Giusy Frisina collaboratrice di Lèucade |
Poesia chiara, armonicamente
diluita in versi che si fanno concretezza ontologica di un sentire potente e
plurimo; di un sentire che trova la sua epigrammatica lucentezza in un mare
tanto vasto quanto la sua storia; quella dell’uomo alla ricerca di se stesso, della
sua dignità, di un’isola, di una patria, di un mondo che lo completi e che
completi la sua irrequietezza di essere umano; il viaggio, quell’odeporico
impulso che Ulisse ha provato ed Enea spinti dal misterioso azzardo verso
l’ignoto. E quale immagine più netta che l’immenso piano azzurro può simboleggiare
lo stato esistenziale di un essere tutto
vòlto alla grandezza, all’apertura, a quegli orizzonti che tanto sanno di naufragio
leopardiano; a quei confini che mai potrà raggiungere data la sua pochezza, la
insoluzione ai tanti suoi perché. D’altronde l’uomo da sempre ha cercato di
scoprire il mistero del suo esistere; è nelle sue corde abbandonarsi al viaggio,
al mare, alla scoperta, dacché le sirene, le colonne hanno sempre simboleggiato
il sapere e la voglia di andare oltre. Ed è proprio al ritorno, magari, che,
ormai ricchi di storie e di vicende, scopriamo la tanto sospirata e
indecifrabile verità nelle cose più semplici: “Felice come Ulisse chi ha varcato i mari, o chi fino
alla Colchide si è spinto, Giasone, che poi tornando esperto e ricco di ragione il
tempo che gli resta si gode fra i suoi cari!” (J. Du Bellay, Les regrets). La Poetessa, ispirata dalla superba
storia del Mare Nostrum, dalle grandi civiltà che l’hanno percorso, dai mostri
sacri che si sono spinti nei suoi misteriosi gorghi, allora affollati di miti,
giunge con grande partecipazione emotiva al Mediterraneo di oggi; alle sue
acque tormentate da grecali, scirocchi, e libecci a danno di poveri esuli che
cercano terre ospitali; un mare che si fa nero, e che inghiotte tanti di coloro
che, spinti da necessità umane, vengono sepolti dalle sue acque; quelle che,
probabilmente, ancora oggi conterranno nei fondali legni di achei in cerca di
siculi riposi. Un mélange di cultura classica appena sfiorata, di attualità, e
di tematiche coinvolgenti in un fluire
metrico di urgente schiettezza partecipativa: “Mare nero comunque nella notte/ Di inauditi pianti e di
tempeste/ E irrequieti tam tam/ Su tavole
di navi barcollanti/ Giunte impreviste da sud est/ Con l’osceno Scirocco
- O da sud ovest/ Coi più gravi sconforti del Libeccio …/ Mediterraneo amaro/
Non sai più chi sei ?”. E dire quanto il mare sia parte integrante della vita
della Frisina è come rimandare il pensiero ad Alfredo Panzini che definì i
Poeti (quelli veri, e Frisina lo è) “simili al faro del mare”. Sì, a quel faro
che allunga la sua scia fin dove può; ed è lì che la Poetessa sente la
necessità di prolungare lo sguardo oltre quel limen, al di là degli orizzonti
che demarcano il nostro esistere. Ed è per questo che la poesia si nutre di
tutti quei messaggi che caratterizzano la vicenda umana. Anche e soprattutto quella
di tutti coloro che cercano, attraverso le insidie dei marosi, una terra su cui
far crescere figli liberi, con in mano il bene più prezioso: la dignità di
essere umani.
Nazario Pardini
Mediterraneo
Mare nero? No, Mediterraneo.
Ovvero più che mai serbatoio
Di memorie e voci inesauribili
Pozzo senza fondo di un antico
sogno
Né da Enea mai raggiunto - né
da Ulisse.
Mare nero comunque nella notte
Di inauditi pianti e di tempeste
E irrequieti tam tam
Su tavole di navi barcollanti
Giunte impreviste da sud est
Con l’osceno Scirocco - O da sud
ovest
Coi più gravi sconforti del Libeccio
…
Mediterraneo amaro
Non sai più chi sei ?
Un tragico dio che invoca compassione
Mentre pretende solo
Segreta contemplazione?
O solo follia delle ultime ore
Di spiagge affondate negli occhi
Di chi attende o già parte per
l’ignoto destino?
Spiagge vomitate di conchiglie
vuote e rifiuti
Prosciugate d’anime e di corpi
Ora fantasmi - alieni
lungo i porti
Improvvisati tra le macerie e i deserti
Dell’altra sponda.
Di qui campi - senza filo
spinato, ma per poco -
Malgrado la storia urli
memoria
A chi dimentica più in fretta
del suo dio.
***
O stella d’acqua
Trasformata in marea di pesci
E spuma luminosa
Ricordati della tua remota bellezza
E non stancarti di raccontare le
tue storie
E degli sguardi persi
Di chi è pur sempre umano!
Non lasciare ai freddi
timonieri
Senza cerimonie (pur sempre umani?)
il dominio di un mare ch’è di tutti
E di nessuno. Che poi, non
siamo noi stessi?
Gli uni e gli altri …
Storditi ed abbagliati
Con troppo sole negli occhi
Andiamo sempre senza posa
Per nuove strade di sabbia e dolore
Aspettando di arrivare tutti -
liberi finalmente -
Al Mare Nostrum.