Adriana Pedicini: Quintessenza,Edizioni Il Foglio,Piombino (LI),2024
E’ il Verso poetico
della Natura, col suo divenire, scorrere, ruere, procedere che porta suoni,
odori, sfumature di colori in un cantelinare
lento a procurare pace e silenzio
in chi sa ascoltare,ma anche schegge di
doloroso soffrire, contrassegnato dal faro
che diviene tranello per la farfalla notturna alla quale canta un canto di morte / il sonnambulo gufo.
Foglie in bilico allo
spirare dei venti riportano il senso della caducità, rafforzata dalla
similitudine : Noi come loro/ sul ciglio
di vita pronti ad allontanare
l’abisso. L’albero dispogliato riavrà la sua verde chioma , di contro si stimmatizza:
A noi non è concesso il ritorno. Là
dove si percepisce l’acre eco foscoliana di una illacrimata sepoltura o l’acre
condizione della Saffo leopardiana. La poetessa si spinge oltre nell’ amara
presa di coscienza, accentuando l’inevitabile con l’uso dell’inversione nel
costrutto logico: consunte una volta dei
piedi le piante/ alcun vento si alzerà, se non la tenebra nera.
Dopo ogni lampo c’è certezza di serenità e questo
è quello che desidera la poetessa: che il
tempo dilati in fiducia e rassereni / il cielo riflesso dell’anima.
Inutile arrovellarsi
nei sensi di colpa , auspicabile , ma
impossibile, un nuovo spartito. In bilico col pensiero tra un abisso tremendo,un nulla doloroso come un rimpianto, o mondi altri infiniti ed eterni, basta che l’occhio abbracci un
paesaggio per cogliere il segno profetico / del Verbo di un tempo.
Funambuli ci si scopre
nel vivere sempre protesi e assetati tra false
chimere e la schiavitù dei reali
bisogni. Un desiderio permane: giorni
pacati/come a infante il sonno beato.
Tacitati i pensieri ,
vergando di rosso e di blu quelli altrui, passato il tempo a rispondere a domande di senso e di vita dei propri
alunni ora che ci si riappropria del proprio tempo, nessuna domanda che come
spillo ha martoriato l’anima, nessuna risposta consolatoria deve farsi spazio, ma
questo tempo con l’anafora iniziale lo
riempierò deve essere colmo di fiori di biancospino, cieli azzurri, canti
di fringuelli, del mormorio del fiume in una climax che conduce ad
adagiarsi in questa meraviglia che in
quanto tale permette di non avere rimpianti prima del guado.
Il crucciarsi è stato pane
quotidiano con domande senza risposte, dunque il fuoco divori in una sequela di metonimie e
sineddochi parti di sé e nella muta che
di vivere solo mi soddisfi il desiderio/
nelle foglie rosse e gialle del mio autunno.
Calato il sipario sul
palcoscenico di una vita frenetica, la poetessa si vede rappresentata come un
granello invisibile/ di polvere
inutile anche agli uccelli/solo il lombrico se ne vedrà bene. L’emistichio
finale ha sapore di atavica filosofia di vita a cui fa da contraltare la
ricerca di pace nel divino abbandono.
Un sapore e un senso
diverso ridimensiona questo autunno della vita: ogni attimo è un guadagno/ senza impegno e ogni impegno/ ha la
leggerezza del piacere necessario. L’iterazione in anafora iniziale del già nella lirica “Poco a poco” rimarca
lo scorrere del tempo, il passare veloce delle stagioni per ricongiungersi ai
propri cari nel giardino di luce senza
tempo.
Nella sezione “Colori e
dolori del mondo” uno sguardo di condivisione accomuna la poetessa ai nomadi
dei quali coglie il senso profondo della casa: la casa è ovunque noi siamo/perché la casa l’abbiamo nei cuori/ e l’adagiamo a terra solo se stanchi; a chi
è stato impedito di vivere, creando un legame tra le anime vostre e nostre con l’utilizzo del verbo s’inanellano dal comignolo con quella sottolineatura del folle nonsense e di una negazione dei
sogni anche per i più piccoli.
I versi degli ermetici
a specchio ripropongono le ferite di un’altra guerra, “Ucraina 24 febbraio 22”che
la poetessa coglie nella sua tremenda crudeltà: davvero pietruzze da stritolare/ per farne asfalto sulla via dell’oppressione e in “Natale 2022” in cui ripropone un
ritrovato Amore col cuore sanguinante che
ha bisogno ancora di innocenza e di speranza.
In “Morta è la pietà”
si evidenzia un assurdo franare di
pietraie in cuori e terre diverse e un nuovo rivangare le zolle del dolore.
Nel trittico di
chiusura in vernacolo i temi del sogno quale luogo d’incontri con chi non c’è
più, che allontana la malinconia e trova positivo riscontro nell’amore che non
muore; della giovinezza troppo in fretta svanita, al punto che la poetessa
conterebbe ad uno ad uno i chicchi dei cumuli di grano messi ad asciugare
dinanzi al portone di casa dei nonni in cui si tuffava da piccola , per averne
ancora un poco, un poco della bella età
della sua vita; della malinconia che strugge il cuore e fa pensare alla
morte in un’aria immobile prima di sera,
nello straziante silenzio per strada, nel pianto di una madre che invoca il
figlio senza risposta. Per il bene basta una stella che faccia luce in un cuore
oscurato di notte.
In tanta amarezza il
desiderio di guardare alla Croce non col terrore
della finitezza/ma con il gaudio della vita eterna e alla Ianua del Cielo, quale segreto e disvelamento di ogni bellezza/anello che a Te mi
congiunge.
In quarta di copertina
il senso del titolo di questa raccolta : percepire, avvertire tra un
velo di rosa che scolora tra le vette e un’ora
di attesa ma sazia di sé, il prefigurarsi dell’ eterno, un’oasi di pace ove
tutto tace.
Luisa
Martiniello
Davide Rocco Colacrai: D
come Davide –Storie di plurali al singolare- Le Mezzelane Casa
Editrice,Santa Maria Nuova (An),2023
Colacrai dà voce a Storie di
plurali,rendendole parti di Davide.Ripercorre la storia degli esuli e siamo con
lui nelle baracche, che l’una stretta all’altra, con una personificazione rende
meno tristi,le aggrazia paragonandole a un
mazzo di fiori nella mano di un bambino. I verbi al plurale intensificano
la condivisione dell’odor di profugo,
nonché l’uso dell’antitesi: forte e dolce
al tempo stesso / di cibarie,naftalina
e capelli che non potevamo lavare. Così il verbo fiorire per ingentilire in contrapposizione : gli inverni fiorivano all’interno delle baracche/in una processione di
gelo e solitudine. Gelo e solitudine che tornano prepotenti a segnare le
vite di Rigopiano, che hanno un soffitto
di neve e ultime preghiere che si
condensano in cristalli a spegnere un orizzonte
d’amore. Solitudine ancora più pregnante nei 57 giorni di Borsellino, un fiore nella polvere, giorni lasciati maturare/…/ come frutti tra ombre
di grilli in ascolto. Solitudine ancora più acre di quelle lingue di fumo/…/ e che si allungavano come lacrime amaranto nell’estate/ a renderla un’apocalisse. L’attesa di
una madre non ha conti definiti. Dolori e assenze che si intrecciano a «L’ora dei fratelli ( Cile, 1981)», seguiti da un’ombra dei giorni,incerta e
muta, / come la solitudine nel farsi
il segno della croce,l’insonnia, o quella dell’arruso. Qui l’odore acre diviene quello dell’incubo e il sogno non prospetta che un orizzonte senza scorciatoie/ il pensiero fisso all’isola,/ nostra
unica donna,madre e matrigna. Anche nella lirica «Il confino (Isole Tremiti, 1939)» si ripropone la prigionia in un reticolato di pochi metri quadrati.
Pesante la solitudine, l’assenza quasi
tangibile dell’amore,/un’ora come un anno, tra chi raschiava il silenzio o annusava
già la morte. Amaro il ricordo in «Ternitti/Eternit» del sole, per i Cingoli - emigrati, del profumo di iodio tra i capelli in una
terra che dà pane ,ma si fa riconoscere
per il freddo duro delle cose,/puntava la persona,penetrava le ossa,/e apriva
le dita, delle mani e dei piedi, come frutti maturi/e li bruciava. La vita
nella sua fragilità è riproposta con l’angoscia che attanaglia i cuori e le
membra dei figli dell’Amianto, sempre di
un miracolo in attesa , così come nella solitudine di Ercole (Isola di San Servolo,1961)
con il crudo disincanto dell’esilio,
nell’isola dei matti, in una situazione temporale sospesa, che però stringeva quanto rimaneva dell’uomo in un
vecchio/e ne spegneva a poco a poco gli anni da vivere/ al bambino che era
, in una attesa-ricordo a cui aggrapparsi: che
il fratello si mostrasse/ e lo portasse con sé. Per sopravvivere la
violinista detta la pazza in « Concerto per Tchaikovsky - assolo di
donna dal Gulag» più di tutti
rappresenta nel gioco dell’assurdo sogni, per affermare, finché può, il vibrare
dell’armonia tutt’uno con il suo corpo, l’abbraccio di un vuoto che vinca il
buio e forgi una preghiera. La Storia si
ripete con ore crudeli, che siano quelle di Beirut nel settembre 1982 o quelle
di oggi ,sempre si porta addosso
l’odore di morte, sempre le ossa, prosciugate d’amore, pungono come chiodi e si ripercorrono strade,
muri e sempre bocche aperte, forzate le case, l’inferno, un tempo lancinato, perforato dal fuoco con un segno
franto: biancheria ancora stesa. Dal
veleno della guerra si passa ad un altro veleno,un veleno che si è incuneato in
ogni zolla dell’asfalto per un uomo che aveva osato scavare nel grembo indefinito dell’incerto e dare un respiro di
colore per la terra,la vita, e noi figli.
Ecco un atto d’amore ricambiato in quel Si
chiamava Giovanni nella voce bassa del padre che stringe tra le sue quelle
del figlio di fronte a «L’Albero
di Giovanni (A Giovanni Falcone):
Atto I». Spunto di queste storie
plurali la lettura di un romanzo, l’ascolto di un disco,una canzone,una citazione
ed ecco che il verso talvolta assume una
cadenza discorsiva,altra un ritmo incalzante e dirompente,altra una ricchezza
di accordi, di suoni,sensazioni,colori da rendere nella frammentarietà, spesso
atemporale, reti di interconnessioni.
Luisa Martiniello
Ignazio Gaudiosi:Tra
sogno e realtà,Editoriale Giorgio Mondadori,Milano ,2023
La casta degli umani,/…/
ha posto quel suo scettro ove ha potuto./Spinge e sovverte corsi e situazioni.//../Piange
la madre e guarda i suoi gemelli//…/non li potrà vedere il loro padre
. Nell’antitesi lei sorride e piange si apre lo spaccato di una fossa , il
padre dei gemelli sarà posto con altri e
ricoperti tutti senza nome/…/ ignota
la dimora. Tra sogno e realtà ci propone con una ben sperimentata delicatezza di toni ora i drammi che si
consumano alle porte dell’Europa, ora quadri intessuti di ricordi , quasi ad
esorcizzare un tempo che mette sotto la lente della luce accadimenti congelati
in un riposto cantuccio della storia passata, che prepotentemente si
riappropria del palcoscenico di turno.
Il
disprezzo per l’altro conquista le prime
pagine di cronaca e quasi ad emulazione
si ripetono gli abusi, spesso impuniti, a nulla serve lo schermo dell’età/…/ per silenti abusi ad
ogni latitudine di chi è privato della forza/dell’anima
e del cuore.
Il
poeta non disdegna uno sguardo amaro sul presente, sulle necessità nascoste da
un abbraccio, ne «La
giovane del clan», un gesto mercenario che con leggerezza è conquista di una catenina, dileguata dal destinato,
segnato dall’età.
La
donna per il poeta è e deve essere un essere prezioso, che fa convergere in lei grazie e movenze e resta
impresso, per esempio, di un incontro
fortuito, quel ticchettio vivace nel
suo andare,un eco nell’andare che t’insegue; delle acrobate fanciulle ammira la
passione, la costanza : fanno e
rifanno segni come riti./…/ Rifulge
quel linguaggio,/che folgora la vista/ col brivido improvviso/ a una silente,
sospesa commozione.
E
non manca lo sconcerto nel riscoprire presunte
verità create e sparse/ da designati artieri, che fanno le verità di moda al
tempo, ma all’errare collettivo ecco trovato il rimedio: la buona fede per l’utile d’abuso, che l’occasione ha
imposto ad operare.
La
calura accanita accende senza posa il
frinire delle cicale , occasione di riflessione
per altri richiami: si sciolgono
le nevi,/e pure quei ghiacciai/detti una volta eterni./ Si sgretola la roccia.
Il poeta fa sentire il suo pianto per
i mutamenti climatici, e condanna anche
l’incoscienza, così come un
improvviso bordo che discende lo porta ad affermare : dovremmo ripensare a un passo nuovo.
La
natura si ribella: arde la terra in ansia,l’accidia
ha colto pure le spighe,fogliame e
fiori,/ che attendono un ristoro per non morire ancora:non sanno maturare// Il verso che s’è perso va trovato. Altrove La terra inaridita non riceve,/ rifiuta,si
sommano i livelli/fanno fiumara,che s’apre le sue vie,/ sfonda e dilaga in
furia /…/ Rimane solo il pianto e la rovina. Il poeta critica gli accorgimenti di occasione che non
riportano le cose a come erano, invita a guardare alla Natura madre con il dovuto rito nelle cose.
Il
testo è intessuto anche di tanti ricordi: la figura del nonno che consumava con
lento manovrare il tabacco nella pipa, le nuvole
azzurrine, gli sbuffi lenti, un
susseguirsi di combinazioni che
riportano l’odore delle cose tra il profumo acceso degli aranci e il
poeta si volge a quell’ore antiche,
al garbo di parole pronte
all’occorrenza del padre ed ecco qualcosa
somigliante ad un rimpianto.
Riaffiora
alla memoria il guaito di gioia del cane Dogali,
guardiano alla catena/ ai tempi
d’Abissinia, che ha lottato col lupo,per difendere la famiglia e «Il trillo dei
rondoni», virgole nel cielo,spersi puntini, in
latitudini lontane o saette nella
sera. E la loro gioia diviene la
nostra, rapiti da quelle veloci prove di un prodigio, che con
mille acrobazie/.../miravano nei vicoli la rotta/…/ a squadra. Anche
loro non si vedono più da tempo e quello che incanta è quell’agire in gruppo, quell’andare a
squadra: un monito per gli uomini sempre più monadi.
Ha segni di
mistero il marranzano,
con la sua voce quieta l’anima con le
sue vibrazioni disegna panorami di
rimpianti , ricorda gli usi antichi,rimanda
ad una quiete più semplice e serena.
Ecco
l’anima del tempo a ravvisare il gelo intenso, specie nel Trentino, superato con le “braghe alla zuava” e gli scarponi a doppia suola in duro cuoio,/
armato con le “brocche” per la neve,
i bubboni regalati con i passaggi sui
lastroni pressati poi a casa con la lira,/che
rilasciava sempre quell’effige:/ la testa del regnante; a ravvisare volti del passato, a ricucire
circostanze-scusanze di fronte a una
lastra che divide nel segno assai
infantile di un ritorno, a rivedere quelle fila per la via per la quale non si passava spesso, ma con la guerra,
la fame, il razionamento e tessere coi punti che il padre impiegava/ per generi da dare a quei reclusi,
in sanatorio, un sacrificio per chi stava peggio,che fa dire altrove:
Bella
la vita/Bella l’amicizia/ Bella la natura.
Un
canto ai luoghi dell’anima, dell’infanzia, della giovinezza : un commiato
memoriale che nulla lascia all’improvvisazione.
I
luoghi, seppur rivisitati, hanno un loro incantamento, racchiudono segreti, si
percepiscono altre sensazioni in quel
sommesso sciame di sentori, ogni curva un invito, ché un mondo… si dimostra nuovo,/
così lui fa pensare/ e la sparuta vista
di una casa/racchiude un suo segreto,/che incute una discreta soggezione.
E
nell’andare tra strade a gomito e sprazzi di vuoti, alternati a zone di
rigoglioso fogliame, l’attesa di segnali in un susseguirsi di riflessi, giuochi facili
di lampi, sequenze di rivoli lucenti.
Un serrato proseguire, per cogliere impressioni nel perenne brulicare/ e fremiti a spiragli e poi lucori.
Il tempo ha dichiarato la presenza,per il
poeta non è più tempo di avventure, di ardimenti, ma neppure d’inedia. Ora
si addice un procedere più cauto, ma
l’assillo del pensiero è lì ed ecco altre prospettive : dipende dal momento, dagli abbinamenti, da alterne ipotesi che
inducono a qualche prospettiva/per via di quel ricordo che sovviene/ o da influenze con l’ispirazione che
porta nuovo scompiglio.
Sfidano
il tempo le pagine dei muri con notizie,
ammonimenti, segnali, inviti ad osservare. È una sfida col
tempo la lampara che fa da richiamo ad un agguato nella quiete dentro al golfo,ma la mente va ad un volo di farfalle a
primavera, ricorse per la grazia dei loro colori, prede appena
tra un pollice ed un indice bambino, che tra grida di rimprovero,liberate, sono seguite dal rimpianto del momento.
La
vita è ansia, rincorsa,sosta,attesa,ripartenza,sfida, desiderio di approdo.
Il
poeta è sempre in attesa di un cenno
che sveli attraverso abbagli o frange di
frammenti un groviglio di esistenze o di misteri. L’uomo in attesa cerca un’altra luce/oltre il silenzio eterno/oltre
il lenzuolo eterno costellato. Il deittico Oltre, in anafora iniziale, prolunga vertiginosamente questa
proiezione.
Si
resta a meditare sull’ignoto, pronti a percepire, ravvisare il cenno di un segnale che pare profilarsi anche quando
l’alba sta concependo la sua luce, ma
nel proseguire di accenti di pensieri/
estranei a una intesa del momento si
crede in verità raggiunte, subito smarrite.
Il
percorso del fine indagato, amorevolmente atteso, se al contempo è oggetto
sempre di interrogativi sul suo senso, dall’altra dischiude nelle tappe del
viandante – poeta ad emozioni che fanno presupporre un cenno/dall’infinito ignoto che rimanda a vite non vedute d’altri
soli/…/a un groviglio di esistenze e di misteri,sicché Tutto sorprende.È la Liguria, terra
d’adozione, che ricuce la parola poetica ai fruscii,
a improvvisi cenni di ipotetici messaggi, a guizzi che sembrano aprire a risposte, di contro un groviglio inestricabile di rovi, la
muraglia montaliana e solo riflessi che
rimangono negli occhi. È la parola lirica
dell’attesa, della conquista della bellezza, associata ad una richiesta
assillante di Verità, e l’amore che rendono l’andare degno: provare sentimenti e commozioni è una lezione che provvede al cuore/ e si
diffonde per quelle verità/che fanno tanto caro il proseguire, pur se tra
contrasti, combinazioni, occasioni, giochi di correnti:il concetto è che nulla resta fermo. L’esplorazione interiore come
del paesaggio lunigianese, del visibile-invisibile divengono mondi
complementari, trattati con una soffusa
malinconia. La parola, curata,si incastona in un verso che con naturalezza risuona
dei suoi accenti, anche per le sue rime baciate o al mezzo in un andamento che
accompagna ora il ricordo nostalgico, ora l’accusa senza verve di modalità di
vivere, che escono dai binari dell’onestà, della correttezza nei rapporti anche
rispetto alla Natura, violata dagli interessi del momento.
Luisa Martiniello