GUIDO GOZZANO E IL RUOLO DEL POETA NELLA NUOVA SOCIETÀ
CAPITALISTICA
di Rina Gambini
“Maddalena con sordo brontolio / disponeva gli arredi ben
detersi, / rigovernava lentamente ed io, / già smarrito nei sogni più diversi,
/ accordavo le sillabe dei versi / sul ritmo eguale dell’acciottolio.”
In questa sestina si profila la condizione del
poeta, estraneo alla concretezza dell’esistenza, qui rappresentata dalla “decrepita”
domestica intenta alle attività del dopocena, mentre la Signorina Felicita tace
e lo osserva, rapita dall’infatuazione per l’avvocato-poeta che trascorre il
settembre nel suo triste borgo. La dicotomia tra la realtà quotidiana e la sua
vita sognante è intensificata da “…le risa, i motti brevi / dei giocatori,
da quell’altra stanza.” che gli giungono alle orecchie distratte.
Nel breve poemetto, forse il capolavoro del poeta
torinese, dall’emblematico titolo e sottotitolo, La Signorina Felicita,
ovvero la Felicità, Gozzano esprime pienamente e senza schermi tutto il suo
disappunto per la condizione estraniante del poeta: “Oh! questa vita
sterile, di sogno! / Meglio la vita ruvida concreta / del buon mercante inteso
alla moneta, / meglio andare sferzati dal bisogno, / ma vivere di vita! Io mi
vergogno, / sì, mi vergogno d’essere un poeta!”.
Il senso di disadattamento rispetto alla vita
quotidiana, la consapevolezza di esserne tagliato fuori, proprio in quanto
“poeta”, l’incapacità a reagire nei confronti di una società alienata ed
alienante, che pare non comprendere più le voci dell’anima espresse attraverso
la lirica, sono gli elementi fondanti dello sfogo, misto a forse inconsapevole
inganno verso la giovane e, soprattutto verso se stesso, che anima i versi
dedicati alla Signorina Felicita. La donna “quasi brutta, priva di lusinga”
viene a configurarsi come l’ancora di salvezza a cui si aggrappa il giovane
intellettuale, ormai disamorato e sfiduciato verso il futuro, ma bisognoso
della solidità delle cose concrete, libere da sovrastrutture estetiche e
culturali.
È la predilezione per le “buone cose di pessimo
gusto” che si ripete all’infinito, quasi esse siano le uniche ad offrire
qualche vaga sicurezza. Ed anche la Signorina Felicita è tra queste: donna
scialba, illetterata, però devota, fedele, umile e solida, silenziosa e schiva
custode della casa. È il simbolo della stabilità, per il cuore deluso nelle
aspettative, è l’emblema del disimpegno, per il tormento del poeta svuotato del
suo ruolo sociale; è il medesimo ruolo che rivestono nell’altrettanto famosa
lirica gli amori ancillari di Totò Merumeni, rampollo di una decadente famiglia
altolocata, che la notte “fugge” dall’apatia del giorno tra le braccia della
cuoca diciottenne, senza peraltro riuscire a provare gioia alcuna. Un vuoto d’identità, quello che sta vivendo Gozzano,
condividendo questa sensazione con altri suoi contemporanei, quel vuoto di
identità che fece dire a Corazzini “Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono
un poeta. / io non sono che un piccolo fanciullo che piange”, e a
Palazzeschi “… io ho pienamente ragione, / i tempi sono cambiati, / gli
uomini non domandano più nulla / dai poeti: / e lasciatemi divertire!”. È
la crisi dell’intellettuale che investe il mondo del pensiero nei decenni a
cavallo tra il XIX e il XX secolo.
L’era industriale, salutata con entusiasmo e con ottimistiche
previsioni per il futuro, aveva portato nella società borghese un disfrenarsi
di egoismi che metteva a dura prova quei residui di idealismo romantico che
pure alimentavano ancora la letteratura. Le agitazioni sociali sconvolgevano lo
stato liberale dissestando l’equilibrio raggiunto tra mille difficoltà, e
lasciavano campo aperto agli egoismi di classe e individuali, a scapito della
razionalità della struttura sociale.
Così tra gli intellettuali si era diffuso un senso
di disagio e un acuto pessimismo sulle possibilità di conciliare il progresso
tecnologico con le logiche del vivere civile, e fu questo sentimento a dare
voce a quella che viene definita “la letteratura della crisi”, che si manifestò
in modi diversi, talvolta contrastanti, ma con una matrice comune: la
ribellione alla nuova società borghese, in cui imperava l’ipocrisia e il
materialismo.
In una società in cui governa l’onnipotenza della
ricchezza i letterati, infatti, si sentono fuori posto, percepiscono il
distacco dal loro pubblico, quello che storicamente li aveva sostenuti e ne
aveva sancito il ruolo.
In età romantica e durante il periodo positivista lo
scrittore era considerato l’interprete del pensiero epocale e la coscienza
intellettuale del popolo, specchio di una società che si evolveva lentamente;
la nuova era capitalistica, che marciava a ritmi molto più veloci, rinnegava il
ruolo di comunicatore di valori e di ideali del letterato, il quale finiva per
sentirsi isolato e chiudersi sempre più nella solitudine altezzosa e nella
consapevolezza della diversità. Si concludeva così l’intimo dialogo tra lo scrittore
e il pubblico, quello che aveva ascoltato e condiviso le idee espresse nella
letteratura del tempo, cioè la borghesia, gli artigiani delle città e
quell’elite operaia che stava acquistando spazio nella società
industrializzata. Ora, nell’epoca nuova della scienza e
dell’industrializzazione capitalistica, lo scrittore è solo, la folla non
accorre per vederlo ed ascoltarlo, come accadeva a Carducci o a D’Annunzio, che
pure conserva inalterato il suo carisma continuando ad esprimere una poetica
roboante e magniloquente, perciò la sua produzione si ripiega sull’ideale di
un’arte che sia affermazione pura di bellezza.
Decadono le motivazioni morali o civili che hanno
animato la composizione letteraria dell’Ottocento e gli scrittori si rendono
conto che, non potendo proporre nuove certezze, devono limitarsi ad
approfondire sul piano conoscitivo i termini e le conseguenze della crisi in
atto. In pratica, dichiarando e riconoscendo la crisi, devono esprimere i
sentimenti ch’essa ispira loro, la devono sviscerare con la profondità del loro
animo e non avventurarsi in soluzioni che non spettano al loro ruolo.
Facendo una breve digressione, potremmo dire che
l’affermazione dei regimi totalitari degli anni Venti e Trenta sia stata
favorita dal silenzio delle coscienze degli intellettuali, che non hanno saputo
levare la loro voce in favore di un rinnovo di civiltà, cosa che è, invece,
avvenuta nella ricostruzione del secondo dopoguerra, e si sono limitati a
sostenere una soluzione anziché un’altra, ma non hanno creato una vera
coscienza civile. Chiudersi nella propria torre d’avorio, sentirsi estranei al
mondo in cui vivevano, non era certamente la strada da percorrere per
indirizzare la società verso nuovi valori, ma tant’è, la storia non si cambia,
e i tempi e gli eventi avevano provocato questa insanabile incomprensione tra
letterato e pubblico.
Così, allo scrittore che non può più essere il
“Vate”, guida e coscienza del popolo, non resta che essere un “veggente”, come
dirà Pascoli, un “fanciullino” che trasfigura la realtà e ne fa oggetto della
folgorazione lirica, che è miracolosa scoperta dell’invisibile e fondazione del
mondo nuovo dell’interiorità. Si stabilisce in questo modo una relazione tra
intellettuale e pubblico che non è più, ovviamente, quella dei decenni
precedenti: il pubblico diventa un selezionato numero di lettori preparati ad
accogliere le istanze della poesia “decadente”, visionaria e simbolica.
È la coscienza del fallimento del letterato, quella
che anima i decadentisti, ma resta come brace sotto la cenere l’orgoglio di
possedere un animo nobile, che non può avere contatto e comprensione con la
mediocrità borghese.
Anche Gozzano, dunque, con i Crepuscolari, soffre di
quella che Baudelaire aveva definito la “perdita d’aureola”, ma, come loro, ai
quali, nonostante la sua individualità evidente, viene accostato, non si piega
al gusto imperante per l’estetismo che domina la letteratura europea. Negli
stessi anni i Futuristi percorrevano la via dell’esaltazione della macchina e
del progresso tecnico, del dinamismo e del movimento, contrastante con
l’atmosfera rinunciataria, con il linguaggio volutamente dimesso, con le
visioni squallide e retrò dei Crepuscolari. Ma tra i due movimenti vi è una
comune certezza: quella di vivere un’epoca di passaggio di civiltà, che
comportava necessariamente nuove soluzioni letterarie. Da qui il ripudio di
qualsiasi forma di trionfalismo e di retorica, che accomuna tutti i poeti di
inizio Novecento, pochi esclusi, e la necessità di un nuovo “patto” col lettore
e con il mondo esterno, realistico e concreto, privo di mitizzazioni. Da qui la
scelta crepuscolare di “declassamento” del tono poetico, che corrisponde in
verità al declassamento dell’uomo e della vita, l’umiltà della parola
quotidiana, la prosaicità del costrutto lirico, che suona come la presa di
coscienza del fallimento della poesia. Restano, è vero, residui di estetismo e
di dannunzianesimo anche in questi poeti,e lo possiamo vedere nel valore fonico
attribuito alla parola e nella posa distaccata di chi ha consapevolezza della
propria superiorità sulla massa informe, rozza, incivile, ma sono barlumi in
una generale astensione dalla retorica.
Se Gozzano condivise i temi cari alla poesia dei
Crepuscolari, l’amara ironia ed un raffinato impegno artistico lo distinguono
dagli altri. Consapevole di essere figlio di un tempo arido, sebbene colto,
privo di miti ed incapace di entusiasmi che lo possano risollevare
dall’indifferenza, vuoto di speranze, ma ancor peggio di virile disperazione,
come nel Leopardi, si abbandona al cinismo crudele, esprimendo perplessità
perfino nei propri riguardi: “… è strano / fra tante cose strambe / un coso
con due gambe / detto guidogozzano”. La sua è stata definita “poesia dell’assenza”, della
vita mancata, ma la sua tristezza non si vela mai di tragedia, anzi, se mai di
ironia corrosiva, sotto cui si nasconde, come per istintivo pudore, il
rammarico per la vita sana e semplice, per l’amore puro e sincero, per una
poesia serena che sia specchio dell’esistenza. È per questo che nella sua
lirica torna indietro all’infanzia e all’adolescenza, in una provincia che non
conosce le complicazioni moderne, le estetizzazioni esasperate, e si compiace
di innocenti pettegolezzi. Per questo torna al mondo contadino, agli interni
domestici dolci e malinconici, dall’arredo “squallido e severo, / antico e
nuovo: la pirografia / sui divani corinzi dell’Impero, / la cartolina della
Bella Otero / alle specchiere… Che malinconia!”, di “La Signorina
Felicita”, ovvero a “il caminetto un po’ tetro, le scatole senza
confetti, / i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, // un qualche
raro balocco, gli scrigni fatti di valve, / gli oggetti col monito salve,
ricordo, le noci di cocco…”, di “L’amica di nonna Speranza”;
torna alla “… Fuga delle stanze morte!” in cui si percepisce “Odore
d’ombra! Odore di passato! / Odore d’abbandono desolato!”, oppure rievoca
la splendida filastrocca infantile “Trenta quaranta, / tutto il Mondo canta,
/ canta il gallo / risponde la gallina…”, di “La via del rifugio”,
che intona l’ingenuità infantile con la nostalgia per una vita fresca,
elementare, che si sviluppa poi, con assoluta coerenza, nella presa di
coscienza di un’esistenza opaca (il “guidogozzano” sopra citato) e nella
certezza della morte.
Per questo ancora usa un tono dimesso, discorsivo e
prosastico, narrativo, che fu, a dispetto dei detrattori, la sua più importante
caratteristica letteraria. Montale, in una eccellente pagina critica per
l’edizione Garzanti del 1971, scriveva: “Il verso di Gozzano è un verso
funzionale, narrativo, un verso che colma e sostiene la strofa e in cui è
difficilissimo scoprire zeppe e avvertire quei salti d’aria, quei dislivelli,
quei «bathos» che sono così frequenti nei grandi lirici… molte sue strofe
potrebbero essere posposte senza danno, altre potrebbero emigrare da una poesia
all’altra senza darci il minimo fastidio…”, questo perché, sempre per
Montale, “Infallibile nella scelta delle parole… Gozzano ebbe l’istinto e la
fortuna di saper restare quello che era: un esteta provinciale, a fondo
parnassiano, un giovane piemontese malato, dannunziano, borghese, ma davvero
piemontese e davvero borghese anche nel suo mondo”; così “… fondò la sua
poesia sull’urto, o «choc», di una materia psicologica povera, frusta,
apparentemente adatta ai soli toni minori, con una sostanza verbale ricca,
gioiosa, estremamente compiaciuta di sé”.
Gozzano fu compreso dal pubblico del suo tempo, e il
suo dramma interiore, e quello umano, gli propiziarono un successo insolito per
l’epoca. Anche la critica lo amò, e persino Croce, che non ebbe parole di
elogio neppure per Pascoli, gli fu favorevole. Dice ancora Montale: “Gozzano
entrò nel gusto del pubblico senza destar sospetto perché operò nella poesia a
lui preesistente una sorta di riduzione. Presentando un nuovo genere di poesia,
quella poesia della «faux exprès», dei semitoni e delle armonie in grigio,
quella poesia non già eroica ma «en pantoufles» che i simbolisti francesi, belgi
e fiamminghi avevano tentato già da molti anni…” ebbe il merito di
distaccarsi definitivamente dal dannunzianesimo.
Questa fortuna non gli arrise dopo la morte perché
fu tacciato, forse sotto la suggestione della poesia ermetica, di semplicismo e
di eccessiva facilità. Nulla di tutto questo, perché Gozzano, nonostante le
premesse iniziali sul ruolo del poeta nei suoi anni, fu sempre consapevole
della serietà del suo “essere poeta”, sebbene dichiarasse di
vergognarsene, e fu scrupoloso e attento artefice di versi.
Mi è stato raccontato un aneddoto curioso. Gozzano
si trovava a chiacchierare con Francesco Pastonchi, il critico letterario
ligure, docente di Letteratura Italiana a Torino, al quale aveva sottoposto la
sua composizione “L’amica di nonna Speranza”. Nel passo in cui racconta
della visita degli “zii di molto riguardo” ai genitori di Speranza,
mentre si intrattengono in “bei conversari”, la padrona di casa offre un
rinfresco agli illustri ospiti; a questo punto Gozzano aveva scritto: “Gradiscono
un po’ di marsala?- Signora sorella, magari… / E con un sorriso di
gala sedevano in bei conversari.”.
Pastonchi gli fece notare che nel 1850, anno in cui
avviene l’episodio, come dichiara alla fine del settimo distico (fine I parte),
in Piemonte non si usava bere il Marsala, che era entrato in uso dopo
l’annessione del Sud al Regno d’Italia; il poeta dovette convenire che
l’osservazione era fondata, quindi cambiò i versi in quelli che noi conosciamo:
“Gradiscono un po’ di moscato? Signora sorella, magari… / E con un
sorriso pacato sedevano in bei conversari”.
Il poeta non fu mai soddisfatto della correzione,
tanto che quando tornavano sull’argomento era solito affermare con rammarico
che quel pacato era una vera zeppa.
Per concludere, allora, dobbiamo chiederci come
Gozzano abbia risolto la demitizzazione del poeta moderno. La risposta è ovvia:
con la poesia stessa, come si evince dalle strofe conclusive di “Totò
Merumeni”, il suo “alter ego”.
“Totò non può sentire. Un lento male indomo /
inaridì le fonti prime del sentimento; / l’analisi e il sofisma fecero di
quest’uomo / ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento. // Ma come le
ruine che già seppero il fuoco / esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori, /
quell’anima riarsa esprime a poco a poco / una fiorita d’esili versi
consolatori… // Così Totò Merumeni, dopo tristi vicende, / quasi è felice.
Alterna l’indagine e la rima. / Chiuso in sé stesso, medita, s’accresce,
esplora, intende / la vita dello Spirito che non intese prima. // Perché la
voce è poca, e l’arte prediletta / immensa, perché il Tempo – mentre ch’io
parlo! – va, / Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta. / E vive. Un
giorno è nato. Un giorno morirà.”
Relazione tenuta a Vienna, presso
l’Istituto Italiano di Cultura, il 19 ottobre 2009 nell’ambito del Convegno
Internazionale “Arte e scienza nella letteratura italiana del Novecento”
Rina Gambini
Nata alla
Spezia, ha vissuto a lungo a Milano, dove si è laureata in Filosofia
all’Università Statale, con tesi in Filosofia della Storia. Residente alla
Spezia, dopo alcuni anni dedicati all’insegnamento delle Materie Letterarie e
delle Scienze Umane nelle scuole medie e superiori, ha iniziato a impegnarsi
nella promozione della cultura e nella critica letteraria. Presidente e membro
di giuria di numerosi e prestigiosi premi letterari, tra cui “Città di Salò” e
“Via Francigena”, ne è anche organizzatrice. Nel 2012 ha dato vita con successo
ad un nuovo concorso letterario, “Città di Pontremoli”. Promuove, inoltre,
eventi culturali in numerose zone d’Italia. Ha tenuto conferenze tematiche su
autori e argomenti inerenti la letteratura e la cultura in generale ed è
presidente del Centro Culturale Il Porticciolo, oltre che ideatrice e curatrice
della Rivista di informazione, approfondimenti e notizie di cultura, arte e
società “Il Porticciolo”. Ha curato molte antologie letterarie, soprattutto
poetiche e tematiche, per alcune case editrici italiane allo scopo di
diffondere e preservare la produzione letteraria contemporanea e stimolare
l’interesse per la cultura tra le giovani generazioni. Sue numerose esegesi
critiche e prefazioni a pubblicazioni di autori contemporanei.
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