Recesnsione
a
cura
di
Nazario
Pardini
Che fine ha fatto mio padre
disperso fra le piume dell’eterno
gioco:
è vero,
non è vero,
o forse nudo,
senza più distogliere,
lascio scorrere il nulla quietamente,
tra notte e giorno, immaginando
l’irreparabile dubbio delle tracce,
e dell’acqua fuori fonte,
e degli spazi indiscreti ove una volta
mi stuzzicava a lampi contro il cielo,
o a quegli insonni strumenti sognatori
fra le travi e il soffitto.
Che fine ha fatto?
Mi è giunta stamani 21 marzo alle ore 11 questa
gradita sorpresa: l’Antologia poetica di Antonio Spagnuolo che trae il titolo
dall’ultima sezione Misure del timore. Antologia poetica dai volumi 1985 – 2010. Sono
commosso. Palpo il libro, lo sfoglio, ne respiro il sapido profumo di nuovo
delle pagine color crema. Poso gli occhi sul titolo: Misure
del timore. Titolo che affascina, turba, eccita, e invoglia alla
lettura, a capire, a concludere, anche se nella poesia le conclusioni sono sempre
soggettive nella loro oggettività, sono sempre nascoste, perché ogni lettore le
possa fare sue e le possa adattare alla sua sensibilità. Quindi azzardare e
penetrare nella parola, per fuggire oltre la parola, con animo voglioso di
legare i frammenti, i tempi, le azioni, le diacroniche successioni, e indagare per trovare quella compattezza, quell’unicità ispirativa, quelle pulsioni
etimo-foniche e culturali che legano la produzione e determinano la poetica
dell’autore.
E la Poesia che cosa è in fin dei conti se non che il
tatuaggio dell’anima? e che cosa se non che la realtà predisposta ad incidere
sul nostro vivere? fino a ridursi a ancella della parola dopo la sua
decantazione nell’anima? e che cosa se non che répêchage di momenti, frammenti
e tempi che gridano la loro esistenza e “sgomitano” per ritornare in vita a
illuminarsi di luce chiara? e che cosa se non che quella magica fusione,
indispensabile teorema, fra dire e sentire, fra anima che canta e parola che
suona? fusione di equilibri per il fascino della lettura? e che cosa se non che
rovesciare sul foglio un’anima, che smarrita, di ritorno da un’escursione nel
mondo e fra gli uomini, ritorna nuova, rifiorita, vitalmente ri/nutrita di
umano e disumano, d’inconsci ritmi vitali, per donarsi a un prodotto che
sottragga all’indifferenza?
In Spagnuolo la poesia è tutto questo, nella
sua pluralità d’intenti, se d’intenti si può parlare, quando l’alimento primo è
la spontaneità. Spontaneità partorita da una realtà guardata, vista ed
osservata nella sua microstoria con uno spirito sempre proiettato oltre i
significati e i significanti, verso le invenzioni. Proprio perché la semplice parola
non è mai sufficiente per un poeta ad esprimere la totalità del pensiero e Spagnuolo
si affida, si deve affidare, a guizzi cromatico-allusivi, ad associazioni di
unità sintagmatiche, o univerbalizzazioni, a raddoppiamenti per ultimare un
percorso di grande tensione umana. Un mio
vecchio professore diceva: “"Se ipoteticamente vi avventurate
nella poesia, vi sconsiglio di registrare la realtà; prima vivetela, poi
immaginatela, e se riaffiora, lavorateci e provate a farne poesia".
E Spagnuolo ha covato la sua realtà in
un’anima disposta, a volte, a raffinarne e a smussarne le sporgenze graffianti,
altre volte ad evidenziarle queste sporgenze; il fatto sta che il suo poiein si
è tradotto in monito per tutti noi:
vivere la vita come il bene più grande che ci è dato, nella sua brevità. Un
bene grande, forse, proprio perché contiene la morte. (Lo si percepisce in ogni
verso, e più ancora in quelli ribelli, più crudi). Ed è il suo inconscio,
fattosi verso compatto ed organico, e strumento di armonie disarmoniche, che
offre al poeta la possibilità di leggersi e sorprendersi.
E tutto
è timore: timor vitae, fortunae, amoris: timore del fatto di esistere. E Spagnuolo
si fa da uomo ad umano in questo gioco di inconscie ombre risalite a suscitare
quei timori che nella coscienza di essere hic et nunc determinano anche l’esistenziale
quesito di vivere in spazi ristretti.
Guglie, Drappeggi, Ara, Senna… non sono solo
configurazioni esterne, magiche apparizioni fenomenologiche, ma soprattutto
frammenti-oggettivazioni in cui si frantuma l’anima per ritrovare la sua unità
in quella coscienza di precarietà che fa da filo conduttore in tutta l’opera.
Precarietà che si dilata, nella sua funzione, in solitudine
esistenziale-baudelaireniana nel discorso poetico: “Nuove scene a domenica /
questo si può rifare: / apro incisioni / nella mia solitudine” (Mansarde), o
esige dalla rievocazione nostalgica un supporto alla sua “quietezza”: “Specchia
in cortile / sapore dell’infanzia. / Una gonna tutta luce nelle stanze / sullo
sfondo il candore.” (Candida).
Umana, troppo umana la vicissitudine storica
del poeta: ed è il timore, sono i suoi timori a rendere il tutto vicino a noi,
in quanto fragili e soggetti al tempo, e
a fare di Spagnuolo un essere vivente
che freme, si anima, si dis/anima, si commuove, si altera, si inquieta e si
acquieta senza mai abbandonare all’esondazione il suo sentimento, sempre racchiuso
tra gli argini robusti della sua sintassi. Lo dimostrano i suoi versi, le sue
tessiture che corrono, si frenano, si ampliano, si scorciano per tradurre in importanti
significanti metrici le varietà delle emozioni. Liberismo poetico, realismo
strutturale, azzardo intuitivo oltre il limen verbale; per ritornarci nuovo ed
arricchito. Questo realismo pittorico-emotivo, fatto di immagini acquisite e
ridate al foglio con luminosa intuizione è più evidente in Candida. Seguono 10
poesie d’amore: canzoniere erotico.sentimentale, dove il poeta chiede aiuto
alla Natura, alle sue cose, alle sue vite per esprimere forza emotiva, e
intensità amorosa. E la Natura
interviene generosa facendo della sua pittura e dei suoi esseri l’involucro dei
giochi sentimentali dell’autore: farfalla
controluce, nube corrosiva, ultima sorgente, frassino dell’immagine. Amore
spirituale sì, ma soprattutto fisico che si concretizza in eros dai due volti:
“Nessuno mai seppe la raffica / per fiato e orchestra / tremante cataste e giochi,
/ o della calamita protesa / nel gusto di beccare improvvise / le tue cosce.” (3 in Dieci poesie d’amore…)
Nei momenti di maggiore liricità affiancano
versi di minore misura gli endecasillabi che come vere cascate musicali
rifulgono per generosità su senari, decasillabi …: “Piovono ruggine piccole
scommesse / dalle tue ciglia / fortunosa scomponi acqueforti: / la carne, la
ventura, i clamori: / un ditirambo stanco di cantare. / Leggermente stupita disegni / sillabe
qualsiasi / …” (2 in
Dieci poesie d’amore…).
Ma è in Fugacità del
tempo e in Misure del timore che
Spagnuolo si riappropria delle sue inquietudini umane per rendere più temporale,
più vero e inquietante il fatto di vivere in uno spazio ristretto di un
soggiorno. La giovinezza, graffio lungo, non porta nostalgie o rimpianti, è
solo un momento di un insieme destinato a finire: “Dirompe quasi a gioco un Dio
perverso / dai luoghi ormai fuggiti, / bellissimo Narciso intrappolato allo
spazio / che mi fu concesso tra gli uomini e le cose, / stupore e smarrimento
che mi azzera. / Discorso da dimenticare / così come il graffio lungo della
giovinezza.” (4 Fugacità del tempo) Dum loquimur fugerit invida aetas. Ed è il
discorso del memoriale ad assumere a volte il ruolo di alcova, a volte di nirvana
edenico in un mondo di convulsi pensieri, a volte di chiara percezione della fugacità
della vita.
Forse è proprio questo il leit motiv, assieme
alla cura del verbo e alla ricerca delle novità etimo-foniche, di tutta
l’Antologia poetica. Ed è proprio questa
percezione del vivere temporale che porta alla conclusione di Misure del timore: “Ormai poche parole inutilmente / percorrono
il vermiglio sgranato, / per il sangue che ricuce i frammenti / io ho soltanto
del mirto.” (Rami di mirto).
Di tutto, in fin dei conti, non resta che un
ramo di mirto, che, pur nobile pianta, simbolo di mediterraneo endemico
rifugio, non è altro che piccolo arbusto (la vita) che genera timori forse
senza misura, quei timori che fanno dell’uomo un essere umano, troppo umano.
Direbbe il poeta. “La realtà e il sogno si
fondono, l’uno più reale dell’altro, nella coscienza di esistere. Ĕ il timor
vitae che li alimenta e ne fa un terriccio fertile per una abbondante fioritura
di luminosa poesia”.
Poesia
è vita, quindi, come vita è sogno, come vita è illusione, delusione, come vita
è amore, come vita è poesia, quella parte di noi, forse, che più si avvicina
all’inarrivabile. E il poeta è un uomo vivente in tutto il corso del tempo
(passato, presente, futuro).
Se Hölderlin chiede nella lirica Iperione, o l’Eremita della Grecia, al canto che sia per lui “rifugio
amichevole” affinché la sua anima “non smanii…” e divenga “luogo di felicità…
giardino curato con premuroso amore, /… / ove io abbia dimora / mentre di fuori
con tutto il suo ondeggiare / il tempo possente … rumoreggia lontano” Spagnuolo, nel suo inconscio, chiede al suo
racconto intimo e vitale un Eden perenne, gagné coi turbamenti e i timori dell’esistenza,
dove poter vivere oltre il tempo nel
giardino della poesia, perché la ama e le affida il compito foscoliano di
vincere il contingente. Anche se il suo poetare, a volte estremamente
realistico e crudo, ci fa pensare, come fine, più a una dissacrazione del mondo
che a una poesia vòlta a superare i
limiti della nostra venuta. Superamento che accadrà, di sicuro, per il suo
valore intrinseco, convalidato da innovazioni di mezzi e strumenti destinati a
lunga vicissitudine letteraria.
"Se non si può
almeno ci si provi con il cuore
ad intuire:
ci scopriremo non formati ancora
proiettati come luce nel futuro." E' tutto là il grande senso della poesia: andare oltre i confini dello spazio ristretto del soggiorno.
Ed è quello che fa Angelucci con le sue impennate verbali, con le sue intuizioni etimo-foniche, con le sue vibrazioni interiori e con quel grande slancio estetico-linguistico vòlto a completare quell'equilibrio eternamente umano e dis/umano fra l'anima che canta e la parola che suona. Ed è proprio Angelucci a dimostrrarci che la Poesia non è uno scherzo, è proprio lui che con i mezzi umani, forse troppo umani, cerca con una vertginosa verticalità, di allungare lo sguardo oltre quei limiti che esigono l'apporto dell'anima. Se poi l'abbondanza di emozioni è sorretta e controllata da intrecci metrici di grande impatto armonico si fa esemplare il dettato poetico. E parlo dell'impiego di una saggia varietà versificatoria, che passando da misure brevi quali quinari o senari, prepara il terreno a una cascata di armonie endecasillabe, epicentri e culmini di luminosa liricità.
"Forse il segreto
è quello di non porsi le domande
che non possono avere una risposta
o, se ce l’hanno,
è quella che sappiamo,
che da sempre fingiamo d’ignorare"
Direbbe il poeta: "La vita ha bisogno del sogno, come la morte ha bisogno della vita.
Ma è proprio la morte a far sì che il sogno vada oltre l'umano per farsi sostanza, e pezzo di un cuore che vinca la sorte."
Nazario Pardini
Andrea Mariotti
L'accezione mistica che spesso li connota reputo sia altamente
riduttiva.
L'autore, infatti sia nel primo volume che nella silloge
"Verticalità" porta avanti una disamina scrupolosa sulle tematiche forti che caratterizzano il nostro tempo, legandosi a concetti filosofici e a programmi poetici, che rendono i suoi lavori ben diversi dalle semplici raccolte di liriche.
La tendenza del caro Sandro a valorizzare il mondo degli affetti , a cercare il ritorno ai valori rispecchiano il 'fanciullo' intimista... in parte pascoliano, che permea la sua arte e il suo quotidiano, ma anche l'uomo che non si arrende, che di fronte al male tiene alti la dignità e il rispetto di se stesso e del prossimo.
La chiusa del primo componimento: "S'inizia a vivere / quando non
c'è più nulla da capire", che a mio modesto avviso, rappresenta una lirica in se stessa, rende l'idea di quanto Sandro sia teso ad arco verso l'irrazionalità della fede, ma non la consideri la ragione delle stagioni che attraversiamo, bensì il limite ultimo per poterci definire 'vivi'. La sua ascesi mistica è un cammino in salita, irto di ostacoli, di difficoltà, è un perenne mettersi
in discussione... Non a caso in "Verticalità" si ispira al filosofo Kirkegaard e ripercorre le tappe dell'esistenza in modo
analitico e, a tratti, doloroso. Sandro nei suoi libri non esita a farsi male. E la grandezza dell'Artista si evince proprio dalla capacità di dare ai versi una consecutio, di crearli con stile fluido, diretto, fruibile, eppure di raro lirismo, come tessere di un grande mosaico, che racconta la pienezza e la fatica della vita.
Sullo stile mi piace precisare che egli rifugge dalla gabbia metrica, ma impreziosisce i suoi versi di endecasillabi perfetti
e si sottrae alla seduzione delle metafore ardite, dell'ermetismo, per arrivare come spada di luce a trafiggere le anime dei lettori... incatenandole!
Lo ringrazio ancora e sempre per tanto Dono!
Maria Rizzi
La poesia di Angelucci scaturisce dall’interno di un’onda pensante che si sbaglierebbe a confondere con un pensiero costruito nel proprio laboratorio mentale, bensì recepito nello stesso, e ciò riporta l’attenzione sui processi ispirativi propri della poesia e dell’arte in generale, senza per questo svalutare l’indispensabile lavoro (poiesis) del genio artistico.
Ispirazione e fare artistico si pretendono reciprocamente e non si capisce come mai in sede idealistica e strutturalistica abbiano cercato di escludersi vicendevolmente, come il diavolo e l’acqua santa. In realtà stanno l’una nell’altro esattamente come l’una nell’altro stanno la materia e lo spirito, il naturale e il sovrannaturale: facce diverse della medesima medaglia. Non c’è separazione tra le due, ma solo mutamento di prospettiva (“lo specchio che ci capovolge): “Forse non esistono segreti / o sono così grandi / da contenersi l’uno dentro l’altro”.
Superficie e profondità si coappartengono e inutilmente si cerca di dividerli, tendendo trappole all’unione. Da qui l’esortazione di Angelucci ad andare oltre la ragione: “almeno ci si provi con il cuore / ad intuire”. Non dovremmo affidarci ciecamente e totalmente alla ragione. Dove questa fallisce, dovrebbe scattare la molla di altre risorse insite nell’animo umano: “S’inizia a vivere / quando non c’è più nulla da capire” e “Forse il segreto / è quello di non porsi le domande”. Abbandonarsi all’Essere, dunque, e crescere nel mistero, anziché ostacolarlo con le isteriche e pretestuose pretese della dea ragione.
Franco Campegiani