concreto più spesso, noi tutti quanti Italici sopravvissuti, a qualunque titolo interessati a riattivare operativamente la nostra identità collettiva.
Pardini aggredisce la polpa di questa difficile identità da due lati distinti, rispondenti e corrispondenti a due versanti linguistici determinanti, che sono il versante aulico della tradizione letteraria più alta dove si usano ancora parole come “speme” e “spirito” e il versante che Floriano Romboli nella sua bella prefazione a Le voci della sera (Firenze, 1995) chiama tecnico-agreste (butti, frummia, vettino) e che riflette in realtà un “parlato” connesso con l’esperienza personale diretta e cioè con la comunicativa solitudine di un qualunque affiatato abitante dell’hinterland pisano.
Più volte nella produzione poetica di Pardini – e per esempio ne Gli spazi ristretti del soggiorno e in Suoni di luci ed ombre – ricorre non a caso la metafora pavesiana dei falò. E anche in questo Alla volta di Leucade i possibili richiami al poeta di Lavorare stanca non mancano, a cominciare dallo stesso titolo, in cui persiste probabilmente una vibrazione proveniente più o meno alla lontana dai memorabili Dialoghi con Leucò di Pavese. Il che non esclude che si possano trovare significativi collegamenti tra la posia del Pardini e la prosa di altri scrittori dell’area pisana come Bine Sanminiatelli da Prignano (non per niente con genialmente studiato da Floriano Romboli in un saggio esemplare) e Augusto Gotti Lega da Capannoli, ma esclude che la sovrabbondante versificazione poetica sia assimilabile in chiave lirica al bozzettismo toscano di origine ottocentesca. Al contrario l’afflato rurale della poesia di Pardini travalica ogni limite di provincia, ricollegandosi in qualche modo, nel segno catartico di quella solitudine che ha in sé la forza catartica della comunione, all’ideologia metafisica dell’Impero.
Che, se vogliamo usare il termine “ideologia” nel senso più nobile e puro della parola, è propriamente l’ideologia “pisana” per eccellenza, in quanto fa concidere la perfezione del Cerchio, inteso come curvatura assoluta (oh, la curva dolcissima dei Lungarni) nella cui grafitante armonia tutte le differenze si conciliano e si compensano, con la necessità normativa del Centro, rappresentato in Pisa sia dalle spoglie di Arrigo VII custodite in Duomo che dall’incredibile equidistanza della città tra le altre civiche realtà e tradizioni di Lucca, Livorno e Viareggio, sia dal primato educativo della Normale che dalla primogenitura euro-romantica incarnata “a ripa Arno” da Byron e da Leopardi non meno che da Shelley nel suo prossimo rogo tirrenico.
Delle cinque parti in cui questo libro si articola, la prima intitolata “Stagioni” è interamente dedicata al tema della memoria, la seconda è una sottosezione della prima di quattro poesie dedicate alla Liguria, mentre la terza sezione, “La sera di Ulisse. Poemetti serali”, trasforma la biografia di un autunno ordinariamente nostalgico e malinconico nell’annuncio profetico di una nuova letteratura odissaica intesa come “speranza scritta” e viva luce dell’alba, e il movimento pendolare si ripete tra i ricordi della quarta parte. “Fuga da settembre”, e il canto disteso della quinta e ultima parte, con sulla scena un’intera famiglia di poeti graci, da Alemane ad Anaconte.
Conclusioni?
Restano tutte al lettore, perché “saper leggere” vale di più che “saper giudicare”.
Vittorio vettori
Postfazione
di
Floriano Romboli
di
Floriano Romboli
A
Leucade,
incontro
– comunque –
alla vita
Le mura sono scabre e le facciate
Arse nel mio paese.
Sarà il sole
Rutilo e grosso quando si sfarina
Che le rende grinzose. Dico che
Proprio a sera lo vedi. E quando l’aria
Arriva obliqua e rossa sulle case
E di scancìo le coglie che traspaiano
Ombre e penombre raso le pareti
Esposte ad occidente. Certo meno
Si vede all’astro verticale se
Con tutto il lucore meridiano
Le ferisce. (Facciate vv. 1-22)
Mi piace esordire con una citazione testuale allo scopo di segnalare aspetti di in equivoca continuità nella ricerca stilistico-letteraria di Nazario Pardini, poeta dalla produzione ormai abbondante, ma sempre rigorosa e intimamente sorveglia alla luce di una sensibilità raffinata e profonda.
Pardini predilige infatti costantemente l’obbiettivazione naturale-realistica degli stati d’animo: la sua elaborazione lirica ama le misure della precisione rappresentativa ove sono in primo piano gli oggetti o gli elementi del paesaggio o le situazioni consuete della sua campagna; e i suoi versi attraggono per l’efficacia della concretezza evocativa.
Ho inoltre conrsivizzato nel brano riportato in apertura per indicare la ricorrente duplicità dei registri espressivi che in altra occasione mi è capitato di mettere in risalto quale caratteristica specifica del linguaggio pardiniano sovente oscillante fra un livello basso, tecnico-agreste e popolareggiante (“gruma”, “rama”, sbalasciato”, “butti”, “buttate”, “seccume”, e v. la cadenza proverbiale alla fine della medesima poesia da cui ha preso avvio il discorso:
“Inganni quando dici / che il rutilo calante è un buon levante”) e un livello alto, aulico-prezioso (“rezzi”, “vendicante”, “concento”, “spiro”, “giovane”, “perleo”)
Non si tratta certamente di accostamento casuale, di giustapposizione distratta: porre in tensione esperienza personale, condizioni di vita determinate e tangibili, e riflessione astraente, modelli ideali, tradizione culturale.letteraria è il moto intellettuale di fondo, l’autentico nucleo genetico della poesia di Pardini:
Là infilava la mano uno stradone
fino a perdita d’occhio e riportava
tremiti d’erba medica alle greppie
frementi di muggiti. Si accavallano
gli sterpi nuovi a vecchie ributtate
di seccumi sul fumido selciato
della corte oramai invaso. Mio padre
lo faceva lucente con i tonfi
d’arzilli correggiati. I bei tramonti
rossi sui campi a esorcizzare i cirri
su cerule speranze, si defuilano
tra pazze rame in crisi d’abbandono.”
(L’aria è di cera, vv. 12-23)
Nei componimenti di Alla volta di Leucade il tessuto linguistico risulta comunque privo di dissonanze, rivelante tratti di armonia formale che costituiscono un risultato d’arte senz’altro maturo e compiuto. La nettezza descrittiva di frequente associata a un sapiente gioco di rivelazioni cromatiche, è in funzione dell’attenta, sofferta partecipazione dell’autore al ritmo vitale della natura:
Era d’estate quando della vita
riflessero i barbagli. Allora vissi
la fantasia che esplose lucentezza.
Poi giunto è ottobre a mietere le foglie
Di una stagione che ha reciso il sole […]
Niente di più vicino, ora che freme
Sulla distesa vana del mio piano
Il tramonto del gelso, a me risulta
Che il palpito ottobrino […]
(Ottobre, vv. 1-5 e 12-15)
Un rapporto diretto e appassionato con l’ordine naturale è alla base della formazione del poeta, è sostanza delle sue radici paesano-campagnole (“allora ti racconto / dell’inverno mio amico. Penetrava / frusciando da fessure, s’inoltrava / nella stanza, poi andava alla finestra. / alzava la tendina e in cuor gioiva / di vedersi l’autore, tutt’attorno, / di una campagna a stelle in filigrana / candide come il latte. Parlavamo. / quante cose diceva. Poi tuo nonno…”, La mia casa vv. 19-27), ma la concezione della natura è in Pardini tutt’altro che idillica: quest’ultima di sicuro comprende e comunica momenti di dolcezza rassenerante, e pure del suo sano e impietoso equilibrio fanno parte wanhce la violenza e la morte (“e si parlò di norme nellebbrezza / tenera di dolcezza tra i filari / galoppanti ai declivi…”), giacchè il nibbio “scatta repentino / e fulmineo sul merlo disattento, in cuor al leccio. Si consuma in breve / nel marmore brunastro di una notte / di stelle la rapina” (Che pensare, vv. 28-30 e 21-25).
L’armonia obiettiva della natura è “Magia segreta delle cose”: tentare di sondare il mistero magari leopardianamente cercando un colloqiuo con gli astri è impresa superiore alle tanto modeste possibilità degli esseri umani, alla cui mente è negato il volo al di fuori e al di spora di ambiti limitati (“è abituata / al fuggitivo scricchio del roveto / o al fremere leggero delle fronde / all’asolo che sfugge od al cadere / funereo delle foglie nel settembre / tumido e rosso”, Eliaca stella, vv. 22-27).
Alla fine l’uomo, che a differenza degli altri animali sa investire – chissà se per sua fortuna – la vicenda fisicobiologica di una vasta gamma di aspirazioni e di attese morali-psicologiche – non può che costatare l’ineluttabile dinamismo della natura, magari prima forzatamente e poi consapevolmente accettandolo, paralizzato altresì dal significato profondamente ambiguo della sua avventura sulla terra (“che si provi / proprio una contentezza esagerata / su quello che vivemme o che si nutra una speranza accesa a illuminare i giorni destinati a completare / il cammino, non si potrebbe dire”, Come le foglie logore a settembre, vv. 9-14; “ma non so se vale / di più restare immoti nella stasi / di un eterno sereno che provare / il dolce senso del dolore umano”, Fuga da settembre, vv. 38-41); ma come restare indifferenti all’impulso vitalistico che da tanti secoli l’Ulisse omerico e post-omerico ci trasmette (“ancora salperemo / oltre colonne, questa volta mitiche / d’impedimento ai sogni. Là più lucido / e più eguale all’eterno sarà il liquido / dell’oceano aperto”, Il ritorno di Ulisse, vv. 43-47), invitandoci a tentare l’esperienza dell’eternità non attraverso l’immoralità, bensì tramite l’estrema intensità della vita?
Certo è che il poeta non nutre da tempo ambizioni di vitalismo sfrenato e ciò non per banali ragioni anagrafiche, ma per acquistare lucidità della visione d’assieme: il suo animo è infatti improntato a quella consapevole, amara malinconia che gli suggerisce preferenzialmente immagini e atmosfere della stagione autunnale, la quale appare in questi versi evidenziata in tutta la sua centralità problematica di densa e complessa metafora.
Se la vitalità più congeniale all’autore è pertanto quella attenuata e ridotta dal saggio ripiegamento autunnale, ritenuto l’orizzonte etico-intellettuale più persuasivo da chi considera prospettandosi un “infinito presente d’autunnare”, gli effetti benefici del “salto nelle oniriche acqua di Leucade” (“E ti rivissi vita / con un sentire lieve e tanto amato / che in ogni fatto lieto e meno lieto / ma scampato, vidi un superbo dono”, Fuga da settembre, vv. 59-62), non di meno giova il ricordo del proprio e dell’altrui sogno di un’esistenza gioiosamente tesa ad un amor vitae senza limiti.
Da questa disposizione spirituale nasce quel fascino seducente della memoria, prima semplicemente umana e poi più finemente poetica, che pervade l’intera raccolta e ne garantisce la compattezza strutturale; una siffatta inclinazione mentale è all’origine dell’evidente strategia tecnico-formale del confronto metodico, talora esplicito, talora lievemente dissimulato nei testi con altre voci della grande tradizione letteraria occidentale (dai classici greci e latini a Dante, Foscolo, Leopardi, Montale), ove secondo Pardini si esprimono per sempre il progetto emotivo, il sogno di vita di creature d’eccezione che hanno saputo dare dimensioni e consistenza di archetipo a sentimenti e intenti propri di ognuno di noi.
Penso che la riappropriazione immediata di quel prestigioso lascito memoriale valga nello scrittore moderno un sincero e commosso alla vita.
Rammento d’altronte – se è consentita a questo punto una testimonianza personale – che forse il più autorevole dei miei maestri studioso impareggiabile della poesia di tanti uomini e di tante epoche, amava dire che la memoria è in fondo la vera sconfitta che possiamo infliggere alla morte.
Floriano Romboli
Prefazione
di
Pierangiolo Fabrini
a
Dal lago al fiume
di
Nazario Pardini
Uomo di cultura che ha anche maturato una lunga esperienza di docente e di autore, Nazario Pardini dedica queste liriche alla terra in cui è nato e vive tuttora, esprimendo il profondo attaccamento che lo lega a quel paesaggio e la significatività che esso rappresenta per la sua esperienza interiore.
La nuova raccolta a cui Nazario Pardini ha dato il titolo significativo di Dal lago al fiume si presenta come un ‘poemetto’ unico scandito in ‘capitoli tematici’ che fluiscono attraverso un gradevole alternarsi e intrecciarsi di parti dialogate, fonologiche e paramonologiche; l’io narrativo può così sviluppare il racconto procedendo con naturalezza e spontaneità che subito coinvolge e rapisce il lettore.
Il paesaggio lacustre, che prelude al fiume e risente della vicinanza salmastra del mare, compare preferibilmente – ma non esclusivamente – nella sua veste settembrina, inequivocabile proiezione del poeta, quando i colori sono più ricchi di sfumature e di contrasti, illuminati da un sole magico (La natura / è sempre stata santa e nel settembre / ancora tanto più sa di mistero; Le corolle / si mettono a danzare e con i petali / si accostano, bisbigliano e nei loro / moti gentili parlano d’eterno; / di gioia e dolore ai metafisici / colori settembrini; - Io vedo il sole, / ma il sole è di settembre / e l’aria, anche se chiara, annuncia sera) e che prelude all’autunno (Forse è l’autunno. Sarà sicuramente la stagione / ad accostare il morire odorato di verde / al fluire leggero della vita; L’aria era dolce. In lontananza il monte / tramutava il celeste nell’azzurro / del fondo di levante) e poi al mistero dell’inverno (In questo giorno d’inverno / che zuppa nelle acque l’azzurro del cielo / m’invita con le scaglie sui chiari / a inoltrarmi con lui tra i canali; In questo giorno d’inverno, / così circolare e sereno, / ti porterò con me nei canali / dei loquaci canneti).
E questo paesaggio, cui dà colore e vita una vegetazione spesso non più conservata altrove, è animato e popolato da animali acquatici e soprattutto da uccelli.
Solo eccezionale – e del tutto particolare e significativa – è la presenza dell’uomo autonomamente definito: Anchise, Nonno Felice, l’io narratore, il suo (fittizio) interlocutore. La presenza umana è ovunque percepibile, elemento sempre pienamente integrato nel paesaggio e nell’ambiente.
Man mano che il racconto procede ci rendiamo conto di essere introdotti in una dimensione particolare, in un mondo sognante palpitante di vita, in cui si fondono passato remoto, passato prossimo e presente, in cui l’autore, il paesaggio, gli animali vivono in perfetta consonanza, e in cui la fatica, la povertà, il dolore assumono un valore positivo nella compresenza di una ricchezza di vibrazioni e da una compartecipazione totale di ogni elemento all’impulso vitale che tutto pervade con la sua forza e col suo movimento irresistibile. Anche la fatica, la povertà e la sofferenza hanno piena cittadinanza in questo mondo e la loro presenza assume quasi un valore didattico per chi desidera progredire sulla via della’acquisizione della vera saggezza.
E non è casuale che la parte centrale tra le tensioni che sottendono il poemetto sia riservata ad “Apparizione”, che forse esprime in modo più tangibile e figurativamente più incisivo il mondo poetico di Pardini. Gli elementi descrittivi sono ben lungi da rappresentare un aspetto meramente figurativo: essi diventano una proiezione della dimensione interiore del poeta, un elemento essenziale trasfigurato nei molteplici aspetti della vita e dei sentimenti.
E in questa dimensione in cui natura e umanità si integrano e possono vicendevolmente completarsi, in cui il chiarore, la luce accecante e la gioia non annullano e non obliano la tenebra, l’incerta luce del crepuscolo e il dolore, il poeta ritiene che possa realizzarsi l’equilibrato recupero di valori ancestrali nell’attuale civiltà caratterizzata prevalentemente dalla tecnologia e dal consumismo. In questa direzione acquistano una valenza più ampia le memorie e le riconsiderazioni liriche delle esperienze vissute, che contribuiscono a stemperare i tratti pessimistici.
Il linguaggio di cui Pardini fa uso si vuole presentare semplice, piano dimesso per meglio avvicinare il lettore a cui trasmettere il proprio messaggio; in realtà è il frutto di uno studio assiduo e di una scelta accurata, e i riecheggiamenti dei classici greci e latini o dei grandi simbolisti francesi conferiscono eleganza e raffinatezza al fluire delle espressioni e delle immagini.
Pardini riesce a combinare felicemente e a fondere preziosismi e neoformazioni lessicali sfruttando sapientemente e abilmente tecniche espressive e stilistiche, traslati e fi9gure retoriche e grammaticali come la Ringkomposition , la rima interna, l’assonanza, la metafora, l’antonomasia, la metonimia, la similitudine, l’antitesi, l’allegoria, la prosopopea, l’iperbole, l’apostrofe, l’asindeto, l’enallage, ecc.
L’uso di moduli espressivi di raffinatezza iperletteraria sottolineano una sensibile auscultazione della natura; la fami9liarità quotidiana risulta straniata da “immagini antiche” scaturite dalla memoria. La singola parola viene abilmente elaborata, resa evocativa, dislocata sulla pagina, diversificata nel suo corpo tipografico, con sapiente perizia di artefice.
Un esame del vocabolario usato da Pardini evidenzia una straordinaria ricchezza di termini che indicano la vegetazione e gli animali che formano lo scenario del suo lago, e di aggettivi relativi ai colori estremamente vari di quel paesaggio. Frequenti sono anche i verbi relativi alle percezioni (vista e udito), al volo degli uccelli, al movimento dei pesci, e, naturalmente, all’acqua e alla sua influenza sull’ambiente.
Se lo spazio concesso lo permettesse, meriterebbe condurre un’indagine particolare sull’aspetto metrico ritmico delle liriche, cui Pardini riserva un’attenzione vigile e puntuale, utilizzando schemi metrici classici nelle diverse varianti e organizzando euritmicamente il procedere della’eloquio; il fluire delle immagini e il susseguirsi della narrazione si arricchiscono di inflessioni cadenzate e di armonia ritmica.
Pierangiolo Fabrini
Prefazione
di
Renato Pancini
a
Gli spazi ristretti del soggiorno
di
Nazario Pardini
Il linguaggio elegante e raffinato, frutto degli echi, ora classici ora ellenici e latini, ora dei grandi simbolisti francesi, fa da cornice al mondo poetico di Nazario Pardini.
La visione lirica del Poeta ruota intorno ad un profondo senso panico della vita che insieme unisce e stempera le emozioni e i sentimenti, l’oggi e le memorie.
Il percorso della silloge si avvia con “Il risveglio del monte”, dove con vivide immagini il poeta descrive la nascita di un giorno “dal nulla del vuoto nero”, espressione del compenetrarsi della Natura con l’Essere.
Compare in “Solo allora saranno mie le acque” l’elemento liquido, l’acqua che scorre, il fluido femminile che prende e placa.
Agresti scenari dominano le varie liriche, attraverso le quali l’Autore ci guida in un viaggio altalenante fra le stagioni fisiche e quelle, non meno altalenanti, dell’Essere.
Il sommesso risveglio della primavera, da sempre paragonata al risveglio dei sensi, viene cantato con lieve candore: “È primavera nell’aria, tra le stelle, sopra il mare.”.
“Il vento”, che galoppa “libero senza briglie” e non vede più “alcun confine ai suoi balzi”, rappresenta, nella fantasia dell’Autore, il furore dell’istinto che infine si placa “lasciando il suo puledro a pascolare nel mare immenso senza più nitrire”.
In “Sprangaio!” ritornano le memorie dell’infanzia, che vengono restituite ai ricordi custoditi nelle mura domestiche.
“Portami sera” e “Tornavo ch’era sera” sono la metafora della vita che avanza portando con sé “il gelo della notte”, ma anche quiete: “Era venuta sera. E mi acquietavo”.
A conclusione della silloge la lirica “Presto ritornerò” canta la certezza che tutto quello che fu più non è e più non sarà, mentre resterà vivo ciò che il momento, vissuto con passione e spontaneità, ha lasciato.
La silloge è venata da una dolce e decadente atmosfera di torpore, dalla cauta accettazione che le mutazioni apparenti delle stagioni si ricompongono nel ciclico alternarsi dei contrari.
Renato Pancini
Prefazione
di
Ninnj Di Stefano Busà
a
Il fatto di esistere
di
Nazario Pardini
Complessa e variegata, sin dalle prime battute, appare questa raccolta che come uno spartito di grande respiro musicale accoglie tra le note un sottofondo di timbratura classica.
L’incontro immediato è con poesie mosse, lampeggianti e di forte spessore, di buona tramatura, con esiti e rifiniture ampie dai risultati pienamente raggiunti.
Vedesi le poesie: I simboli, Inventavi ginestre, Inutili segmenti, Voglie di Vita che esprimono tutte stati d’animo e sollecitazioni emotive, il cui risultato persegue sempre il senso della riscoperta interiore di sé stessi. Ad una immagine di serenità e dolcezza fa spesso riscontro un’inquietante e scabra marcatura psicologica: la ferita di un rimpianto, la lacerazione di un abbandono, il dissidio tra una visione fantastica e l’oscurità paranoica della promiscuità quotidiana, fatta di ansie e turbamenti che si avvale di sfumature azzurre per reinventarsi la vita, il paesaggio interiore di un’anima che anela all’eterno, al suo mistero infinito.
Ci troviamo di fronte alla trasfigurazione di un reale ipotecato alla precarietà del tempo / spazio, ma che pure val la pena ridisegnare coi colori dell’alba e della tolleranza, se “il fatto di esistere” deve ancora sorprenderci e addolcire l’amaro calice del reale vissuto: “Ma il presente è veloce / il futuro si attende / e il passato difende segreti / finiti in rivoli cheti /”. In certi passaggi si nota una tematica di valori sospesi all’incanto e alla malinconia che quasi denudano l’anima e ne fanno territorio di lucido, abbagliante incantesimo. La memoria vi si stende come un biancore d’alba in un braccio di mare. A smuoverla sono taluni fondamentali motivi ispiratori ricorrenti, connessi al “fatto di esistere”, superando le diatribe conflittuali dello stallo quotidiano, dell’insofferenza, del disincanto. Il tono elegiaco ci riserva un suadente naturalismo, a volte perfino surreale, cui la resa e il pietoso ripiegarsi su sé stessi, danno il tono di drammaticità esistenziale e determinano lo smarrimento. Il procedimento ispirativo è spesso coadiuvato da una controllata ed esplicativa opera di scavo. Pardini possiede un’abilità lessicale sorprendente. Lo stile sempre scorrevole e nitido sa evocare la complementarietà del paesaggio dell’anima. La trama poetica sa racchiudere schegge di emozioni tra passato e presente, rivisitando i luoghi del ricordo e della memoria. Evidente appare una contrapposizione tra i due diversi momenti della vita, che il poeta sa cogliere in controluce, quasi in sordina: “E la sera una voce leggera suadente / inventava romanze / per me / che tardavo a dormire. / / solo un giorno / riuscisti a rapirmi / ero sperso tra i gorghi segreti / su rocce umidite / di muschi e licheni / senza strade sicure / senza uscite / su radure di sole /”. Nazario Pardini con dovizia di particolari s’immerge nel gorgo profondo, indicibile di un passato prossimo e con lucidità mentale ne riemerge con una pagina melica tra le più belle, e nella quale l’identificazione al quotidiano tonifica certi attimi di assenteismo vitalistico.
“Il Fatto di Esistere” urla una realtà spirituale tra le più intense. Vi è insita una fisicità umorale e matèrica prorompente, ma vi si innervano anche una grande introspezione spirituale e una salda visione della vita. In questa elaborazione paesaggistica dei reperti d’anima, la vita si eleva dalle inadempienze terrene per assurgerare al tempio della poesia e ricostruire da essa e rigenerare dal bitume putrido di giorni senza luce, il puro significante anelito dell’essere. Ma le pagine liriche di Pardini, contengono anche una illuminante e fantasiosa microstoria: “tra il rossastro velluto / dell’olivastro alloro e il barlume di un astro /” … È la stagione che alimenta il seno / che l’anima respira esulta e vive /” sono parole dell’Autore e rincorrono incursioni emotive di grande pregio letterario, intense, denudanti, dove la pena si adagia nella malinconia, come a lenire il disagio del cuore: vi sono bruciature e escoriazioni, vi è carne viva che urla, ma vi è il nostro sangue che scorre, la linfa della pietà cristianamente assorbita, vi sono l’appagamento e l’ossigenazione, magari della pluralità impietosa del tempo che si compie a purificare tutte le scorie del vissuto in un’aura di fede e di speranza. E si scalda ad un fuoco di ardimento implacabile e inesauribile: la vita stessa, pur con le immancabili sue colpe o dissennatezze, ad innalzare forte e chiara una voce alla Musa di tutti i tempi-poesia-: “E muta o Dea, / o Diva o Musa, / ispiratrice di sogni / di illusioni / che vivere mi hai fatto / vita e vite… / / (Alla Musa). Infine, le liriche: I cirri combatterono il sereno, Per mari ho navigato, Luglio, Tra i pini di salmastro; ci presentano Pardini al meglio di sé e lo propongono alla storia della pagina poetica con una caratura linguistica degna del più alto rispetto e della più meritoria attenzione.
Ninnj Di Stefano Busà
Prefazione
di
Stefano Sodi
a
La cenere calda dei falò
di
Nazario Pardini
A Pisa si direbbe che Pardini “ci ha preso gusto”. Non è nemmeno un anno che ha presentato al pubblico il suo volume La vita scampata che adesso ci riprova con un nuovo lavoro dal titolo La cenere calda dei falò, anch’esso, come il precedente, vincitore nel concorso letterario Il Portone. E non è tutto: c’è anche un ambizioso progetto di raccolta di gran parte del materiale inedito…
Ma procediamo con ordine. Prima di proporre qualche riflessione su quest’ultimo volume è parso opportuno offrire alcuni elementari strumenti valutativi che aiutino il lettore ad introdursi nel mondo lirico del nostro autore. Per far questo è stato necessario ripercorrere preventivamente, in maniera molto sintetica, l’itinerario poetico di Pardini, almeno così come ci viene delineato dalle opere edite.
Per ciò che riguarda le note biografiche, merita segnalare che Pardini ha esordito al mondo dell’editoria assai tardi: la sua opera prima è infatti del 1993, quando egli ha già 56 anni ed ha maturato una lunga esperienza di docente e di autore.
Per le sue prime pubblicazioni Pardini sceglie una piccola casa editrice fiorentina (L’autore libri) nata circa trent’anni fa proprio per dar voce a varie espressioni letterarie attraverso la pubblicazione di romanzi, racconti, diari, poesie, saggi, opere teatrali, carteggi. Escono così, a distanza di due anni l’uno dall’altro, Foglie di campo, aghi di pino, scaglie di mare (1993) e Le voci della sera (1995), due testi che possono essere letti in continuità fra loro.
Protagonista di entrambe le raccolte, ma sarebbe più corretto dire delle tre raccolte in quanto Le voci della sera contiene a sua volta le due sillogi Poemetti d’autunno e Le rughe del mare, è il paesaggio della Valdiserchio , il territorio in cui Pardini è nato ed è vissuto. Da sempre il mondo dei campi, con i suoi colori ed i suoi toni, con i suoi suoni ed i suoi silenzi, è stato ed è oggetto ispiratore di composizioni poetiche. Pardini si colloca in questo filone con originalità, forte tensione lirica, profonda forza evocativa. La descrizione paesaggistica è piacevole e denota un occhio esperto, avvezzo a cogliere ed a valorizzare la bellezza di una terra generosa. Ma l’aspetto descrittivo non deve indurci in errore; infatti non appena la lettura si fa più attenta, i versi acquistano nuovi e più profondi significati. Pardini ritiene che la poesia serva a rendere condivisibili i sentimenti che ognuno ha dentro di sé, fugge pertanto da ogni intimismo ed affida alla natura il compito di assolvere simbolicamente questa funzione; essa pertanto assume valenza esistenziale, non per manifestarsi benevola o matrigna nei confronti dell’uomo, quanto piuttosto per divenire esemplare, paradigmatica del suo vivere. Il paesaggio allora da esteriore si fa interiore e scandisce i tempi eterni del divenire umano, con i suoi slanci, con le sue paure, con le sue tragedie (merita in proposito leggere la bella introduzione di Floriano Romboli a Le voci della sera, un’esegesi acuita e penetrante dell’opera pardiniana).
Nel febbraio 1996 esce, quale promozione editoriale – e pertanto non a disposizione del pubblico in libreria – a seguito del premio Iniziative letterarie 1995, il volume Il fatto di esistere, a sua volta composto dall’omonima silloge e dalla raccolta I silenzi dell’anima. Mariangela Chiapparelli, in una sua recensione pubblicata sul quotidiano La Nazione, annota come “Sulla base fortemente coloristica, pittorica, tipica di una tavolozza che agilmente si muove nella nostra terra, fra le colline e il mare, orizzonte esistenziale di un uomo di estrazione contadina, forte e pudico a un tempo, si innestano retaggi di una formazione classica che, per temi e qualità lessicale, sembra emergere con sempre maggiore insistenza. […] Diventano più complessi quei versi che colpivano per la forza della loro espressività quasi estemporanea […] Si notano un aumentato lavoro di scavo interiore, una maggiore ricerca sperimentale a livello ritmico-sintattico e lessicale”. In effetti i richiami alla classicità e l’interesse all’impegnativo confronto col mondo della cultura letteraria, già manifestati precedentemente, si fanno qui più insistenti e intenzionali. Pardini inoltre si dimostra un buon conoscitore della metrica tradizionale, tanto da permettersi vezzi che sarebbero negati ad altri autori. In Il fatto di esistere compaiono addirittura quattro sonetti, un tipo di componimento poetico che difficilmente i lettori troveranno negli autori contemporanei. Non solo, ma oltre ad usare tutte le varianti classiche (quartine con rima alternata o incrociata e terzine con rime ripetute, invertite, incrociate o alternate), gioca con l’organizzazione ritmica (come in Variano le stagioni anima mia, ove il sonetto, che rispetta lo schema della rima alternata nelle prime due quartine, propone poi, al posto delle due terzine, un’altra quartina e un distico, che presentano però lo schema ABAC BC, OPPURE COME IN Mi porto il corpo tra la selva e il mare, ove la quartine propongono rime baciate AABB CCDD e le terzine l’alternanza ABA BCC), dimostrandosi un aristocratico utilizzatore delle tecniche ritmiche e retoriche classiche.
Vale la pena a questo punto soffermarsi proprio sull’uso costante che egli fa di queste tecniche, uso che compare in tutte le sue pubblicazioni. La poesia di Pardini è ricchissima infatti di rime interne, di enjambement, di antitesi, similitudini, metafore, sinestesie, metalessi; egli le usa per combinare suoni, toni, colori e impreziosire ulteriormente le liriche. La funzione che egli affida loro è però tutta impegnata sul fronte estetico e euritmico: il linguaggio di Pardini rifugge infatti la tentazione di spezzare la struttura essere-pensiero-linguaggio per far perdere alla parola il potere rivelativo nei confronti della realtà e farle acquistare una totale autonomia, allargandone il campo semantico; esso è invece volutamente semplice, tanto da apparire talvolta estemporaneo. Ma questo non induca in errore: è invece frutto di un accurato lavoro di ricerca. Si possono limare i versi, si può fare una ricerca esasperata dei sinonimi per rendere più prezioso e ricercato linguaggio; Pardini ha scelto invece la via, forse ancor più faticosa, di fare lo stesso lavoro di ricerca per individuare il termine più piano, prosaico, semplice per avvicinare ed appassionare il lettore.
La vita scampata viene pubblicato nel settembre del 1996in questa stessa collana letteraria. Anche in questo caso il volume raccoglie due diverse sillogi: Au Rebours e Le terre del silenzio. L’autore è rimasto a lungo incontro sul titolo del volume, quasi che quello individuato apparisse fin troppo lacerante. Ma la scelta è sintomatica delle tematiche presenti nel libro. Quello che Pardini propone è infatti proprio ciò che è rimasto dalla vita, ciò che, come conclude l’introduzione di Sirio Guerrieri, “è scampato alla rapacità del tempo e degli eventi”. Il poeta intesse una lunga riflessione sul senso dell’esistere, sui valori, sulla cultura. E continua a farlo in piena sintonia con le opere precedenti e con la filosofia che le informava che abbiamo precedentemente per sommi capi illustrato. Vi sono però in quest’ultima opera alcune accentuazioni.
Innanzitutto quella della prospettiva memoriale e consuntiva. Non a caso è Au Rebours il tiutolo della prima e più ampia silloge: è un volgersi indietro, uno sguardo retrospettivo, un tracciare un bilancio, su se stesso ma anche più generalmente sulla nostra epoca. Torna qui il tempa autobiografico già presente ne Il fatto di esistere. Anche quando il soggetto delle poesie sembra essere meramente paesaggistico, come nella seconda sezione del libro intitolata Le terre del silenzio, nelle quali ci aspetteremmo descrizioni geografiche appena connotate da spunti di riflessione annunciati dalla specificazione del titolo (del silenzio, appunto) è invece ancora la storia a farla da padrona, con il suo messaggio di caducità e irreversibilità, contraltare lirico a tanta filosofia della storia di questo secolo così profondamente foriera di lutti e distruzioni. Ma Pardini è in primo luogo poeta ed il suo sguardo retrospettivo non può non volgersi al proprio retroterra culturale, al proprio humus d’artista. Così tornano i temi ed i toni del confronto con il mondo classico, ma si evidenzia soprattutto una scelta di campo, un duro giudizio su certi esiti della poesia contemporanea divenuta troppo sovente sovrastrutturale sponda a interessi di parte o di bottega, presuntuosa vessillifera di probabili epocali mutamenti (basti per tutte la poesia La morte dei poeti).
In questa prospettiva, una seconda accentuazione è quella della finitudine, del sempre più ricorrente richiamo alla vecchiaia e alla morte, al senso della caducità dell’esistenza. Platonre diceva che tutta la vita è una preparazione alla morte. Eppure la morte ci coglierà impreparati. Così, quando giunti ormai alla vecchiaia, tenteremo di fare il punto sulla nostra situazione esistenziale, quando cercheremo di trovare un equilibrio tra le vicende che hanno caratterizzato la nostra vicenda terrena, saremo in grado di costruirla con lucidità oppure, come sembra suggerire l’autore, rivolgendosi ad un ipotetico anziano interlocutore nella poesia Vecchio, rischieremo di mescolare insieme memoria e finzione, sino a ricostruire una “vita rivista e ripensata/ vissuta, falsata”, tanto da “rivivere una vita/ che non ricorda più quella finita”?
Del gennaio 1997 è L’ultimo respiro dei gerani, anch’esso, come Il fatto di esistere, uscito quale promozione editoriale per le edizioni di Lineacultura di Milano. Il volume, come precisa la prefazione di Ninnj Di Stefano Busà, “riassume in sé tutte le caratteristiche di un intero percorso”, mostrando le “evoluzioni di una cifra ermeneutica di sicura originalità”. Temi e ritmi precedentemente sviluppati ed usati tornano qui in una ripresentazione matura ed efficace.
Ed eccoci finalmente, in questo scorcio di 1997, a La cenere calda dei falò, opera tripartita nelle sezioni Scrimoli, Inventarsi giardini e Miettes.
Il titolo del volume è lo stesso della breve composizione, appena sei versi, che conclude la prima sezione e che presenta un’immagine metaforica dell’attività dell’autore, fortemente connotata dal pessimismo: dopo le altre faville volate nel cielo in una notte d’estate restano ceneri calde sulla fredda rena […] sparse dalla tramontana. Sta qui il senso di tutto il complesso ordito dell’opera: le memorie (le ceneri calde, appunto) sono l’alimento primo della poesia; esse devono sedimentare per consentire, attraverso un articolato ed equilibrato linguaggio simbolico, una rivisitazione lirica del vissuto esistenziale.
Questa rivisitazione avviene, nelle tre diverse sezioni dell’opera, per precisi ambiti tematici.
Scrimoli sono i bordi estremi, i cigli dei campi, quelli che solitamente fungono da confini tra appezzamenti di terra di proprietari diversi. Nella simbologia di Pardini essi divengono i limiti dello slancio vitale dell’uomo: dubbi, incertezze, incoerenze, insoddisfazioni ci vincolano infatti ad un volo basso, fatto di consuetudini e gesti ripetitivi e vuoti. In tutti noi c’è la voglia di superare questi scrimoli, di fuggire dal quotidiano ma ciò è possibile solo per poco tempo, magari solo per un istante: solo l’istante resta / all’anima aggrappato / ed alla pelle mentre si defila la vita e il giorno smuore. In questa prima sezione oggetto dell’analisi poetica è dunque ancora una volta la vita in quella prospettiva moemriale e consuntiva che abbiamo già analizzato parlando de La vita scampata.
Assai più impegnativo il tentativo di Pardini in Inventarsi giardini. Avevamo già notato precedentemente l’inclinazione del nostro autore a misurarsi con la sapientia culturale classica. In questa sezione tale inclinazione si fa esplicito confronto, atteggiamento tanto più rischioso in quanto l’imitatio è un esercizio che ha una lunga storia nel panorama letterario italiano e può apparire uno scontro impari ed oltretutto démodé. Assume invece tutt’altro spessore se letto in questa prospettiva di rivisitazione del proprio vissuto esistenziale. I grandi della nostra letteratura sono infatti poeticamente rivissuti nelle loro vicissitudini umane e nei loro tentativi di slancio oltre gli scrimoli terreni per quello che essi hanno rappresentato per l’autore nell’età dei suoi studi, quando una cultura ancora acerba ma forte di passioni giovanili ne è rimasta profondamente condizionata. Poi essi sono rimasti a covare nell’animo e, fattisi immagine, ne escono adesso nella maturità a di svelarne il mondo interiore ed a mostrare il ruolo catartico nei confronti della vita che egli assegna alla poesia. Pardini ricerca in sé stesso i significati più profondi, e per tale motivo eterni, delle opere degli autori classici per vagliarne la perenne validità e stimolante, spunti di riflessione e di ricerca. E come egregiamente egli aveva agito nella sezione precedente su di uno squarcio di natura o su un momento di esistenza, adesso compie la stessa operazione con un lembo di cultura.
Conclude il volume la breve sezione intitolata Miettes, briciole. Sono poesiole, immagini, sensazioni, bloccate sulla carta come appunti. Se nelle prime due sillogi Pardini ci aveva proposto quadri di natura e di vita o ampli affreschi allegorici ricchi di cultura, qui si diverte invece ad usare la matita, il tratto veloce, il blocco notes. Ed anche qui la natura assurge a simbolo della vita, in un orizzonte crepuscolare e malinconico.
Stefano Sodi
Prefazione
di
Floriano Romboli
a
Le simulazioni dell'azzurro
di
Nazario Pardini
È caratteristica della poesia di Nazario Pardini una propensione spiccata all’obiettivazione naturale delle situazioni sentimentali, degli stati etico-psicologici, nonché della più generale condizione esistenziale: se il sereno ritmo vitale che anima un paesaggio, magari toscano, può confortare l’animo dell’autore(…La mia terra di Etruschi /ingolla l’aria; s’arrotola nel / piano le cui rame si alzano dai sassi per vibrare (…) Se evadono dai baratri i trucioli in frantumi/ tenta un accordo/ il gracidare dei falaschi; nell’attesa/ che tutto si doni al silenzio mi godo/ l’irreale stupore che mi sorprende.), (la mia terra d’Etruschi, vv.2-5; 12-16), lo scorrere indifferente della’acqua del fiume assumei tratti pregnanti di un’intensa metafora della’esistenza:
…Il fiume scorre
E pare che racconti
Storie di vecchie date con gli stacchi
Di suoni stagionati nei gorghi.
Imperturbabile li porta alla deriva.
(La voce magra di mia madre, vv. 3-7).
Anche l’aspirazione libertaria a una piena, vibrante partecipazione al dinamismo coinvolgente della natura si fissa nell’immagine zoomorfica del gabbiano, di per sé non originale, ma efficacemente filtrata attraverso un’inconfondibile sensibilità personale e perciò suggestivamente espressa:
…Quando l’acqua
si rompe in immagini
che non conoscono il tempo, io mi sento
tanto affine a un gabbiano. Sta nel cielo
e pare non abbia le ali; non conoscendo
il senso della’azzurro nuota nel giorno e canta
fuori da ogni limite di durata.
(Quando il sole giunge, vv. 5-11).
È altresì ricorrente nella ricerca artistico-letteraria pardiniana il rapporto meditato con quella forma di elaborazione riflessiva delle vicende umane e naturali che è il mito; il poeta, uomo di solida cultura umanistica, fin dall’inizio della sua produzione lirica, ha instaurato una strategia organica di attenzione e di confronto con personaggi ed episodi celebri della mitologia mediterranea, solo che questi nei testi più recenti risultano fusi, pienamente compenetrati nel movimento naturale, affascinanti specificazioni di esso, non già parentesi preziose, ma sostanzialmente eterogenee. D’altronde se si evocano gli eroi achei e Ulisse, e la leggenda di Arione e dei delfini, e si richiamano gli amori di Apollo e Dafne, ciò avviene sul fondamento della convinzione dell’essenziale interrelazione, anzi della’autentica interdipendenza di ogni forma vivente nell’universo intero:
Ma non sono divisi
gli elementi;
sono tanti gli strumenti
che vibrano i loro tasti.
E l’armonia del mondo
si nasconde
in mezzo alle minuzie.
(Il rustico sul colle, vv. 8-14).
Lo stesso tessuto linguistico dei componimenti raccolti in questo volume appare più armonioso: persiste quella duplicità di registri (aulico e tecnico-agreste), che in altra occasione mi è capitato di sottolineare, ma è ormai difficile avvertire dissonanze, stante l’effettiva unitarietà ritmico-formale che conferisce scioltezza ed equilibrio alla versificazione, nel complesso più varia che in precedenza; quest’ultima è ancora caratterizzata dalla prevalenza della misura endecasillabica, ma non più in modo quasi esclusivo (è interessante a questo proposito il ricorso al settenario), ed è resa maggiormente incisiva, tra l’altro, dalla struttura più breve di molte poesie:
In primavera, quando i rami dei
rovi usciti dai rigori
spaccano l’aria di gemme
alle capanne dei campi o alle mura
dei romitori, lo scriccio e il pettirosso
si adoperano nel mestiere
di scuotere i ributti.
(In primavera, vv.1-7).
Anche il procedimento dell’enjambement, tradizionalmente caro a Pardini e obiettivo elemento di “frangimento” dell’ordine versificatorio, è qui assorbito in un discorso agile e fluido, ricco di vibrazioni sentimentali, di note partecipative, ma anche di spunti raccolti e concentrati, di ripiegamenti meditativi, di malinconie “serali”.
In una più pronunciata tensione intellettualmente astraente credo risieda la peculiarità di questi ultimi lavori pardiniani, stilisticamente maturi e persuasivi.
Tale ottica più distaccata e problematica è la conseguenza di una considerazione sofferta e vigile della dimensione temporale suggerita proprio dall’articolazione storica e memoriale dell’esperienza naturale dell’uomo.
Il momento del ricordo costituisce il primo stadio dell’approfondimento riflessivo del poeta; avere investito accadimenti e situazioni, anche comuni, di forti contenuti emotivi, averne trasfigurato la qualità in senso etco-sentimentale implica l’aspirazione, tipicamente umana, a garantirne la durata, induce la resistenza al loro allontanamento nel tempo, alla loro evanescenza, alla loro perdita irrimediabile:
Sono tornato alla casa di allora,
padre, a quella colla scala d’alberese
rigata da basse fatiche
che affollavano fiocaggini di lume.
Sono tornato a quella casa dove l’aia
canta ancora storielle al correggiato.
(La casa di allora, vv. 1-6);
Vicino al gelso e ai resti seminati
Sulla corte, mano materna,
lisci la mia fronte indifferente.
Adolescente erravo in grandi spazi
col tuo tatto compagno e confondevo
il vento i grilli al crepitio dei passi.
Ora che il nulla ha ripreso il cammino
mi restano volti all’ombra degli anni.
(Materna mano, vv. 1-8, corsivo mio);
Mentre il sole ingrossava
le ali nel rosone
sentivo nell’anima una frase
frantumata in fenomeni.
Poteva darsi fosse stato in altro luogo,
con lo stesso mare, la stessa veduta.
Ma quella panchina!
Un tratto di un volto lontano,
di chiome alla luce calante
di una sera di chissà quale tempo.
La mente stentava
a seguire i sentimenti
soggetti a indebolirsi a un solo cenno.
(Eppure c’ero stato, vv. 8-20, corsivi nel testo).
Il mio corsivo all’interno della seconda citazione è volto a mettere in rilievo l’incarnarsi del semplice equilibrio naturistico; la prospettiva trasformativa e di necessità distruttiva intimamente cinnessa al trascorrere del tempo disorienta e affanna l’animo della’uomo, di cui l’autore testimonia le incertezze , le ambiguità, lo spavento dinanzi all’eventualità della’annullamento, della dissoluzione nel vuoto e nel non-senso.
L’ansia interrogativa, la ricerca sempre ravvivantesi di un significato globale della’ordine delle cose, a partire dalla specificità di una condizione individuale di impasse intellettuale-morale rappresenta l’ambito ulteriore della meditazione lirica del poeta (Quando giungi / compagna di memorie per infondermi / un senso di stupore e di mistero / mi prostro alla tua volta.) (Eccoti sera, vv. 6-9).
Ha scritto Blaise Pascal in una pagina giustamente famosa, considerando la posizione della’uomo nello spazio e nel tempo:
"Quando considero la breve durata della mia vita, inghiottita nell’eternità passata e futura, l’esiguo spazio che occupo, e che posso vedere, inabissato nell’infinita immensità di spazi che ignoro e che non mi conobbero, io sono atterrito, sono sorpreso di essere qui piuttosto che altrove; giacchè non vi è motivo al perché qui anziché là, oggi anziché domani. Chi mi ha messo dove mi trovo? Per ordine e istruzione di chi mi sono stati assegnati questo posto e quest’epoca? L’eterno silenzio di questi spazi infiniti mi terrorizza."
Con animus pascaliano Pardini confessa a se stesso:
Il pensiero che è in me è quello di
indagare tra gli spazi se il mio fatto
sia cosa destinata a scomparire
fortuito caso o da fare ereditare
a quelli che verrann.
(Il pensiero che è in me, vv. 1-5, corsivi nel testo).
Il suo punto di vista appare bilicato fra l’apprezzamento positivo del pensiero come dono e l’amara rassegnazione all’esercizio dello stesso come condanna, ma le liriche incentrate sull’insopprimibile esigenza interiore di comprendere e perciò di indagare, domandare, interrogare (E noi coi nostri dubbi paure incertezze presunzioni / di vincerne il senso,) (La vela, vv. 60-61), sono fra le più significative della’intera raccolta:
Nella vita d’insieme sovente confondiamo
ciò che esiste a quello che è inventato.
E in questo sta il mistero. Nell’acredine del vivere,
tra il cerchio dell'umano e il disumano senso dell’eterno.
(Mi capita spesso, vv. 14-17);
Annullavo il mio sentire e il senso della vita
in un brusire insistente di silenzio.
Anche se a volte l’occhio era attratto
dallo svariare del blu nelle fiammelle,
il mio pensiero si assentava
e portava con sé l’anima ostile a superare i limiti.
I sensi fibrillavano di stenti nel cercare
di capire l’immenso.
(Evasione, vv. 5-12).
Il bisogno di conoscenza si unisce dialetticamente nei versi di Pardini alla salvaguardia sincera del patrimonio degli affetti personali, in ciò perdendo ogni arida valenza intellettualistica, come quando egli continua a cercare segni della presenza della madre morta fra i sassi e le sponde di quel fiume, presso cui la stessa si recava a lavare e stendere i panni:
…E mi chiedo
se esisterà di lei almeno un’ombra
un simulacro o forse un’anima.
(la voce magra di mia madre, vv. 32-34).
La disposizione a un abito perennemente interrogativo è di certo tormentosa e inquietante, ma è anche la prerogativa più alta dello spirito della’uomo, fonte delle sue conquiste più grandi, dalle illuminanti sintesi della teoria filosofica alle definizioni esplicative della scienza, colme di tanta potenzialità realizzatrice, all’intensità e alla profondità inesauribile della poesia.
Floriano Romboli
Postfazione
di
Lucia Bruno
a
Le simulazioni dell'azzurro
di
Nazario Pardini
Perfino Gombrowicz, nel suo ansimare sulla “realtà effettiva” dell’essere umano condizionata inevitabilmente per ambiente, per stile e per quant’altro dall’esterno; perfino lui, che lamentò l’impossibilità – per l’uomo – di essere “autentico”, aprì una finestra, sia pure limitata. Per chi!? Per l’”artista”: solo colui che crea, anche se non può sfuggire alla maschera della Forma (per imposizione o per adeguamento), può essere libero – almeno – di “giocare” con essa.
Il motivo di questo riferimento? Ebbene, il la” - provocatorio – per questa pagina è venuto proprio dal pessimismo, radicale, del pensatore polacco e da quello spiraglio che, per lui, deve aver rappresentato Speranza. L’unica. E come, di contro, non riandare al concetto di Arte così come lo intese Schiller: “coscienza della nostra libertà”?
A prima lettura, sembra avventato aver accostato i due orientamenti. Certo, assieme non stanno. Ma, qui, è proprio uno che crea artisticamente a far da mediatore. Si tratta di Nazario Pardini che deriva da quel vivaio privilegiato atto a moltiplicarsi in talee di ubertosa poesia.
Avendo avuto il vantaggio di leggere ben dodici tra le sue sillogi, ed avendo – forse – capito come e perché la sua natura vigoreggi e si fonda al mondo circostante e a quello memoriale in un apporto reciproco dove i confini si annullano e finanche il presente si persuade di passato, una domanda viene spontanea: cosa sarebbe Pardini se non portasse in sé il “condizionamento” almeno dell’ambiente e della cultura in cui si è abbeverato di vita? Del resto, un autore come potrebbe essere in sintonia col suo tempo se non ne recasse nella mente il timbro? Non si rimarrebbe tutti statici e appiattiti? Dal momento che nasciamo imperfetti e limitati, perché non assumere in positivo le cosiddette limitazioni che ci vengono dal di fuori? e farne – piuttosto – segno personalizzante ed esprimerci in piena “coscienza di libertà”? Sembra che Pardini sia in grado di farlo (e, grazie al cielo, non solo lui: la storia artistica pullula di equilibrio tra valori collettivi e valori individuali).
La sua intelligenza ascolta gli indizi del mondo, ogni istante è rivelazione: s’affina a quei richiami, li fa suoi. Ne dà prova incessantemente: anche ora, ad esempio, con quei sedici felici versi di “È un tempo in bilico”. Suoi divengono i miti, le leggende, gli dei. Chi ancora non avesse letto il suo testo Alla volta di Leucade (del ’99), lo faccia ed indugi sulla finezza della Forma – preziosa eredità d’universo di cui egli sente d’esser figlio. Sua, sempre e comunque, è la Natura (immedesimazione che ci riporta senza forzatura alcuna alle atmosfere di Alcyone); suoi anche usi e costumi d’un ambiente semplice e rusticano che gli ha reso puro lo sguardo, acuto e penetrante: “ogni lembo svela / un passo nuovo che ci fa nativi” - o – “Io fui con la mia storia questa gente”, sintetizza ultimamente rinnovando radici e riconfermando amore.
Pardini non segue mode. Lui spende a respiro pieno la “sua” sensibilità e la esprime in uno stile che ormai è stile “pardiniano”, giovandosi d’un vocabolario nutrito di classicità o di accenti agresti a seconda dello stimolo/recupero da cui viene sedotto. Attente analisi hanno di già messo in luce questa capacità – compiuta – di trasmigrare, con l’animo e con la parola, tra Olimpo e zolla, zolla ed Olimpo. Pardini è toscano: in Toscana, Natura Poesia sono vene. Che spesso sono parallele.
Ed eccoci, ora, entrare ancor più in Le simulazioni della’azzurro. Ma perché “azzurro”? e perché “simulazioni”?
Affascinante pensare che sia scelta inconscia. Si, perché questo è il colore più immateriale che contiene e disperde; fatto di trasparenze, di vuoto; e – qui – leggiamo: “Si dileguano / e resta un vuoto, anche se blu, / un grande vuoto in cui si perde l’anima” - oppure – “Ho ritrovato i brividi del vuoto, / sillabando una fiaba nella mente”. Perché fu verso evanescenze che Mahler lasciò andare Il Canto della Terra, dove si innalzano, si diffondono e si smarriscono i suoni; o arrivano e si confondono le tensioni; è lì lo spazio illusorio dove la fantasia può farsi sogno e il pensiero varcare la soglia (“Se mi perdo”). Perché – da sempre – il Mistero s’è tinto d’azzurro e… ci sovrasta ci avvolge ci sconvolge.
“Questo” è il colore dei poeti ai quali indica e “simula” l’infinito e se Pardini (“giocando”! sulla Forma) dice: “l’anima medita d’infilzare l’azzurro” è perché si porta dentro l’affanno universale d’esser “fortuito caso” e, già da precedente momento poetico, ancora “aperta la sfida tra l’eterno e me che cerco”… forse di prolungare l’”attimo”! quello che sta nell’incipit della bella corposa raccolta:
siamo incastonati
solo per un attimo
in un’immensità di vuoto
che per non scorarci
finge di essere blu.
Lucia Bruno
Napoli, 16.03.01
Prefazione
di
Floriano Romboli
a
Le voci della sera
di
Nazario Pardini
Nazario Pardini costituisce un esempio, non infrequente nella tradizione toscana, della’uomo di cultura che non nasconde il legame profondo con la campagna, anzi ne sottolinea l’essenziale rilevanza nella sua vicenda personale con note di autentico amore : “La bellezza mi porta parole / che attraversano la campagna; / la mole delle ombre / e il cielo che le bagna / vibrano nel mio seno / come foglia di fieno / perduta in mezzo al campo / o come un lampo nel sereno”.
La campagna di pardini è quella in cui i terreni coltivati quasi si confondono con la pineta in un presentimento di mare, antico teatro di una storia scandita dalla fatica, dalla povertà, dal dolore, ma altresì animata dall’abbandono sognante, dalle vibrazioni vitalistiche, dal gusto tonificante della’avventura: “Rami spezzati/ giù nella brughiera/ pungono/ il mio animo invischiato/ fra dita/ di arbusti/ dritte/ all’orizzonte”; “I nostri mali/ si fondono,/ siamo rapiti/ e la brezza ci investe/ con profumati aromi./ Destinati a vivere, cogliamo/ morbide note,/ sensi/ di spazi/ infiniti./ Ma la terra/ ci tiene/ e di morboso affetto/ nel suo seno,/ destinati alla vita”.
Il tondo nella seconda citazione è mio ed è rivolto ad indicare un aspetto a mio parere fondamentale nella concezione del poeta: la forza irresistibile della sollecitazione vitale in fine ci possiede e ci trascina, la radice naturale del nostro esistere si risolve al fondo in un impulso energetico che all’uomo si comunica al seno stesso della terra e finisce re imporsi a ogni ripiegamento paralizzante, a ogni moto deprimente di sconforto: “Cadono le foglie/ poche ingiallite,/ marcite poi/ doglie di campo/ di perdere i suoi freschi (…) Giunta è la notte/ a rifugiare solitudini,/ sguardi di vecchi volti,/ a rinascere foglie verdi,/ sfidanti albe e tramonti”.
Se la vita è costante dinamismo ciclico (“L’amore/ storia passata,/ attendeva/ dall’alto morente/ nuova gente/ per ritrovare albergo”), ogni valida esperienza di essa non può che risolversi in un risoluto movimento partecipativo: “Andiamo! È l’ora di vedere il Serchio/ che scorre freddo/ oltre le golene”; “Passa una carrozza/ e noi saliamo:/ ti amo,/ corriamo come il vento:/ campagne, fiumi, mari,/ tormente, nevi, corriamo/ ed io ti amo”; “Andiamo! Spesso il gabbiano/ guida il mio sguardo/ vago per il cielo./ Andiamo/ animo in pena (…) Andiamo/ a volare fra le nubi;/ seguiamolo insistenti/ nei volteggi e nei lamenti./ E si respira aria di cielo,/ l'animo si libra,/ vibra il mio corpo/ per non seguire il volo"; "Andiamo per mano/ in cerca di terre lontane,/ dove brame ed oblii/ si perdono su dolci pendii (…) Andiamo Edipo,/ per mano tu solo non sei”.
E le frequenti rassegne analitiche, esempi di enumerazioni naturalistico-descrittiva (“Quante volte/ ho saltato di gioia,/ ho gridato al mio cielo/ parole sconnesse./ Le vigne dei colli,/ le lune nascenti,/ la strada infossata/ nell’acqua invernale,/ i fiori dei peschi,/ i grani crescenti/ ed i colli/ e i profumi dei molli sentieri,/ vaganti fra i campi, pianti, sorrisi”), lontano dal proporsi quali gratuiti, compiaciuti momenti d’indugio bozzettistico, vivono piuttosto in un’indubbia dimensione figurale, significando – in conseguenza della tensione trasfiguratrice di cui l’autore le investe – la molteplicità dei volti del vivere, la pluralità e l’ambivalenza delle condizioni dell’animo.
Il paesaggio nei versi di Pardini è sostanzialmente un paesaggio interiore, così come la valenza intima, squisitamente morale-psicologica assume la diffusa, attenta rappresentazione dell’alternarsi delle stagioni della’universo agreste:” Nell’orto/ da anni vedo un caco/ è spoglio, opaco/ quando la vita arde,/ è rosso rubro in cielo,/ quando il verno persiste”; “Febbraio! Riconosci le foglie stanche/ color rame,/ sagginali inumiditi/ abbandonati al campo,/ freddi pruni/ dove s’aggrappa il merlo,/ brillanti di brina/ che si riscalda al sole”; “Scendi sul davanzale/ e abbracciami mia sera,/ questa è la primavera del mio verno;/ è ricco di colori il freddo gelo/ e mi nasconde il tasso,/ col liquido mortale del suo seno/ il tiepido veleno del mio autunno”.
Mi sembra che la parola “seno”, ricorrente nelle evocazioni paesistiche pardiniane, adempia alla strategia strutturale-compositiva della’autore alla funzione di cifra felicemente espressiva della densità spirituale di cui si carica il rapporto uomo-natura: “Il quercio,/ la concimaia,/ lo stollo dritto a campanile/ e la biga a cattedrale:/ sale il mio seno in cielo/ e ti rivedo amore;/ biondeggia il granoturco,/ s’impoverisce il sagginale/ al maestrale si spigola…”; “La spiga/ che intricava i tuoi capelli,/ la morbida lodola,/ gli odori/ portati dai caldi venti,/ l’ho sempre nel seno”; “Pensieri di ieri/ di sempre, di domani/ colori vani di sogno veri/ rosso di fuoco, marrone morto,/ verde olivastro,/ celluloide di foglie,/ coglie il mio seno/ e lo trascina/ in mezzo ad aghi/ che non paghi/ mi richiamano alla vita”.
Un grande prosatore contemporaneo, Bino Sanminiatelli, maestro di toscanità e di naturalità etico-ideale, ha scritto: “L’amore della terra ha dato alla mia vita un ordine giusto (convenzionale è invece per chi si dà allo sterile passatempo della vita attiva), e la verità guardata in faccia non è più mortificante, non fa più paura”.
Anche a Pardini l’ordine naturale ha rivelato la sua verità: la tensione vitalistica esplode nell’animo della’uomo e genera in lui bisogni d’infinito, aspirazioni sconfinate, desiderio di momenti d’eternità da imporre al trascorrere del tempo (“Vinto dai limiti d’intorno,/ l’ignoto mi dà forza/ e mi alimenta fecondo o creatore/ immagini nervose e prepotenti”), ma favorisce nondimeno l’affiorare di un senso acuto della relatività e precarietà di ogni essere, induce la consapevolezza del limite della vita, dei duri confini entro cui si svolge di necessità ogni terrena esistenza: “Io sull’argine gigante/ quante volte ho steso il mio pensiero/ sui monti delle cave/ o al campanile,/ come ad un mondo/ diverso e sconosciuto (…) Indarno corre il Serchio ormai/ e mi è facile varcare con lo sguardo/ spazi ristretti, camminati spesso”.
La natura è sovente iterazione di situazioni bloccate (“E si ripopola il viale/ di donne infagottate… Rivedo schioppi appesi,/ filari indolenziti,/ uomini arcigni fra le rape”), aspra compressione della libertà; il poeta sa coglierne questo aspetto con una lucidità che arriva alla puntualizzazione generalizzante, alla riflessione amaramente sintetica: “Ma la passione/ alimenta l’amore,/ l’arte, la vita/ e brividi eterni/ portano l’uomo in cielo (…) Campo stretto,/ arido,/ incolto/ il campo dei vivi. (…) Libertà non esiste,/ inutile morte/ e liberi non siamo”.
La vera saggezza consisterà comunque nel disporsi a una sintonia sostanziale con il ritmo naturale: nello splendore vivido del meriggio occorrerà non dimenticare l’inevitabile, correlativa penombra della sera, contrappunto malinconico e nostalgicamente irrequieto della’azione sicura, del progetto ambizioso, preludio in equivoco della morte: “Vacilla il piede sopra sassi austeri/ e l’animo si turba/ se la vista si rivolge al cielo/ al giorno che termina la sera”.
Interiorizzare tale legge del vivere è rendere un omaggio sincero alla grande civiltà contadina, in cui si possono scoprire eredità archetipiche (Edipo, Saffo), ma di cui soprattutto preme ripensare i valori, che per l’autore coincidono spesso con un prezioso patrimonio etico-affettivo e memoriale (il linguaggio ora aulico – speme, spirito, riede, indarno – ora tecnico-agreste – butti, frummia, vettino – è spia di un attaccamento che ha per base e il recupero intellettuale e l’esperienza personale diretta).
È insita nelle coordinate morali di quella civiltà la compenetrazione piena del naturale e della’umano; fra l’uno e l’altro è possibile l’interscambio (“Quercia imbiancata dagli anni/ curva sul tuo ricamo/ a stender la tua anima sui panni/ madre io ti amo (…) Quercia robusta e forte/ ai venti, alle intemperie,/ dura, resistente nella sorte,/ quando ti lasciò di fronte le macerie”) sul fondamento della serena accettazione di un ethos forgiato nella coscienza delle angustie della’esistere (“Inopia/ sufficienza umana:/ non essere per esistere./ L’assenza è nostra/ se infelici cerchiamo l’eterno/ infelici saremmo perfetti/ per mancanza di noi”).
Riattualizzare tali antichi valori (non senza motivo nella poesia di Pardini frequentemente ricorre il tempo passato, segnatamente l’imperfetto) nella moderna società tecnologico-industriale non significa accedere ad equivoche infatuazioni passatistiche, bensì tornare ad appropriarsi interamente della stimolante qualità di una sapientia vitae che rende capaci di riconoscere ed apprezzare fra i dolori gli attimi di gioia (“ Fra gli stecchi della vita, un ramo/ verde s’apre su tante foglie spente”, con significativo impiego del procedimento evidenziante dell’enjambement), che infonde quel sano e severo equilibrio obiettivamente insostituibile e pour cause tutt’oggi insostituito.
Floriano Romboli
Prefazione
di
Ninnj Di Stefano Busà
a
L'ultimo respiro dei gerani
di
Nazario Pardini
Nazario Pardini in questa nuova raccolta: “l’ultimo respiro dei gerani” riassume in sé tutte le caratteristiche di un intero percorso: chiarezza, capacità espressive, indizi, lemmi straordinariamente efficaci per stabilire variazioni al tema, evoluzioni di una cifra ermeneutica di sicura originalità. Tutte le composizioni di questa plaquette di liriche hanno un andamento marcatamente riconoscibile. Pardini riesce ad imporsi per un suo accento particolarissimo che lo stacca da altri, consentendogli una sigla di riconoscimento. È questa una sigla identificatoria che va a tutto merito dell’Autore ed è una qualità nata in interiore homine, che presuppone di saper guardare le cose trasformandole, a mezzo di un pensiero alto, gradevole e fascinoso.
La parola lirica di questo poeta si sofferma su talune costanti della vita che egli variamente smaterializza in una sorta di oggettivazione semantica che vibra nella sua voce e ne disperde le spore inquinanti. La sigla d’apertura risulta una risposta probabile alla rivelazione di sé, di quello che Pardini va ricercando nel verso e che si racchiude nell’esigenza di una logica, cui è legata indissolubilmente l’istante conoscitivo, oppure quello più pregnante dell’emozione: “E qui e non altrove (scrive Bachelard) che nasce la fantasticheria anagogica, che s’avventura pensando, quella che cerca un’illuminazione nelle zone al di là del pensiero istruito …”
Pardini in tal modo si colloca in una fase sempre più evolutiva di tale avventura e ce ne indica già l’intenzionale percorso in una forma oggettivante di progetto lirico. Un itinerario che non si ferma qui o alla prossima stazione ma va oltre in una continuità storico – individuale del suo istante conoscitivo ed emotivo. La ricerca si rivela profonda; ragguardevole appare l’illuminazione delle zone buie, lo scavo che tenta liberarsi dai lacci e dalle ferite narcisistiche dell’io, verso un tentativo che si leghi alla globalità dell’esistente, proponendo il quotidiano sezionato e osservato con la specula analitica di chi osserva quanto nell’immaginario vi sia di “straordinario”. Le interpretazioni della poesia di Pardini possono essere varie, ad ogni raccolta egli si pone nuovo a se stesso, ma rimane sempre inalterata la profonda vita dell’anima, il “quid”, che le imprime il movimento in quell’abisso insondabile dello spirituale che sa accendere lumi nella notte fonda, ad illuminare di immagini e metafore il languire precario della logorante attesa: quel meccanismo di leggi astruse ma molto terrene che ci affliggono e ci disorientano. La sua istanza lirica è segnata, direi, contraddistinta da figure in movimento mai statiche, confinanti col battito vitale del cuore che registra la storia di ognuno e ne fa poesia erudita, matura, che sa la purezza della parola e la dolcezza del sogno, - di quel sogno – che senza entrare nel mito costituisce la vicenda di ogni uomo: il prezzo da pagare ad un “io” biografico che rivendica l’arcano mistero della nascita e della morte con scanzonata scrittura, partecipe di uno sguardo realistico nel profondo dell’essere.
Ogni opera poetica rilkianamente: “è tale se è nata da necessità”. Per necessità è intesa la sua forma di ineluttabilità, meglio la sua “non casualità”, la sua esigenza di venire fuori, ovvero quella formula magica di voler essere, esistere, mostrarsi. Non vi sono mai ragioni astruse, estranee, improponibili ai poeti. Il poeta è facilmente riconoscibile dalla restituzione di sé agli altri, attraverso la parola lirica che è l’essenza inalienabile; la premessa sicura autentica di una categoria a sé che assomma la qualità e i meriti dell’artista o quanto meno la misura definitiva della sua personalità.
Nell’esaminare i testi di Pardini si ha la certezza che egli non appartiene a scuole o a gruppi di questa o di quella corrente. Il suo canto sgorga sincero, troppo certa è la mano, troppo incide la parola sul foglio bianco. La posizione di Musil può essere avvalorata da queste parole, (ce ne dà esempio nel suo volume): “Uomo senza qualità” dice testualmente: “Quando si giunge all’età del gelo, sboccia la poesia”. Siamo convinti che Pardini anche se giunto tardi al Parnaso degli Dei abbia compreso pienamente la lezione. Non si può, nel suo caso, definire età del gelo, la formula vigorosa con quale egli affronta, semmai, il disgelo. Pardini ha covato in silenzio come larva nel suo bozzolo per poi divenire da crisalide splendida farfalla. Ha scoperto una verità inalienabile che dagli alvei segreti del cuore ha percorso lunga strada per giungere a dare copiosi frutti e la misura più appropriata di una categoria senza età, ché avendone vigore e vena chiunque può raggiungere anche se per vie traverse.
Ninnj Di Stefano Busà
Prefazione
di
Elio Andriuoli
a
Paesi da sempre
di
Nazario Pardini
La terra nativa, come luogo al quale ci riconducono le memorie di tutta una vita; ove ogni cosa ci parla con suasiva voce e ci rammemora di giorni felici od infausti, ma tutti circonfusi di un alone quasi mitico, che ne smussa ogni asprezza e li fa limpidi e lievi, costituisce il nodo ispirativo centrale della presente raccolta di versi di Nazario Pardini, intitolata appunto Paesi da sempre.
Basti leggere, per andarsene subito conto, i primi versi di una poesia come Cantavamo. “Cantavamo, paese, se affogavi nel giallo dei granturchi. / Cantavamo sui pavimenti dove si stagliava la luce del camino. Cantavamo sopra gli alari / arroventati dalle pire delle potature…”
Affiorano da queste pagine, a vincere lo sgomento ognora incombente del vuote, visioni di contrade e di volti amati, con la rara virtù del loro dono mai smarrito negli anni. Ed affiorano anche sentori di pinete e di mare, di ginestre e di mosti che riempiono il petto col loro insistente profumo.
Più vive sono però certe presenze, come quelle dei genitori del poeta o di talune figure femminili, che vengono a lungo vagheggiate e che (come quella di Delia) nette si stagliano nei cieli del ricordo.
Al centro di questi versi è la casa paterna, calda ancora di suoni e di voci; fervida di opere; attraversata dal raggio di un’antica felicità. “Ritornato / sono per rivedere il primo verde / che evade con il raggio del mio prato / il fumido maggese. / … / Ascolterò / i passi di mio padre ammorbiditi / dai tappeti terragni ormai sbocciati / alla vita novella…” (Sera di casa mia).
Si affacciano qui presenze e sentori che poi per sempre accompagnano chi li ha avvertiti e ne ha goduto il bene durante l’intero percorso della sua esistenza, dandole un fermo punto di riferimento, che resiste alle più nere tempeste.
Quanto all’aspetto formale di queste poesie, è da osservarsi che Pardini mostra di essere un buon conoscitore della metrica classica (in particolare di quella endecasillaba), di cui fa uso con un gioco veloce di sillabe che costituiscono la caratteristica primaria del suo canto, nostalgico e vitale ad un tempo, specialmente rilevabile in poesie quali Ceruleo monte o I passi di mio padre.
Sempre comunque in lui la parola suona autentica e ricca di profondi sentimenti umani, ovunque affioranti dal suo dire, schietto e capace di suscitare lunghi echi in coloro che siano disposti ad intenderne il senso.
Elio Andriuoli
di
Aristide La Rocca
a
Radici
di
Nazario Pardini
Esperto Pudore
Nazario Pardini vive in Toscana, nella terra della grande letteratura, dove non si può non essere chiari presenti come il sole: “Ricordo / che quando il sole per metà si ergeva / sopra la curva verde della vene, / la sua testa sovrastava il cerchio rosso / frammentato da svoli. L’ho davanti / quell’immagine sacra come icona / che t’affigge lo sguardo dentro gli occhi / ovunque tu li volga.” (“Immagini”). C’è il fiume, il serchio, c’è la guerra, ci sono i mesi, i fiori, gli alberi, il profumo dell’erba, gli uccelli, le stelle gli animaletti, le rane ad esempio, con qualche simpatia pasco liana. Un poeta classico che ha attraversato senza danni il secondo ‘900.
Già i titoli di questa corposa silloge di Pardini dicono con assoluta chiarezza il contenuto della sua poesia: contemplazione della natura, ovvero una delle materie prime che i grandi poeti hanno assortito, spesso compiegandovi l’io e l’amore, per ottenere i risultati più schietti e sinceri. Altra caratteristica saliente, che convalida per classici questi testi è l’impiego di un endecasillabo rivisitato, lavorato in corrispondenze e punti fermi a metà del verso che, mentre ritmano l’ordito prosodico dall’interno, creando tra l’altro endecasillabi sversati, contengono finezze metriche (quattro verbi sdruccioli per formare un endecasillabo sdrucciolo: “scartano, vibrano, ondeggiano, frullano”, “Rientro”), versi cortissimi: “i naturali toni da Manet” (“Di tarda estate”), “È il giallo di mimosa è il tentativo / della fragile primula tra i cimoli / dei primi semi usciti dai crepacci / che portano il mio animo coi loro / teneri svoli verso antichi abbracci.” (“Febbraio”).
Si individuano poi, nella poesia di Pardini, una dignità, un ritegno, un pudore, ecco, forse proprio un pudore, che conferiscono al dettato una sorta di autonomia espressiva, di nobile idioma, che si fa ammirare, certo, ma tiene, e si tiene, a rispettosa distanza; distanza demarcata, tra l’altro, dall’uso di voci inconsuete (robbio, scancio, … butti, autunnare). Così il poeta, anche per la sorvegliata incidenza dell’io, sembra scrivere, o dipingere – pitture sono tante di queste poesie – con aste o pennelli lunghissimi, è molto distanziato dalla tela; non si fa fatica ad immaginarlo con tuba e frac attillati, lucidi, piuttosto che col classico grembiule multicolore di strisci. Il risultato è una poesia, che percorsa da una memoria soffusa, dedicata è tenero bisbiglio più che declamazione stentorea. Le fa, a quanto è dato vedere, un po’ difetto l’amore: Lidia infatti più somiglia a Silvia che a Laura. Ma non importa. C’è l’amore della natura con implicito, quello dell’esistenza e, come Rébora, di “questa vita che è vita”.
Aristide La Rocca
Prefazione
di
Dino Carlesi
a
Si aggirava nei boschi una fanciulla
di
Nazario Pardini
La modernità delle meraviglie e degli stupori in Nazario Pardini
Confesso di trovarmi a mio agio di fronte a queste nuove pagine di Nazario Pardini. La parola è modificabile. E anche la potenzialità creativa. Mi pare si sia giunti a una specie di resurrezione, intendo ad una scrittura che non solo ruota intorno ai problemi, ma li affronta; li morde, ne fa giusto e nobile scempio, in nome della poesia, dopo tanto petrarchismo e tanta musica bella. Ora s’incomincia il dialogo, un racconto che dovrà farsi ancora meno melodico ma più liricamente vero. Forse non bisognerà eccedere, ma questo mi pare un percorso più ricco. Il dubbio ritorna ad essere un compagno di lavoro e la realtà, che attraverso il sistema sensoriale giunge come messaggio motivato ai circuiti cerebrali, lì viene rielaborata in pensiero e in parole, aggiungendovi anche il complesso delle emozioni che vi stanno dentro e intorno. L’atto creativo sta tutto in questa rielaborazione di verità oggettive e impersonali che trovano una identità e sono capaci di suggerire nuove immagini, aggettivazioni inconsuete, scintille creative, associazioni.
Il libro scandisce – come sempre – un momento della vita del poeta, che nella poesia aveva (ed ha) rischiato tutto, la cultura, la sintesi lirica, una contemporaneità di linguaggio che attingeva (e attinge) a precise fonti classiche, la scommessa per ritrovare nella parola quiete e luce, il senso di una verità appagante. Parrebbe che la nuova grinta volesse far cadere qualche mito, ma il nuovo è sempre il frutto luminoso di un processo che non può avere tregua, considerando il nuovo sempre non in assoluto ma in rapporto al modello precedente. La morte, in arte, è la ripetitività del modello, non la sua contraddittorietà o la variabilità si se stesso. Domandarci chi siamo è già un mettere in crisi le definizioni che ci demmo, a costo di perdere in perfezione e musicalità: la sua insistenza sull’endecasillabo è già un’istanza autentica e naturale di poesia, non potendo rimanere legata quest’ultima alla obbligatorietà di una movenza che è tutta esistenziale. Le storie chiuse della’austerità della’endecasillabo non devono ridursi alla descrizione analitica dei contenuti – definitivi e assoluti – ma aprirsi alla problematicità. La musica del verso è dentro il “problema”, respira nella dialettica delle contraddizioni che nascono quotidianamente nei rapporti tra l’uomo e il suo mondo. Il poeta Pardini formula ipotesi, modifica la quiete di un paesaggio con una scrittura che talvolta da denotativa si fa drammaticamente analitica e fantastica, coglie il tempo non come misura esatta ma come corrispondenza sentimentale tra se stesso e la Storia, lo spazio come categoria di insiemi totali e globalizzanti entro cui vagare con il battello pazzo di Rimbaud.
Mi pare che il poeta in questo libro ci affidi la “zavorra” di una autenticità che merita il rispetto dovuto – anche nei momenti di crisi – alla qualità di una buona pagina, di tante buone pagine, in cui l’elaborazione del pensiero si unisce alla elaborazione delle immagini poetiche, senza che la logica prevarichi sull’immaginazione: anzi, pare che spesso l’immaginazione trascini il poeta entro un ventaglio esperienziale sempre più vasto e più ricco, tanto da dover insistere sui temi trattati, sulle soluzioni avviate, rendendo sempre più gravidi i problemi laceranti che emergono dalle situazioni in gioco.
A ciò si aggiunga la genuinità di talune esperienze rurali, con riferimenti proverbiali che – collocati in un loro spazio – non incrinano più lo spessore del canto (“obliqua vano le serpi / con destrezza”; “Eppure i campi / gridavano dintorno spazi ricchi / di gigli e di campanule vibranti / ai venti maggiaioli”; “tra i papaveri le spighe le ginestre / ov’io conobbi amore… / resterebbe tutto / casereccio sotto un abete o un leccio… / tra gli aghi di pinete e tra l’odore / di gocciole di ragia della terra?”; “l’erbale silenzio di vie che serpeggiano”): tale terminologia – che appariva desueta – richiamava al tempo di fughe tradimenti miraggi (“La fuga”), di patrie tradite e smarrite tra le onde ostili, di elevazioni “sopra i fiumi e le albe”, di natali ingiusti e osceni. E poi l’autore arriva alla denuncia, allo scandalo. La poesia non è più sufficiente: s’impone la prosa per rendere più tragica la verità. Oppure le “processioni” muoiono nelle spettrali campagne nel lento mormorare / di anime fuse in “preghiere”, poi le foibe dei “pianori carsici”, le preghiere per accorati ritorni di speranze (“Preghiera”) o la condanna definitiva rivolta alla morte o all’anima, l’orrore ironicheggiante della pena di morte. “Tramonti su itinerari laici” è la silloge di apertura, folta di avvertimenti e di segnali per un uomo distrutto da un progresso sbagliato in cui la preoccupazione salvifica si fa fin troppo insistente. Seguono gli “Undici canti”, lirici i più brevi quali scatti improvvisi calati sui suoni essenziali, più logicamente lunghi i canti pensosi dentro una natura di classicità ritrovata tra adoni e ninfe oppure stagioni ricuperate in “anfore invecchiate” nel richiamo di antichi mari o di “gazzarre di passeri” o di memorie di “trame di papaveri”, decaloghi ad uso dei poeti: undici canti che sanno di terra e della terra rivendicano i bisbigli, le rinascite, le voci dei padri dai “panciotti verdastri”, delle stornellate che salivano ai cieli incorrotti. Un canto più succinto forse salirebbe a cieli più alti, senza che l’amore si smarrisse nelle rimembranze di una stagione irripetibile. Pardini sa ormai di dover ridurre ai trasalimenti essenziali le storie più fantastiche: “E i butti nuovi / germogliavano ai tocchi delle mani / e degli sguardi. Paura le sfioravano / lunghi capelli i glutei, le caviglie”; “… Ma lei mirava i crini, i gesti e i passi / del vergine fanciullo”; “Dei pini e della acacie, tengo i germi / nell’anima; non scorre serena / vedo la vita al tutto”; “Pòrtati nel cielo / la voglia e il sentimento della’effimero / mortale”; “Assiepavamo / il tavolaccio a evadere i pensieri / della morte”; “La fragranza / del trifoglio reciso mi sarebbe / rimasta per la vita dentro l’anima / a germogliare immagini”.
Il fenomeno si ripete nell’ultima silloge (“Canzoniere pagano”): pare che l’autore torni a farsi sempre più leggibile, nel senso che pare che più umilmente chiami il lettore a partecipare alla formazione di quel messaggio pur così asprigno e felice. Il quale si compone di una struttura aperta ad ogni possibilismo interpretativo, senza tuttavia correre rischi di difficile decifrazione. L’invito del poeta è a partecipare alla visione di quella “zappa appesa al filo del vitigno” mentre il fitto fogliame “diffonde / una ragna di trine a mezzodì / sull’erba ventilata”. È l’alba mentre “dalle gronde / un branco di piccioni, con sonore / falcate rompe il cielo e si confonde / con l’alba”: la descrizione nasce dalla partecipazione in prima persona alla stesura delle emozioni che provocano i significati e creano associazione tra immagine e immagine: a volte vorremmo che il messaggio fosse meno puntuale, proprio perché il lettore fosse chiamato a tentare tutte le associazioni possibili. Il limite di tanta poesia classica e romantica, riletto oggi, è proprio quello di impedire che la comunicazione si faccia più ambigua, più indefinita. Le poesie di questo gruppo finale hanno la tenerezza della comunicazione sottile e lucida, con intrighi semantici di elevata liricità, sia quando umanizzano la storia del “rigagnolo” che si avvia alla “foce alla pianura”, sia quando a San Rossore “sembra si odano / suoni tanto distante che d’incanto / ti trovi in preda alle ombre che si affollano / attorno a te e ti assediano”. Come anche in “…si spera / continui nel rosso della luna / il gracile ricordo della vita”; “Anche il viale / t’inganna: si dilegua e poi s’incolla / al fosco meriggiare”; “…giunta alla meta / s’infossa vana e scura, come spera / di un cielo che è apparente e lascia il vuoto”: in cui si accentuano i motivi di disagio capaci di suggerire sinergie intimistiche ma anche tensioni esistenziali e aperture verso abissi impensabili.
Di fronte a tanta ricchezza non si sa neppure più se sia giusto seguitare ad attendere la parola intesa “come una quantità assoluta” aperta “a tutti i sensi possibili”, come auspicava Barthes. È noto che all’apertura di un libro di poesie il presentatore è costretto a offrire, anche involontariamente, una interpretazione, la quale, anche se acuta, diviene già una definizione che può indurre ad un certo modo di lettura e di caratterizzazione dell’opera. La qual cosa può essere anche li mitizzante perché toglie al lettore un certo grado di decifrazione personale con una interpretazione preventiva che può essere anche approssimativa e fuorviante. A questo punto non c’è da sperare altro che il prefatore riesca solo ad avviare verso certe illuminazioni più che verso un senso definitorio che può portare a tipizzare quella data poesia.
Al di là della proiezione di una visione, che il lettore ha il diritto di crearsi autonomamente, non bisogna dimenticare quali potenzialità porta in sé il linguaggio poetico: anche quando Pardini insiste con la successione comunicativa di situazioni memoriali dell’infanzia, della sua storia, del suo vissuto in generale, egli riesce quasi sempre a lasciare spazio al lettore in modo che egli possa creare associazioni nuove e non chiudersi nella sfera di un privato che può non arricchirsi del valore della storia in cui quel privato ha acquistato un senso.
Dei tanti giudizi dati sulla poesia di Pardini non mi interessano molto le distinzioni fatte tra il “versante aulico” e quello “tecnico-agreste” – evidente stacco tra urgenze classiche e senso proverbiale del quotidiano – ma semmai i punti in cui il Romboli ci avverte quanto la natura malinconica del Pardini sappia unirsi “all’impietoso equilibrio” tra “violenza e morte” oppure alla ricerca della “magia segreta delle cose”. Forse il punto chiave di un mutamento della poesia di Pardini sta tutto in questo accostamento costante tra la modulazione intorno alla realtà e il suo intrecciarsi al dolore dell’uomo che in quella realtà è chiamato a vivere. Il rapporto è costante tra due momenti: la memoria non è solo suggeritrice di idilli, è anche, frantumazione e lacerazione di una stagione che non esiste più ma che ha lasciato ferite. La tanto decantata “sincerità” o “cantabilità” sta acutamente mutandosi in un’istanza di esistenzialità che riporta l’anima delle cose all’anima del poeta: lui entra nelle cose e cantandole le rapporta al suo io, “visualizzando gli impulsi dell’anima”, scriveva Accrocca. Semmai non riesco a cogliere “il contatto dell’assoluto e dell’eterno tipico dei processi mistici”, come afferma un altro critico, salvo che non mi si miri astutamente ad intravedere un salutare panteismo simbolico come difesa inconscia dalle ideologie e dalle tecnologie. I “saperi” si accumulano in un gioco di memoria che ha dello straordinario tanto egli riesce a far rivivere visionariamente i documenti delle cronache amorose più lontane, al punto di porle in un’ombra di piccola eternità nel momento stesso in cui le rievoca in tutta la loro ininterrotta contemporaneità. La sua religiosità non è mai confessione di assoluti, ma ricerca continua di intuizioni anche naturalistiche che possono però contenere di tutto, anche l’incertezza e il dubbio.
Ora siamo alla colloquialità più aperta, e ciò significa unire alla comunicazione il desiderio di stimolare la ricerca nei terreni adiacenti all’umano: quella ricerca che sola è capace di fare “esistere” la natura, di intendere i significati, stravolgerli se necessario in nome di una più intensa reinvenzione personale. Di fronte ad un obiettivo di questa importanza perfino la precisione metrica dovrà forse cedere il passo ad una avventura linguistica estranea a precedenti sistemazioni mentali: la classicità ha un senso se la disponibilità semantica l’annulla facendola rivivere nella pluralità delle soluzioni, ravvicinandola così alla modernità delle meraviglie e degli stupori, proprio come accadeva un tempo leggendo questi testi famosi che ci hanno affascinato per secoli e ci affascinano ancora. Pardini ha tale sensibilità musicale, padronanza lessicale e un senso panico ancora così felicemente vivo da farci pensare ad una poesia sempre vicina alla natura e all’uomo, in quel colloquio lacerante che il destino ha assegnato a ciascun essere umano.
Dino Carlesi
Aprile 2000
Prefazione
di
Vittorio Vettori
a
Si aggirava nei boschi una fanciulla
di
Nazario Pardini
Un “pagano” alla scoperta del
Salvatore
Non è facile fare i conti, in
termini specifici di lettura, con un poeta così effusivo e così straripante
come Nazario Pardini. Il quale dispone al proprio arco creativo di tante frecce
che pare gli debbano sempre sfuggire di mano seguendo traiettorie autonome e
imprevedibili.
Ma
in effetti non sfuggono. E alla fine si lasciano ricondurre nel quadro di
fondamentale equilibrio di una complessità armonica e bilanciata, dove
l’abbondanza imperiosa della versificazione pardiniana risulta, come ha scritto
Floriano Romboli nella sua postfazione alla bella raccolta di fine secolo (e
millennio) “Alla volta di Leucade” splendidamente edita da Mauro Baroni nella
collana “Mediterranea”, in ultima analisi “rigorosa e intimamente sorvegliata
alla luce di una sensibilità raffinata e profonda”.
Questo
quadro a ben guardare chiama direttamente in causa le categorie e le dinamiche
del “pensiero poetante”, di un pensiero cioè originale perché originario,
collegabile a determinati contesti culturali e ambientali, che io stesso per
quel che riguarda Pardini, a proposito di “Alla volta di Leucade”, ho creduto
di dover individuare nell’intrinseco nesso esistente tra la storia imperiale di
Pisa e la sua esistenziale solitudine di città, come diceva Leopardi, “piccola
e grande”, dove la malinconia del “passato che non passa” (perché “non può e
non deve passare in quanto adombra l’Eterno”) s’intreccia con la vivezza del
“sermo humilis” e con le rassicuranti
certezze di una comune quotidianità fluviale e terragna.
Qui
infatti si colloca, anche in questi nuovi testi che nuovamente “fan libro”
scansando non senza energie i rischi del frammentarismo e l’azzardo della
casualità, la poesia di Nazario Pardini tra i sapori, gli odori, le musiche
della Natura terrestre (anzi di una “Ninfa di nome Natura”, donde il verso che
dà il titolo all’intera silloge “Si aggirava nei boschi una fanciulla”) e le
acque correnti del fiume, cui è dedicata tutta una sezione, “Sul fiume”, e da
cui ci viene consegnato il mito centrale del libro, che è il mito del
“Pesceraro”.
Strutturalmente
parlando, il libro si compone di quattro sezioni, la più breve delle quali, ma
anche la più importante, è la terza, che si intitola, come abbiamo appena
detto, “Sul fiume”, e contiene una sola lirica, dedicata ad un mitico Pesce, il
“pesceraro” appunto, evidentemente imparentato, se si è interessati ad
avvicinare nella nostra attenzione la poesia e la pittura, col celebre “pesce
d’oro” di Paul Klee.
Ma
proviamo a leggere (e a interleggere)
i settantaquattro versi da “Il pesceraro” nella duplice prospettiva aperta
dalle trenta liriche antecedenti e dalle quattordici successive: e si potrà
agevolmente capire come sia il tono vagamente evangelico delle prime sia gli
accenti di esplicito paganesimo delle seconde convergano con matematica
precisione verso le riscoperte dell’impulso-Cristo a cui il simbolo del Pesce in realtà
corrisponde: IXTHUS, IesusXristòs Theù Uiòs Sotyr; Gesù Cristo Figlio del Dio
Salvatore.
Forse
uno dei “predicatori d’Occidente” tra i quali Nazario Pardini ha viaggiato era
quel San Bernardino da Siena che predicando affermava (e ce lo ha ricordato
Franco Ferrucci, guarda caso, proprio a pagina 44 del suo recente “Le due mani
di Dio – Il Cristianesimo e Dante” pubblicato nel ’99 da Fazi editore): “Pensa
che Iddio ha due mani. Egli ha la dritta e la sinistra, e ciascuna l’opera
inverso di noi… Dalla dritta mano stanno tutti gli angioli buoni, e dalla
sinistra i demòni…”.
Certo
è che nella poesia di Pardini le due mani di Dio appartengono positivamente al
Cristo, identificato secondo l’antica tradizione col “pesceraro”.
Il
quale non per niente ha il dono della parola (e come potrebbe non averlo se di
fatto è Parola, Verbo, Logos?) e parla infatti al poeta che puntualmente
registra l’evento:
Udii una voce tremula e commossa
mentre arrancava. Stava per
morire.
“Se lascerai ch’io vada alle mie
acque
turchesi come il cielo a
primavera,
mi rivedrai al tuo fiume; porterò
le perle più preziose del mio
mare,
avrò la testa d’oro e nelle pinne
coralli blu i più rari da
trovare.
Mi riconoscerai se sarai là,
ti basterà una canna ed
aspettare”.
Io, timoroso, l’afferrai e
d’impulso
lo rigettai nelle onde. Ora son
qui
che pesco. Lo accarezzo. E ad
ogni sera
si leva il pesceraro sopra le
acque
con tutti i suoi preziosi. Si
provò
a risalire, ma, troppo lontano,
non ce la fece. Esplose solamente
il suo corallo ed io ne riconosco
l’oro, l’argento e il blu
che proprio a sera
grida nell’aria con la stessa
voce
che l’anima colora quando è sera.
A questo punto si potrebbe
parlare, in simmetria col “franco cacciatore” di Giorgio Caproni, di un “franco
pescatore” di Nazario Pardini, che però si identifica totalmente col suo
“pesceraro”, su una linea poetica cistologica e cristica di cui un’eco remota
si può forse cogliere perfino nella figura espressionisticamente grandiosa del
malapartiano Cristocavallo di Kaputt.
A
livello più specificamente filosofico-religioso, sono da ricordare almeno
cinque “posizioni” di analogo orientamento e respiro:
prima, quel
passo de “La Persuasione
e la Rettorica ”
di Carlo Michelstädter, dove il giovane autore, esaminando la semantica del
noto simbolo ittico, energicamente ne auspica la dilatazione dal singolare al
plurale, dal cristianesimo alla criticità;
seconda,
l’esplicita assunzione della criticità come categoria filosofica da parte di
Raffaele Perrotta;
terza,
la “Vita di Gesù”, cristicamente impostata, da Giuseppe Rovella, cui tiene
dietro come conferma, a firma dello stesso scrittore di Palazzolo Acreide,
prematuramente scomparso, la drammatica prosopopea de “L’ora del destino”;
quarta,
l’opera complessiva del padre servita Giovanni Vannucci, assertore di una
criticità planetaria, dove la linea orizzontale oriente-occidente si incroci con
quella verticale nord-sud;
quinta,
il grande libro recente del padre catalano Raimòn Paikkàr O.P. “La pienezza
dell’uomo una cristo fonia”.
A tanto si deve arrivare, se
coerentemente si vuole assecondare l’impulso di energico risveglia mento che la
poesia di Pardini trasmette.
Ma
domandiamoci a partire da cosa?
La
risposta è nel titolo di questa silloge:
SI
AGGIRAVA NEI BOSCHI UNA FANCIULLA.
Aprile 2000
Vittorio
Vettori
Prefazione
di
Benozzo Giannetti
a
Sonetti all'aria aperta
di
Nazario Pardini
La raccolta di sonetti di Nazario Pardini si inserisce nella letteratura vernacola che in questi ultimi venti anni è aumentata a ritmo incalzante per l’intensa produzione di un numeroso stuolo di verseggiatori. La divulgazione e la cultura del nostro linguaggio, iniziata nel 1872 con la pubblicazione dei famosi Cento sonetti di Renato Fucini, al quale seguirono, negli anni fino al 1955, poeti di notevole spessore come Beppe dell’Angiolo, Carnecchia, Archimede Bellatalla, Angiolo Lazzeroni, Arturo Birga, Domenico Sartori, solo per citare i più significativi, giunge all’attuale rifioritura, in corso fin dal 1980, incrementata da continui apporti di scrittori, poeti e studiosi che divulgano le loro opere attraverso le pagine della rivista di vernacolo “Er Tramme”, in vita da 15, e con pubblicazioni proprie.
I sonetti del Pardini partono da accattivanti considerazioni sulla vita dei campi, sulla serenità del tempo trascorso lontano dalla rumorosa città: ‘Un lo poi ‘mmginà se ‘un sèi tra ‘ ‘ampi / sòrti dalla città se ciài ‘n istante, / e vieni ‘va a godetti tutti ‘lampi / der mi’ paese ‘onfuso ar sor calante / …
Chi parla è Beppe, un campagnolo che decanta la sua terra con tutti gli strumenti a disposizione: sciorina proverbi come “quando cantà’ ner campo senti ‘rrospo / prendi la gamba, ‘r tempo si fa fòsco”, guarda ammirato le foglie che cadono nell’autunno dorato, sente gli uccelli, la cornacchia, il corvo e le cicale che cantano, vede le formïole e i brüi che vagano, riporta aneddoti paesani di gente strana e un po’ matta come colui che voleva sempre ragione dicendo ad un amico che portava sul barroccio: “Dammi ragione o scèndi. E quindi cèdi / ma ll’artro preferì ‘ndà’ a Pisa a piedi /”.
Sentimenti nobili si riscontrano nelle poesie ‘R Natale, La preghiera, San Valentino, battute satiriche si trovano ne Er giorno della penzione, Ll’Europa: sono commenti amari di torti subiti, sfortune capitate, confronti stridenti tra ricco e povero.
Chiude la prima parte una poesia di 5 quartine (e qui come altrove si fa eccezione al titolo) Arano di gusto fuciniano. S’inizia come ne Le ‘ampane con versi “lirici”, dai toni lievemente enfatici: S’allungano le prode sur pendio, / àpràno lente ‘r sorco dritta e manca / indifferenti ar parpito der fïo / che stende a tterra la su’ foglia stanca /. La poesia corre veloce verso il finale decantando le vacche che però: T’immagini volassero le vacche, vante le teste piene di patacche. Se si vuole, è una battuta che fa sorridere anche se è conosciuta.
La seconda parte “Dar serio ar faceto” ci dà ancora assaggi di ricordi passati, di giovinezza ormai perduta, di amori, di giorni tristi, reminiscenze scolastiche come L’infinito di Leopardi e A Laura del Petrarca.
Nazario Pardini è conosciuto come apprezzato autore di versi in lingua più volte premiati e pubblicati. Ma negli anni ’50-’60 le sue prime esperienze poetiche erano state quelle sul vernacolo (proprio la serie di Beppe riguarda i tempi della fuga della gente dalle campagne). Questo volumetto si configura allora come un ritorno alle origini perché, essendo pisano, non poteva rimanere indifferente al nostro linguaggio colorito, penetrante, satirico, ma pure patetico, caloroso e vibrante. Il Pardini stesso ha ammesso nella dedica al Fucini che “Uno dei doveri principali dell’uomo è quello di non attendere impotente che il sipario si chiuda sulla sua memoria”.
Benozzo Giannetti
Prefazione
di
Gabriella Albanese
a
Suoni di luci ed ombre
di
Nazario Pardini
Sulla poesia di Pardini si è scritto. Questa vuole essere una presentazione della sua nuova silloge, che offre una storia coesa.
L’orizzonte del poeta è ancora e sempre la sua terra: la “grande plaine” battuta dal vento salmastro dove l’anima “ouvrirà largement ses ailes de corbeau”. Così Pardini scolpisce, nella malia dei versi di Baudelaire, l’epigrafe del suo libro: un percorso lirico tra “fins d’automne, hivers, primtemps trempès de boue, / endormeuses saisons”. Un percorso di “coeur” e di “cerveau” attraverso la storia, semplice ed eterna, delle stagioni della terra, dei giorni e delle notti del cielo: “suoni di luci e ombre” che scandiscono la vita di un piccolo uomo, con i suoi amori e i suoi sperdimenti, nell’antica comunità di un paese come tanti, stretta intorno al “canto del pievano”, alle processioni di “scialli neri” nei campi, per trovare sicurezza, per esorcizzare le angosce sublimi di una natura panica che circonda e rapisce nel vortice senza tempo dell’eterno.
Dipana Pardini, nella sua ultima raccolta, il filo della sua breve storia di uomo in filigrana con il tempo grande della natura: metafora eternante e salvifica che consente di slargare all’infinito, oltre la barriera della morte e di una sola vita, il tempo umano e di proiettare nei cicli perpetui e fecondi della natura l’esistenza del poeta, ancorandola alla continua rinascita della terra, che sempre muore e sempre risorge dalla sua stessa morte.
Comincia dall’autunno il “racconto” del poeta, dalle “pavide ombre d’autunno” che inseguono la magia delle “fins d’automne” del grande Baudelaire, per inoltrarsi negli “hivers” attraverso la voce del vento (“era dicembre / che sulle bianche strade . . . / il vento rotolava / vuoto soltanto e sapido del niente / della terra d’inverno”) e approdare alla primavera, all’”aria di maggio ormai fiorile”, quando il vento si riempie di uccelli nei campi (“rientrano da luci consumate / gli uccelli tra le fronde della sera / e portano con sé sapori d’erba / fresca fragranti”) e sul mare, dove soffia la libertà (“su marine / che azzurrano già staglia aria serena / tra tempesta e bonaccia ed è il frullìo delle ali più sonoro”).
Ed è sempre il vento il leit motiv di questo viaggio nel tempo della natura e nel tempo della memoria, quasi una spinta vitale, come per gli uccelli (“a fiotti a fiotti dal dirupo il vento / sfogliava sopra i campi e tra gli ulivi”), o, a volte, un lucido crudele sperditore di sogni (“me li ha rapiti il vento un po’ sberciato / di una sera d’inverno”); ma anche un simbolo ancestrale di magia, di malie antiche, che riemergono intatte dai miti e dalle filosofie della madre Grecia: “il vento sibilava sopra i fili / della luce stridenti strani suoni / delfici di sirene”.
L’uomo di Pardini è un microcosmo, creatura sospesa a metà tra immanente e trascendente, partecipe di ambedue, proteso a carpire i segreti che stanno fra terra e cielo, ma anche saldamente legato al filo sicuro della sua memoria di uomo attraverso la malia della slpeen che emerge mescidandosi le ora del giorno e i segni delle stagioni. Gli “assenzi macerati dell’autunno: “i giorni andati via li puoi vedere / sulle facciate che la luce evade / sfarinata alla sera”.
La natura, con le sue luci e i suoi suoni, dà voce all’anima umana, in un amplesso panico: “sembrano gridi che sfiorano le acque / le rondini radenti di settembre / tra le rive d’autunno”. È il grido di un uomo che trova la sua catarsi lirica nel grido della natura, che avvolge, come scrive Baudelaire, “mon coeur et mon cerveau”. In questa natura totalizzante Pardini scrive la memoria dei suoi amori: “quando ho bisogno di vedere te/ che ancora estendi i dolci sguardi sui/ sepali tardi di una breve estate,/ ti penso prona all’aria salsa di/ un giorno settembrino”. È questa natura che dipana il filo della memoria, il percorso salvifico au rebours lungo le rotte della fanciullezza “sul monte alle Molina” (“un anno, mi ricordo/ appena, in cui mio padre custodiva/ la terra in un’estate di calura/ e di miseria”), dove disegna l’immagine sacrale dell’animale uomo e del suo cucciolo: “lo raggiungevo al solito castagno,/ o io veloce o lui che ritardava,/ perché quel luogo diventasse sacro”: un’icona simbolica che accompagnerà il poeta per tutta la vita (“l’acuto del sudore/ della terra lo porto ancora in cuore/ col calore degli anni”). È ancora in questa natura che iscrive la morte e i rituali umani di conforto elaborati da un’antica solida tradizione: “siamo avvezzi/ noi di paese a fare lunghi viali/ per riportare amici o conoscenti/ all’ultima dimora; e qui la terra ha il solito sapore profumato/ del suolo coltivato”; ora la terra diviene madre che lenisce il dolore dell’uomo, addormentandolo nella ragione superiore dei cicli eterni di fecondità: “ la porta è aperta sulla stretta fossa/ che accoglie generosa nel suo grembo/ un’altra storia. Eppure tutto è dolce”. Ma il poeta vi sovrappone sempre i fili del tempo diurno: è in ogni sera, ogni volta che si chiude il giorno, che l’anima riconosce la sua terra (“canta il piano/ dai campi all’orizzonte e si vernicia/ d’aria di sera…/ si fa grigia/ la nebbia e veste i suoni”) e avverte l’eterno riposo della morte: “ed io la riconosco la mia terra/ come a sera sul frangersi dei suoni/ tutto riposa in pace”; ed è in ogni alba della sua terra che egli torna ad “abbeverare/ al giorno rinascente” la sua “arsura”.
È così che Pardini narra la sua storia dentro la storia della sua terra, con una sensibilità panica, intrisa di viscerale comunicazione can la natura, terragna, salmastra. L’odore e la luce dei campi coltivati, la ruvidità della salsedine marina trovano i loro punti cardinali nella memoria di un uomo fatta di ricordi struggenti di affetti, ma anche di luoghi: la “casa di Molina”, la “casa d’Irene” (“e d’Irene/ e del Serchio, dell’erba e delle avene/ tengo incrostato il verde in seno”), le “campagne di Siena” (“ho sempre dentro il petto infitto il giorno/ trasparente di luce. Illuminava/ Siena velata di mattoni bruni/ dai tetti macolati di licheni/ ai meriggi abbronzati”), che danno il titolo a molte liriche, la malìa millenaria di Sant’Antimo (“è là che tra gli incisi/ ulivi da millenni di ferite/ scoprimmo di una strada ai bordi verdi/ Sant’Antimo levato”).
Su tutto, illusione incontrastata, ultima a morire, domina l’amore: “noi resteremo qui fino alla notte/ rugiadosa di vita. Insieme forse/ debelleremo il fiotto nero che/ distende sopra l’anima il silenzio/ o il grido torvo che la procellaria/ ci lancerà nell’aria di tempesta”.
Gabriella Albanese
Pisa, 8 settembre 1998