a
Rodolfo
Vettorello: Elogio dell’imperfezione. LuoghInteriori.
Città di Castello. 2015. Pg. 90
Un
ossimorico gioco di vita e morte, di rumori e silenzi che rende vitale, vicino
e oggettivo il messaggio tormentato dell’uomo
…Solo
il cuore
la sua tachicardia
disordinata,
dà il giusto ritmo al vivere
una vita
di un’unica certissima
nozione:
la meraviglia
dell’imperfezione (Elogio dell’imperfezione).
Mi
piace esordire da questa citazione testuale tratta dalla poesia che si pone
come momento incipitario con valore eponimo per evidenziare, fin da subito,
quello che è il focus alimentatore
della silloge di Vettorello. Una poetica che guarda più al sentimento che alla
ragione. D’altronde è proprio l’interiorità con tutta la sua forza emotiva a
fare da pilastro ad ogni manifestazione artistica, a fare da nido, per
ospitare, nutrire e riscaldare ogni modulazione ritmica; per animare quella
sonorità che avvince e convince come lo può un intermezzo della Cavalleria
rusticana di Mascagni o della Butterfly
di Puccini. Sì, dico proprio di quella musicalità indispensabile a che la
Poesia possa dirsi tale: un valore aggiunto allo scorrere dello spartito di
questa plaquette. È la passione, quindi, con gli impulsi di sostanza e
potenzialità creativa, fonica e cromatica a creare la substantia del canto. La ragione, semmai, tende a frenare questo
disordinato movimento, questo incontrollato subbuglio, queste grandi vertigini
esistenziali, queste impennate iperboliche, per
richiamarli all’ordine, al freddo equilibrio della razionalità, che è
agli antipodi del nutrimento estetico. E qui tutto prende il via dalle cose
minime, dai piccoli fatti, dalle grandi questioni, dalla coscienza della
pochezza del fatto di esistere per azzardare sguardi oltre gli orizzonti, oltre
il tempo, oltre le siepi del nostro umano vivere: un percorso da via crucis che
alimenta una poesia forte, nerboruta, e di perspicua intensità umana:
… Siamo fantasmi, corpi
inconsistenti,
monadi sperse della stessa
storia,
siamo gli avanzi dello stesso
pranzo
o solamente come bolle d’aria.
Siamo le frasi, chiuse in un
fumetto,
di personaggi
da fotoromanzo
(Fotoromanzo).
Dacché
è nelle vene dell’uomo, è sua natura,
cercare di superare i limiti della terrenità, delle ristrettezze
dell’esistenza, della gabbia in cui è vincolato. E allungare la vista verso
spazi che superino la nostra precarietà significa agguantare la coda
dell’inarrivabile, dato che non ci è consentito di essere tutto, e che questa
diatriba fra il tutto e il niente, fra il giorno e la notte, fra l’umano e il
divino, fra l’assoluto e il relativo costituisce il tormento del nostro
esser/ci, a cui il poeta cerca di ovviare confondendo il suo pathos in “… frenate allegrie d’abbandoni/ a una
musica dolce d’orchestra/ sulle molli lagune. // Sto pensando/ alla triste
allegria di Albinoni”. Una
dicotomica fusione pascaliana che si fa inquietudine della nostra vicenda,
della vicenda di un essere coi piedi a terra e con lo sguardo rivolto
all’oltre, allo svincolamento dalla materialità; afferma in un celebre passo
Blaise Pascal:
<<Quando
considero la breve durata della mia vita, inghiottita nell’eternità passata e
futura, l’esiguo spazio che occupo, e che posso vedere, inabissato
nell’infinita immensità di spazi che ignoro e che non mi conobbero, io sono
atterrito, sono sorpreso di essere qui piuttosto che altrove; giacché non vi è
motivo al perché qui anziché là, oggi anziché domani. Chi mi ha messo dove mi
trovo? Per ordine e istruzione di chi mi sono stati assegnati questo posto e
quest’epoca? L’eterno silenzio di questi spazi infiniti mi
terrorizza>>.
Forse è proprio nella varietà dei
policromi affreschi naturali che il vivere trova un’analogia col patema vicissitudinale ed è proprio col
ricorrere ai lampi di Pan che il poeta riesce a dare concretezza alle sue intime
nostalgie. Una risposta al fatto di esistere:
… Voglio cercare il sole dove
c’è
e voglio avere un’ombra che mi
segua
per farmi compagnia,
sola certezza mia
che sono vivo, esisto e lascio
un segno (Un’ombra che mi segua).
Un
ricorso alla natura per individuare la soluzione ai quesiti esistenziali,
soluzione tanto dolorosa quanto problematica, per affidare a luci ed ombre il
linguaggio del poièin. Ed è così che
l’autunno, la notte, il nulla, il mare, la sorgente, il fiume, il sasso, la
neve, le stelle, i monti, le voragini non sono altro che frammenti di un’anima che cerca di rendersi concreta,
visiva mettendo in gioco tutti i moti ed i perché dell’esistere che non trovano
soluzioni: melanconia, solitudine, Eros e Thanatos, e voglia di volare, di
uscire dalle grinfie dell’inquietudine umana, troppo umana:
Andare via da qui, come
d’autunno
la nube spinta al filo
d’orizzonte
da un alito di vento mentre il giorno
apre le porte a un brivido di
luna.
(…)
Vorrei partire come
l’aeroplano
che taglia il cielo col suo volo
sghembo.
(…)
Voglio andar via in un attimo
e sparire
come la nube ch’è trascorsa
adesso… (L’insignificanza).
Un’inquietudine
che va a braccetto con il pensiero della morte:
La temo così tanto la mia
morte
che a volte spero si sia già
conclusa
la tragica avventura della
vita
e tutto sia finito
e d’essere già morto
a mia insaputa
(A
mia insaputa).
Un
timore che torna spesso in questi versi a fare da leitmotiv, e dare compattezza
al tessuto poetico:
Non ci sarà nessuno che si
accorga
se griderò che non vorrei
morire.
Il nostro pianto è nulla e si
disperde
dentro il frastuono delle cose
vive:
la musica lontana di un
jukebox
e i canti e i gridi dei
bambini al sole.
Si muore soli e senza far
rumore (Così è morire).
Un
ossimorico gioco di vita e morte, di rumori e silenzi che rende vitale, vicino
e oggettivo il messaggio tormentato dell’uomo. Questa necessità di sottrarsi
alle pene col “finire adesso”:
… Se si perdesse
e se davvero tutto si
perdesse,
vorrei finire ma finire adesso
(Porterò con me).
L’eterna
diatriba fra la fine ed il sempre. Forse volgendo la prua verso ignoti mari o
verso onirici spazi c’è la possibilità di rendere meno gravosa l’esistenza,
meno pesante la routine quotidiana, o una tristezza di periferia:
Una tristezza di periferia,
in questi casermoni disumani
al limite di un mare di binari.
(…)
Sono le otto ed è già buio
fuori,
domani all’alba il buio è come
ieri.
Le stesse case a ridosso dei
binari,
le stesse luci alle finestre, accese,
le stesse storie, identiche le
attese;
domani sarà un giorno come
ieri
(A Rogoredo).
D’altronde
il sogno fa parte della vita, ne è una componente essenziale e serve a
sottrarci alle aporie della monotona quotidianità o al pensiero di noi stessi:
Andiamo via di qui.
S’è fatto
tardi
ed io non voglio stare dove
stanno
le donne che patiscono in
silenzio.
(…)
Non ti trattiene il bene che
c’è stato
né le promesse e il pianto che
mi scioglie.
Neppure un figlio,
la magia
d’amore,
il segno di un legame
indissolubile,
ti obbliga a restar.
Tu rinneghi
qualsiasi cosa ti trattenga a
terra.
Sciogli ogni ormeggio e salpi
ad ogni sera
da questo approdo verso ignoti
mari (In tanti porti ed in nessuno).
… Non ho mai smesso credo di
sognare
e sono ancora qui che spero, a
tratti,
per un’ultima volta di volare (Il
sogno di volare).
Un
volo lontano dalle sottrazioni che però ha breve durata:
… Si piomba giù di colpo nella
vita
e si rimbalza a lungo
come una palla o come un sasso
piatto,
sull’acqua troppo ferma di uno
stagno… (ibidem)
D’altra parte cosa è la poesia se non
che uno slancio dell’anima al di fuori del suo abitacolo verso il cielo, o
verso un passato che ci appartiene o verso quella natura che tanto simboleggia
la nostra storia; un volo che, una volta
intinto di colori e profumi esuberanti o autunnali, rincasa per
rovesciare sul foglio corpi a rivestire segmenti in cui l’anima stessa si è
frastagliata. E che cosa se non che vita, in tutta la sua polisemica
significanza, in tutta la sua plurivocità di illusioni, delusioni, sottrazioni,
sogni, utopie, dolori, che, tradotti in canto di tanta energia classico-moderna
come quella del Nostro, embricano indissolubilmente l’ieri l’oggi e il domani
in una simbiotica fusione che tende a sottrarre la bellezza agli annichilenti
artigli del tempo: “La vita è l’arte dell’incontro”, affermava un poeta
brasiliano, Vinicius De Morales, “e vita e poesia sono la stessa cosa”.
Questa è la Poesia, assieme al
patrimonio delle nostre memorie che preme con urgenza per tornare a vivere dopo
una lunga decantazione. Che preme dopo che si è tradotto in immagine. Ma anche
il memoriale si tinge di tristi colori. Di accentuazioni aggettivali che ne
fanno una rievocazione melanconica, sfumata nel tempo. Un sentimento di spleen e di malum vitae che si insinua nel substrato del “poema” senza mai
raggiungere, comunque, punte di marcato pessimismo e che, in effetti, si
traduce in terriccio fertile per una buona resa di ermeneutica fattura:
Come era triste la
città nell’alba
e come, dai lampioni ancora
accesi,
spioveva sul bagnato delle
strade
una sottile polvere di luna.
(…)
Presto si sveglia e presto si
addormenta
questo ritaglio grigio
di città.
(…)
E’ sempre triste la
città puttana
ma nel chiarore pallido
di luna
una canzone sale dai binari,…
(Porta romana).
Tutto pareva svaporato,
al tempo
e tu svanita, come alla
memoria,
la pallida parola che
fu desta
l’attimo prima di finire.
Fanno
come le foglie quando arriva
il vento
le tende alla finestra della
stanza… (Fotoromanzo).
Chimere vuole dire un altro
mondo
promesse disattese,
profondità insondate della
mente,
memorie cromosomiche irrisolte
e pura suggestione d’altri
altrove… (Les chimères).
Le
sottolineature delle aggettivazioni sono mie a rimarcare scene di ricordi
melanconici che portano la loro bruma a disfarsi nel tempo.
E
tutto questo, evadendo ex abundantia
cordis con grande eleganza e proteiforme simbolismo, fa del verso un intimo
abbraccio di vaghezze semantiche dove la metaforicità fonosimbolica e i
ripetuti enjammbements riescono ad evitare l’endecasillaba naturale cadenza e
l’insidia dei luoghi comuni, dribblando, anche, quel sentimentalismo, che
Contini definiva “pulizia del desiderio”, in un linguismo che assume valenza di
realismo lirico.
Poesia dunque densa, classicamente
impostata, infoltita di motivazioni attuali, ma pur sempre esistenziali, in cui
i versi, alternando misure brevi a più ampie aperture (quaternari, quinari,
settenari, novenari, decasillabi, ipermetrici), si predispongono ad accentuare
importanti significanti metrici in endecasillabi che si succedono come cascate
di vera musicalità. Che, in corrispondenze e punti fermi a metà del verso,
convalidano ancor di più per classici questi testi, esemplificando una ricerca
continua d’innovazione verbale e assecondando gli intrecci etimo-fonici dove la
parola si vincola e si svincola, si accorcia e si amplia, si arrotonda e si
smussa per combaciare, il più possibile, con gli abbrivi emotivi. Pur sapendo
l’autore che non ci sarà mai un topos sufficiente a tradurre del tutto le
espansioni dell’anima, dacché la parola è un segno terreno, e l’anima è di più,
è qualcosa che supera ogni intenzione mortale:
Logora il cuore
quest’incapacità della parola
a dire l’indicibile,
a tentare,
solo a tentare almeno
di cogliere in un verso
l’incantesimo
di ciò che accade, a volte, in
un istante
e che sappiamo
nessuno al mondo potrà più
rifare… (L’incapacità della parola).
Ma quello che risulta, alfine, dalla
lettura contaminante di questa silloge, è che il poeta, con tutto il suo
travaglio esistenziale, col suo
desiderare presto la fine, non fa che dichiarare tutto il suo amore per la vita. E penso che la sua insofferenza derivi
proprio dal fatto che esista lo spettro di Thanatos, come atto conclusivo a cui
non si può sottrarre, cosciente di perdere il bene più grande, il dono più
prezioso che fortunatamente gli è toccato. Ed è così che vorrebbe ingannare la
sorte, togliendole la possibilità di scegliere sul suo destino con una poesia a
cui affidare tutto se stesso; un futuro foscolianamente duraturo. Magari
volando o rimpiazzando la sua malinconia con un sogno che lo porti in un
lontano ipotetico azzurro:
e sono ancora qui che spero a
tratti,
per un’ultima volta di volare.
Nazario Pardini