SONIA GIOVANNETTI LEGGE: "Boghes - Voci" DI STEFANO BALDINU (Puntoacapo, 2021)
Sonia Giovannetti, collaboratrice di Lèucade |
Al cospetto della complessa opera
poetica di Stefano Baldinu (“Boghes”:“Voci”), confesso
di provare un senso di inadeguatezza, sapendo ancora troppo poco – mio malgrado – della terra
sarda per poter giudicare quanto dell’anima
di questa terra il poeta abbia saputo trasfondere nei 39 componimenti di questa
sua fatica. Ma se dovessi acquisirne una più approfondita cognizione basandomi
sulle tante “voci” della raccolta, devo ammettere che il fascino per questa
“terra di confine” superebbe di gran lunga quello, peraltro già ragguardevole,
provato in passato nella mia veste di assidua visitatrice “continentale” di
questa nostra suggestiva quanto enigmatica sentinella tirrenica. Una fascinazione, la mia, che nasce del tutto
immediata e spontanea già dalla prima immersione nei versi di Baldinu, in primo
luogo per una lingua che, sebbene a me sconosciuta e pressoché inaccessibile,
mi ha trasmesso subito il senso di una spiccata musicalità, connotato essenziale
e distintivo della poesia, che è innanzitutto suono, incontro armonioso di
significanti deputati a produrre senso. Una musicalità che, quasi
miracolosamente, mi è parsa sopravvivere intatta alla traduzione – minaccia,
questa, sempre incombente sulla qualità verginale di un’opera letteraria – e
che asseconda una struttura della silloge imitativa di una composizione di
musica classica. Ma il vero “miracolo” di queste poesie, viene da pensare con
più laica disposizione, sta nella meticolosa ricerca filologica compiuta da
Baldinu per dare evidenza e rendere omaggio a tutte le declinazioni della
famiglia linguistica sarda, convocate a comporre una polifonia suggestiva, rivelatrice
delle diverse stratificazioni dell’anima isolana. Una ricerca linguistica che,
propedeutica alla stesura, deve presumersi impegnativa e complessa, stando alle
“note tecniche” divulgate dallo stesso autore, e che solo uno sconfinato amore
per la propria terra di origine può avere ispirato e guidato con tanta acribia.
Una traccia della polifonia originaria dell’opera resta nelle indicazioni a piè
pagina di ogni poesia tradotta, relative alle singole varianti linguistiche
utilizzate per ciascuna di esse. Ad impreziosire ulteriormente l’eterogenea coralità
della silloge, concorrono le voci plurali di poeti sardi che accompagnano in
esergo ogni poesia, quasi a voler testimoniare ancora più incisivamente l’intima
appartenenza dell’autore alle proprie radici culturali.
Le poesie hanno varia matrice e diversi
motivi ispiratori: vi trovano spazio, accomunati da una potente impronta lirica
e sovente malinconica, affetti familiari, ricordi, turbamenti sentimentali,
meditazioni sofferte e compassionevoli sugli “ultimi”, i dimenticati e gli
oppressi del mondo, contemplazioni pacate sui temi della vita e della morte dal
sapore filosofico. C’è in esse il mondo, un mondo privato ma anche sociale, il
nostro mondo, sul quale ad ognuno di noi capita ogni giorno di riflettere: con
nostalgia affettuosa, talvolta con gioia, altre volte con riprovazione per ciò
che è ingiusto, spesso con dolore. E, in tutte, è la sensibilità estrema di
questo poeta a risaltare come sua dote prevalente, a guidarne la penna in un
fare talvolta assorto e meditabondo, come in “Deserto”: “L’uomo è fatto di/ polvere e sabbia/ seguendo carovane/ di vento va
incontro/ ad altri uomini”; in
altri casi mirabilmente asciutto: “Spargo
gemme di sera/ nel giorno che muore/ come un usignolo/ che volta, si ferma e
canta/ lunghe pagine di silenzi” ( “Come un usignolo”).
Vive poi, nella maggior parte delle
composizioni, un turbinio di immagini, prelevate dal mondo della natura - “Descrivere il cielo/ a tratti sottili/ nel
buio profondo/ con la vitalità di un fiume/ e ricordarsi di una vita/ nel viso
che dorme/ trafitto dall’alba” (“Una vita”), o da artefatti di uso
quotidiano, che fanno da contrappunto ai diversi stati d’animo del poeta: ai
suoi abbandoni contemplativi, al senso di solitudine, alla tristezza, agli
slanci affettivi. Tanto che il lessico di “Voci” risulta popolato da una
moltitudine di metafore attinte da quei serbatoi simbolici; metafore alle quali
il poeta ricorre con generosità e larghezza espressiva, al punto da
caratterizzarne in modo inconfondibile lo stile, e a cui egli sembra a volte concedersi
con palpabile compiacimento, arrivando a disegnare labirinti caleidoscopici che,
costruiti per dipingere uno stato d’animo, sembrano chiamati piuttosto a
stemperare il dolore, ad attenuare lo sconforto – “…Eppure qualcuno avrà udito la pronuncia di una lacrima/ dal ciglio
sospeso delle palpebre trasformare/ il silenzio delle arnie di luci in frantumi
di vetro,/ venare l’equilibrio di una sillaba lasciata arrugginire/per
timidezza in una pagina del tuo vocabolario” ( “In questa attesa di vento”).
Ma
la malinconia di fondo, di sapore leopardiano, che pervade l’intera raccolta –
quante volte il pensiero di Baldinu si sofferma sull’infinito! – si converte
sovente in speranza. La morte stessa, presenza frequente nei versi, piuttosto
che generare cupa disperazione, è trattata con pacatezza dolente, anche quando
si aggira nella cerchia familiare del poeta. Essa sembra anzi diventare una
chiave efficace a penetrare il mistero della vita. La morte, sembra dire il
poeta con afflato filosofico, non è mai “nulla”; c’è sempre un “polline” a
farle compagnia, e c’è sempre una “pioggia” – altro simbolo vitale – a collegarla
alla vita, come nel ciclo della natura, che si perpetua eterno e immutabile. “Sta tutta in questa notte, dove Dio si è
fatto malva/ all’angolo delle labbra di un silenzio di pioggia/ pronto a
dissolversi, la tua mano che traccia sull’epidermide/ di ogni goccia e sulla
mia fronte una carezza di luce” (“Gaetana, ricordo di una sorella”).
In molte delle poesie, infine, è
protagonista il silenzio, che, insieme all’assenza – altro soggetto ricorrente
– sembrano potenti catalizzatori di significato, non solo però come meri
espedienti espressivi, alla maniera del simbolismo o dell’ermetismo, ma come entità
depositarie di verità metafisiche, veri e propri fattori di conoscenza del
mistero della vita, emblemi dell’insondabilità di un infinito in cui cerca il
proprio riscatto la finitezza delle cose.
Non stento a ipotizzare che tante immagini del paesaggio sardo, per il ricordo ancora vivo che ne conservo, abbiano fatto da culla naturale al germogliare di siffatte visioni e suggestioni poetiche. Mi piace allora concludere che, se la Sardegna somiglia davvero alle “voci” di Baldinu, dopo avere assaporato la loro malia non potrò fare a meno di tornare a incontrarla!
Sonia Giovannetti