Francesco
Filia: La neve. FaraEditore. Rimini.
2012. Pg. 56
Una
sintomatica metaforicità riguardante il tempo, i “detriti” e la fragilità della
vita
La neve. Titolo
intrigante ed di prodromico invito ad una lettura di polisemico senso; di una plurivocità
acchitante; di un innesto generoso a significanti che fanno del reale una
sintomatica metaforicità riguardante il tempo, i “detriti” e la fragilità della
vita. Tutto scorre e tutto si scioglie al vento come un nevischio che l’Autore
pensa su Napoli ma che in verità Egli traduce
in sostanza e potenzialità creativa, fonica e cromatica di significanza
ontologica. I versi si distendono su uno spartito ampio e figurato, affidati al
supporto d’intrecci di una narratologia fortemente epigrammatica che sa volgere
i suoi verbi ad un lirismo di
contaminante resa poetica. Direi nuova per movimenti fono-prosodici e per
sintonia contenutistico-formale. Una ricerca di ampio respiro, dove l’Autore,
con espansioni lessico-prosodiche, va oltre il sintagma, oltre la misura usuale
dell’impiego formale, perché è l’anima che lo richiede, sono gli input emotivi
a volerlo; ed è così che il dire allunga il tiro intrecciandosi in costruzioni
di una resa poematica nuova e visiva; anche memoriale, o descrittiva o
riflessiva, ma pur sempre di un lirismo realistico, o di un realismo lirico
alla Capasso. Ed è così che il Poeta fa delle realtà fenomeniche veri volumi
del suo sentire; veri corpi dei suoi input emotivo-intellettivi che si distendono
– e non è azzardato dirlo - su percorsi
di ampia prosa poetica; dacché tanto carico è il cuore di confessioni da
esternare e così gonfia la sacca di esperienze vissute da richiedere ampi spazi
nella loro funzione rivelatrice:
La
neve, quella vera, non l’abbiamo mai vista
se
non nella bocca a nord del vulcano
nei
pochi giorni del cristallo dell’inverno come una minaccia
che
ricorda quel che non abbiamo temuto abbastanza
ma
il gelo, quello sì, è dentro di noi fino alle ossa
e
lo sentiamo che morde le giunture e crepa le ossa
fino
al midollo. Ce ne accorgiamo di sorrisi tirati
dei
passanti, dai gesti circospetti di chi vive per strada
dalle
urla dei ragazzi impresse nell’aria, dal vostro esitare.
Un
freddo e un ghiaccio che va oltre la questione atmosferica, e che si fa
intimità nascosta, incontro di sguardi, incomunicabilità fra animi, dove “anche
le mura sapranno chi siamo scrutando la paura dei nostri occhi e allora potremo
solo obbedire ascoltando il silenzio che si insinua tra il vocio e il magma di
piazze e strade, che invade portoni e giardini a mezzacosta, che copre
frammenti di dialoghi affannati di bocche e cuori e allora, tra vestiti gettati
e l’odore di arance cadute, saremo veri e senza età come chi dovrà morire sul
serio”. E’ da questo frammento - Napoli, 2007 - che inizia la scalata di un
poema tutto vòlto a concretizzare le vicissitudini ontologicamente umane,
trasversali, e di concretezza spirituale
che trovano nel bianco sporco della neve il simbolo più consono “a una voragine
di morti lavati via da marciapiedi e palazzi spalle al mare”. Un frammento che
può porsi come momento incipitario con valore eponimo e che fa da antiporta ad
una successione di altri XXIX a cogliere, con grande rilevanza creativa,
ricordi e lacrime; passato in occhi chiari; grigi sporchi di strade; risate
sguaiate e sguardi ghiacciati; esodi tra cortili e sgomenti; sagome in
controluce; risacche, maree, madri; macerie e detriti: “solo silenzio e radici
rinate sotto l’ultima neve che cade… nera… Accecante”.
Nazario
Pardini
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