Lettura
di:
Anna
Magnavacca. Spiccioli di latta e altre
poesie. Edizioni Guerra. Foligno. 2004. Pp. 136. Euro 7
Anna Magnavacca. Soste. Edizioni Guerra. Foligno. 2009.
Pp. 104. Euro 8
Anna
Magnavacca. Poesia in forma di lettera.
Ibiskos Ulivieri. Empoli. 2010. Pp. 55. Euro 12
E’ affondato nel
gelo
il grande vaso di
geranio.
Ha bisogno di un
piccolo sole
un amore di mani
una briciola di
tempo.
Grande sorpresa!
Piacevole presenza! Sono stato omaggiato di un gradito dono: tre libri di Anna
Magnavacca. Curati, ben rifiniti nelle copertine, nella scelta della carta,
nella impaginatura. Già segno di gusto e senso d’armonia. Tutto è importante
per un testo di poesia. Tutto concorre a rendere piacevole un’opera letteraria.
Anche, e soprattutto, la scelta della casa editrice. Ma veniamo al sodo.
Scrivere di Magnavacca è semplice e al contempo complicato. Semplice in quanto
la poetessa è nota e fa della sua vita un raggio del caleidoscopio della poesia. Complicato
perché il suo dire è vario, articolato, contaminante per articolazioni
fonico-verbali di grande elevatura intellettivo-emotiva, e per iberboli
strettamente personali. Ed il suo nome è ben conosciuto negli ambienti
letterari per una poesia nuova, per una parola audace e per le intenzioni che
vanno oltre la parola stessa. E questi testi ne sono la convalida. Ed è proprio
la parola la prima cosa che colpisce della scrittrice; la ricerca puntigliosa,
anche se spontanea, del sintagma, degli accostamenti, delle creazioni etimo-foniche,
delle dilatazioni verbali che cercano di appagare con impulsi e vibrazioni le
richieste dell’anima. La versificazione scorre libera, alternandosi, per
accompagnare il ritmo dei battiti cardiaci sempre vòlti ad esternare
introspezioni, osservazioni, e realtà mai a se stanti, ma sempre decantate nei
meandri del suo sentire. E la sua voce è frutto di un’analisi psicologica
puntuale e umanamente oggettiva; anche le descrizioni, tasselli di una
costruzione compatta, sono indirizzati a un repêchage sia confidenziale, che rivolto a persone amate che l’hanno
accompagnata e che hanno contribuito a combinare quel patrimonio emotivo che è
in lei. Ed i tre testi, seppur partoriti in tempi diversi, quindi
contraddistinti da particolarità stilistiche, sono uniti da un dire prosodico
comune, da uno stile ben riconoscibile, carta d’identità della poetessa. L’autrice
sembra coprire tutti gli spazi: a volte riflessivi, a volte analitici, a volte
dialogici, a volte memoriali, a volte realistici ed epistolari: scandaglia gli
acini più nascosti del suo sentirsi donna, del suo sentirsi essere umanamente fragile.
E cosciente di questo spazio breve traduce il suo messaggio eracliteo in
immagini originali e di grande valenza poetica. E la natura non è mai vista
come semplice fatto bucolico-idilliaco, ma concorre, disposta e disponibile, a
concretizzare in forme e in colori i reconditi voli della poetessa: “Rame fuso
/ in macchie d’aurora / su colline in agonia. /….// Rintocchi cristallini /
levigano la solitudine dello spazio.”. (Mattino d’autunno. Da Spiccioli di
latta ed altre poesie). Rame fuso, macchie d’aurora, colline in agonia. Quanto abbandono silenzioso e raccolto in una
meditazione esistenziale! E quante vicinanze, quanti accostamenti all’essere e
all’esistere in questa delicata poesia tutta racchiusa in un’unica strofa: “La
prima foglia. / Stenta, senza vita. / Leggera / si posa sul selciato, / pronta
a cadere / nel fosso / al primo soffio di vento.”. ( Autunno. Ibidem). La poetessa si abbandona a queste emblematiche
configurazioni naturali per dire di sé. Tanto che il linguaggio si fa dolcemente
figurato ed allegoricamente allusivo. Versi brevi, qui, concisi, quasi a
significare la fugacità e l’inconsistenza della vita. Ma i versi, spesso, si
ampliano, si fanno ipermetrici, per un animo che ha bisogno di parole quasi
inarrivabili per le sue effusioni: “Mi piaceva avere capelli rossi labbra
vermiglie / occhi di canto sbavati rimmel,…” un memoriale impietoso nella sua
realtà rivissuta. E se all’autrice: “piaceva la luna d’avorio che baciava /
prima del sonno i fiori del ciliegio.” “Adesso mi offro da bere latte caldo /
metto all’orecchio una conchiglia bruna…” (Donna ieri-oggi. Da Soste). E la
parola si amplia, si dilata in questo scandalo delle contraddizioni, in questa
sua funzione di traduttrice. Prende per mano la poetessa e l’accompagna in
questo suo confronto irrealmente reale, jmpossibilmente possibile.
Il memoriale si fa
alcova, amore oblativo, nirvana edenico. Tanti i particolari, le minuzie, le
cose importanti, les accidents che
tornano a galla desiderosi di farsi vivi per cantare la loro presenza, o in
maniera decisa, o soffusa, ma pur sempre velata di melanconia. Melanconia che,
terriccio indispensabile per una buona raccolta, fa da substrato al dipanarsi
del dettato poetico. E la parola si
addolcisce, varia, si combina. Si
intersecano i verbi in una sintassi plurale ed arrivante; ricorrono a
significanti metrici impreziositi di assonanze, metafore, sinestesie,
metonimie, enjambements. E proprio gli
enjambements danno ampiezza e spazio al poetare; significano un’anima ricca di
esperienze umane che, invigorite dal tempo, si mutano in nuova realtà. Diceva
un mio vecchio professore: “Se
sventuratamente vi accostate alla poesia, vi sconsiglio di registrare la
realtà; prima vivetela, poi immaginatela, e se riaffiora, lavorate e provate a
farne poesia". E quanta passione, quanta oggettiva vibrazione umana nella
pièce dedicata alla madre. Tipo di argomentazione in cui è facile cadere nell’eccessivo
sentimentalismo; ma l’autrice con la sua originalità epistolare smorza i
sentimenti e, con forza evocativa e tenuta verbale, controlla l’esplosione del
sentire: “Ti scrivo per dirti / che mia madre è morta / nell’odore del caffè
della mattina / e della neve. / Così… all’improvviso /…. // Mi sembra di
sentire la sua voce / e orme di passi là in cucina. / Mia madre è ancora viva.
/ Sui rami del melo soffia il vento. / Tornerà pure la rondine e il fuoco dei
papaveri.” (Da Poesia in forma di lettera). Quanta forza lirica in questo explicit! quanto può la natura
se in sintonia con l’anima che canta!
Se Keats nell’ode L’autunno esprime il desiderio di essere
nella vita “un uomo” e di tornare un giorno “nelle radici della natura/… / per
verdeggiare di nuovo al sommo /dei rami dell’albero della vita” la Nostra sogna
di “… partire al chiaro di luna / e mettere il piede sull’orlo azzurro / del
cielo”. Su quel cielo che raccoglie le voci dei poeti. E la poetessa guarda a
quel cielo, perché ama il colore azzurro della poesia.
Nazario Pardini 31/07/2012
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