Grazie alla sorella e al suo matrimonio con Hubert Parish,
ufficiale britannico e figlio del Console inglese a Torino, entrerà in contatto
con Felice Casorati e Cesare Pavese ampliando le sue conoscenze culturali.
Viaggerà in Egitto e in Grecia. Nel 1934 comporrà in viaggio
la poesia Akropolis divisa in due
parti, in cui esprime la sua commozione quasi religiosa di fronte alla
grandezza della cultura e della storia, parendole di ritrovare quasi una ideale
terra natale.
L’infanzia la vede ospite dei nonni bozzolo a Torino, dove
frequenterà le scuole elementari.
La prima guerra mondiale la vede sfollata a Varallo Sesia,
dove frequenta e porta a termine gli studi liceali ed inizia le sue prime prove poetiche.
Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale la famiglia
abbandonerà Vienna, riparando in Italia: la casa viennese verrà invasa dalle
truppe russe nel 1945. Quando i De Toma vi ritorneranno la troveranno
devastata, in parte incendiata, biblioteca ed archivio dispersi.
Sono anni di dolore, di amarezza, di delusione. Alla casa
della sua infanzia dedicherà una lirica crepuscolare ( Al ritratto di una casa) densa di dolore inconsolabile:
Ti guardo come se guardassi una cosa morta,
qualcuno a cui non si possa parlare o non si possa
compiangere.
Le fronde della giovane vite e il bianco gelsomino
s’arrampicano su per le tue finestre, verso l’alto.
Come te ne stai quieta alla luce del sole!
Tanto ti ho pregato nel momento del congedo,
e tanto vorrei portarti nel mio cuore,
dopo che sempre in una stanza sconosciuta
l’angoscia mi ha accolto.
Anche oggi ti guardo in pace:
come se a una cosa morta guardassi,
qualcuno a cui non si possa parlare o che non si possa
compiangere.
Il soggiorno a Rima con la madre la vede chiusa in sé,
appartata in un lungo silenzio. Eppure il paesaggio consolante la richiama
all’infanzia serena e alla vita:
Ora io torno a guardare il bosco di larici,
penso ai teneri sentieri coperti dal muschio,
e mi addormento come un bimbo stanco di giungere correndo
da un paese di fiaba già da tempo scomparso.
Ricorda momenti gioiosi come l’escursione sul monte
Tagliaferro che domina Rima,il colle d’Olen, i fiori primaverili come i colichi,
che sbocciano improvvisi, i nontiscordardime, che lei chiama àughine,le
genzianelle chiamate lilliine, il rododendro, il ràtbiamine ricordati nel loro
nome walser,l’autunno inoltrato che annuncia conl’inverno forse la Morte, che
induce a non aver bisogno di nulla.
Solo la fede sembra confortarla. Ritocca i suoi lavori, li
cesella senza più alcuna volontà di pubblicarli. Nel crepuscolo della vita, il
mondo della giovinezza oramai malinconicamente lontano, la solitudine sola sua
compagna, scrive in “Liebelosen frauen”, Donne
dall’amore perduto, quasi una confessione:
noi donne senza amore
…siamo come luci in declino: una tavola vuota
ANNINA DE
TOMA,
Poesie…, cit., Gruss, Saluto,
p.209, Poesie sparse.
da cui l’ospite si è presto alzato…
noi donne senza amore siamo presto consumate:
dovessimo prepararci alla gioia,
o volessimo scioglierci in fiamme
Pudore è un
sentimento che caratterizza la sua personalità poetica ed è la traduzione al
femminile di molti sentimenti e stati d’animo di Rilke, il maestro a cui
idealmente s’ispira, sentimenti misteriosi e vertiginosi, sottilmente
inquietanti, pur legati alla concretezza quotidiana del vissuto; un termine
quello di pudore, che ben riassume il
rapporto della poetessa con la poesia e coi suoi sentimenti più intimi: lo
stesso stato d’animo che l’ indurrà a non pubblicare le sue opere, a
nasconderle all’indiscrezione degli sguardi del mondo.
Molti dei suoi temi sono di ascendenza rilkiana: il
tema della notte, del vento, del viaggio, dell’autunno, della solitudine….
Nessun amore mi attende, / nessuna gioia, nessuna
preoccupazione,
nessun lavoro, nessun mattino! E sussurro come in preghiera,
e gemo come in sogno…
È lo stesso stato
d’animo che l’avvicina a d un’altra grande poetessa, Antonia Pozzi ( 1912-1938), 1 milanese, che ha vissuto la sua tragica giovinezza
nello stesso periodo storico, autrice pubblicata solo dopo la morte, stato
d’animo espresso in una poesia che ha proprio lo stesso titolo: Pudore.
Molto simili sono anche le biografie delle due scrittrici:
famiglia d’origine importante, colta, aristocratica di provenienza, studi
impegnativi, amore non superficiale per lo studio, letterario in particolare,
per le lingue straniere, per la fotografia, i viaggi…., l’amore per la
montagna, la natura…. Comune la solitudine esistenziale, gli amori infelici, la
fatica, la stanchezza di vivere.
Sempre più stanca è l’anima/ e più lento il suo passo;
pietà di chi teme,/ già molti anni con sé trascina…”
scrive Annina in Il
sentiero dell’anima, cui fa eco parimenti la voce di Antonia:
o lasciate lasciate che io sia/ una cosa di nessuno
per queste vecchie strade/ in cui la sera affonda-
poi ch’io sono una cosa-/ una cosa di nessuno
che va per le vecchie vie del mondo- ( Largo)
e la difficoltà di vivere, di credere appare lancinante di
uno smarrito dolore che si aggrava senza trovare via d’uscita in I suoni del cuore:
Tu costeggiavi i misteriosi sentieri
della mia anima inquieta: tu solo li percorrerai…
Tu venivi vicino ai rimbombi del cuore,
salivi i sentieri dell’anima,
che tu solo conosci.
E a mezz’aria restava, nella mano del campanaro,
la corda del cuore che si spegne
Sentimenti che A. Pozzi ben conosce per averli
drammaticamente vissuti:
tu lo vedi, sorella: io sono stanca
stanca, logora, scossa,
come il pilastro d’un cancello angusto
al limitare d’un immenso cortile… (La
porta che si chiude)
Come la Pozzi, riflettendo sulla storia sociale dei suoi
tempi, cercherà nelle tematiche sociali che pure vive da lontano, quasi a
livello di intuizione, così separate, altre come sono, dal suo aristocratico
mondo, la denuncia della giustizia e del dolore della vita, quasi con stupita
incredulità:
Ancora possono vivere, costoro
che mangiano e che bevono/ in un barattolo arrugginito,
mentre trascinano ciò che loro rimane della propria miserevole vita,…
Non hanno nient’altro che questo scampolo di vita,
questo benedetto frammento di amore e di odio,
cui si abbandonano, cui non amano opporre resistenza…
Dopo che son placate fame e sete,
in riva al giorno,
ancora qualcos’altro di buono
a costoro davvero volgerà lo sguardo?
Quasi a contrappunto A. Pozzi in Periferia, nel gennaio 1938, scriveva:
…e ho paura
dei tuoi passi fangosi, cara vita,
che mi cammini a fianco, mi conduci
vicino a vecchi dai lunghi mantelli,
a ragazzi/ veloci in groppa a opache biciclette,
a donne,/ che nello scialle si premono i seni…
Nel tramonto le fabbriche incendiate
ululano per il cupo avvio dei treni…
Ma pezzo muto di carne io ti seguo
E ho paura-pezzo di carne che la primavera
Percorre con ridenti dolori.
Certamente c’è un filo rosso che unisce la voce di queste
poetesse, un rapporto di sorellanza che va al di là dei luoghi geografici e dei
tempi storici, e perfino delle lingue in cui si esprimono, un rapporto intimo
che ce le rende complementari e uniche. Eppure, a dimostrazione dell’unicità
della voce che canta, piange o prega, ben si distanziano nel momento ultimo
della loro vita.
La morte sarà per ciascuna di loro un’ultima e ben diversa
avventura.
Antonia Pozzi,- una
cosa di nessuno- scelse il suicidio, lasciando dietro di sé il rimprovero e
il rimpianto senza rassegnazione, mai sanato, di coloro che le sono stati
amici, e che non hanno saputo intuire la sua disperazione.
ANNINA DE TOMA, Poesie…,
cit., Die armen Hände, Das läutende Herz,
I
suoni del cuore, p.55
Non domandatemi se prego
E chi prego/ E perché prego-
Io entro soltanto/ per avere un po’ di tregua
E una panca e il silenzio
In cui parlino le cose sorelle-
Poi ch’io sono una cosa-
Una cosa di nessuno
Che va per le vecchie vie del mondo-
Verso l’ultima luce.
Ed Annina:
Le affilate cesoie mi recisero/ tutti i tralci del cuore
dischiuso:
sei stata sconsiderata, Morte giardiniera!
Guarda! Lentamente si spegne il mio giovane cuore!
Tutti i dolcissimi fluidi della vita in lui
Sono in parte inariditi, in parte sgorgati via.
Signore, che dici tu, quando guardi il mio giardino?
Morte giardiniera, non avresti dovuto farlo!
Annina, mite e malinconica, come dimostra la poesia in
lingua rimese, tra il walser e il piemontese, del ’74, ferma l’intraprendenza
del “brüt magatel cum la ranza/ l’à fait
che gnime sü l’üss/ abia nutta süst l’à poeui dime,…. che
vorrebbe portarla precocemente in paradiso e si affiderà poi, venuto il momento
definitivo, del tutto e completamente a Dio, dialogando da penitente umile e
piena di speranza, con una fede che l’accompagna e salva, nonostante ogni
possibile dubbio, con una composizione dal titolo Vertigine, scritta in italiano, forse l’ultimo anno della sua vita,
che dice la sua fiducia, il suo tremore ed il suo abbandono umile nelle mani
del Creatore.
Credere, vertigine
cui dono me stessa tremando-
Abbandonarmi oltre
l’argine senza più temere,
dietro lasciando la mia lampada.
Abbandonarmi nel buio
come perdendomi-
strapparmi da me- lanciandomi
-perduti i miei occhi, perduti-
ne la divina tenebra.
Amen.