mercoledì 22 giugno 2011

Notarella sul Risorgimento

Notarella sul Risorgimento

Ogni paese ha bisogno di radici sicure, a cui rifarsi, per dare consistenza e omogeneità alla propria Storia. Il Risorgimento è una grande epopea fatta di martiri, e di pochi intellettuali, che io chiamerei eroi, perché hanno offerto all'Italia la possibilità, miracolosa, di inserirsi in un contesto europreo prima, mondiale dopo. Ma l'origine della nostra Storia e delle nostre tradizioni io le collegherei prima alla Romanità, che per noi deve essere un orgoglio, in quanto originaria di lingue e monumenti sparsi in gran parte degli stati europpei, ed è roba nostra. Poi al nostro Medioevo, nucleo della imprenditoria e creatività degli Italiani. Quindi all'idea artistica e politica dell'Homo faber del nostro Rinascimento, che ci ha resi grandi in tutto il mondo. E' un insieme di caratteri, che si sviluppa diacronicamente nella Storia, a determinare radici e consistenza per una Nazione. Di quelli tutti dobbiamo essere orgogliosi e rispettosi. E sono quelli che tutti insieme formano il "Madre in Italia".

Nazario Pardini

Nota sul libro di Mina Antonelli "La luce della luna", e sulla silloge di Paolo Sangiovanni "La grande attesa"

Nota
sul libro
La luce della luna
di
Mina Antonelli




Poesia fatta di versi liberi, brevi e incisivi, quella di Mina Antonelli, intrecciati in ricami di giochi metaforici volti a concretizzare stati d’animo in oggettivazioni naturali; canti di vita, storie di un vissuto, sensazioni proiettate nel futuro. E il percorso è descrittivo e intimistico; gli ambienti, i colori, le immagini come le case addormentate, l’antica fontana, le zattere di fumo, i cristalli di rugiada diventano tanti momenti di un’anima protesa ad indagare sul mondo e su se stessa. “Sul colle dell’alba / andavano canti di rugiada / e si arrossava la collina / nell’aria leggera del mattino”. “I vecchi seduti / intorno al fuoco / cantavano tramonti di luna / e mia madre ascoltava / racconti di cielo / nei silenzi della sera”. Quanti imperfetti in questa voglia di dare consistenza e continuità ai momenti fuggitivi della vita!
 “fuggono i venti nei cieli d’autunno / e nuvole randage / portano presagi di pioggia”. Quante incertezze in questa metafora dell’esistenza!  “Il vento ruba / stagioni dalle mani / che cercano carezze / di grano maturo”. E quanta malinconia in questi furti di stagioni!                                                         
              Ma anche se “il vento allontana / parole consumate / al fuoco del camino” c’è sempre “una carezza ad aprire d’azzurro il cielo” in Mina Antonelli.


           Nazario Pardini


Nota
sulla Silloge
"La grande attesa"
di
Paolo Sangiovanni   


Inconfondibile lo stilema classicamente endecasillabo con interpunzioni a centro verso, e inconfondibili le tematiche risultanti da uno scavo analitico-psicologico sul divenire della condizione umana, di Paolo Sangiovanni. Ed è vita la sua poesia, fatta di tanti momenti comuni e soggettivi che l’artista sa rendere oggettivi e universali per la sua capacità di introspezione. Il memoriale, raccontato con una visione spesso disincantata e senza eccessivo sentimentalismo, fatto di osservazioni e considerazioni oggettive più che di patologiche nostalgie, è sorretto da quel substrato di velata melanconia  o mancata felicità che alimentano la fluidità lirica dell’opera: “E vili siamo noi mentre cresciamo / e passiamo di moda. E nulla più / ci è perdonato come nel passato / inutilmente. E non siamo felici.”. L’anima del poeta è tutta qui, nella ricerca di oggetti o fenomeni che concretizzino il suo essere: uno spogliatoio, il quarto stato, la giovinezza, le conchiglie, la cicala, i graffiti. Grande virtù quella di Sangiovanni di riuscire a fare delle piccole cose grandi quadri poetici, che commuovono e coinvolgono artisticamente e umanamente. E tutto è una grande attesa, come lo è la vita: “Ma stai aspettando. Attenta. Come la / vecchia tigre sul punto di lasciare.”.

Nazario Pardini


Nota al libro di Giulio Dario Ghezzo "I miei pensieri impazziti"

Nota
al libro 
I miei pensieri impazziti
di
Giulio Dario Ghezzo


Per Giulio Dario Ghezzo I giorni e le notti / ci passano accanto / scivolando come onde e la sua canzone è corta, solitaria / .../ in un angolo remoto Poesia piacevole, che si snoda su un percorso compatto e musicalmente avvincente dove ogni configurazione naturale corrisponde a una storia maturata e resasi immagine; così Borgomaggiore, La piazzetta, La torre della ‘Ucca, Nonna Corinna, Il canto del mare sono tanti elementi che concretizzano in maniera visiva gli stati d’animo dell’autore. E questa fusione fra anima e realtà, fra sentimento e memoriale viene assecondata da una versificazione spontanea, ma anche esperta nell’impiego di rime e assonanze in varie misure metriche a rievocare un piccolo mondo di un tempo di Natale, o la triste sirena che chiama, o ancora una seconda rondine sul davanzale della Stanza Rosa, del mondo / dove anche il vento dimentica di andare. L’autore in questa coscienza di precarietà dell’essere e dell’esistere, in queste confessioni esistenziali che coinvolgono per l’oggettività della loro portata, si aggrappa a suoni, a ombre, a monti, a odori dolciastri, a nuvole bianche in celesti profondità per dare concretezza al suo sentire. Il linguaggio si fa così spesso allegorico ricorrendo a un paesaggio mai come semplice pretesto descrittivo. Il calore portava con sé / dai monti odori dolciastri, / le nuvole torreggiavano bianche / in celesti profondità vertiginose.

 
Nazario Pardini

Nota su "Un sangue che ubriaca" di Giacomo Interlandi e su "All'azzardo dei giorni" di Maria Bianchi Cecchini

Nota
alla Silloge
Un sangue che ubriaca,
di
Giacomo Interlandi

La silloge trae il titolo da una poesia dove più intensamente e con maggior vigoria si vive l’interrogativo esistenziale del distacco e della memoria, motivi centrali dell’opera. Io non so se vivi-padre- / oltre le rosee nubi /di fenicotteri impazziti / o se sei di cenere / sotto le coltri eteree del tuo baratro. E il padre, la madre, il Simeto o altri luoghi della vita del poeta si fanno interlocutori e motivo di ancoraggio a un memoriale dispiegato su pièces di ampio respiro, costruite su versi liberi, ma sapientemente orchestrati. E’ soprattutto quello del ritorno uno dei temi di maggiore intensità lirica: Come un appuntamento / è il mio ritorno alla tua foce [...] E la fiaba, i meriggi di farfalle, il mio mare, lo scafo azzurro, come ogni altra configurazione naturale,  sono tanti momenti di un’anima tesa a concretizzarsi in immagini di grande intensità poetica.


Nazario Pardini



Nota
alla Silloge 
All’azzardo dei giorni
di
Maria Patrizia Bianchi Cecchini

                          
La silloge All’azzardo dei giorni si snoda su un percorso poetico variegato per stile e costrutti metrici, ma compatto nel vivere una poesia che sciora melodie esistenziali. Vale la pena “soli al timone seguire una stella / che ci consenta un attimo di sfida”, se “Tra i quesiti irrisolti / dalla pallida cenere divampa / un balenìo di fiamma:” Ma su di noi - ci dice l’autrice - dalla memoria che sempre più si fa rara arrivano segnali di un tempo incombente e rapace e “... il vento sfiora le corolle molli / dei crisantemi sulle ciglia chiuse / tintinna gli echi delle vecchie croci / e le lapidi stanche, / evoca un coro di voci sommerse /...” (Requiem). Anche se il vespro ripete incerte aspettative del domani, la chiusura dell’opera tende ad amplificare l’anima poetica fino a cogliere un ritorno che s’impone sopra l’ala sconfitta del rimpianto.
Quello di Patrizia si configura come un tessuto tutto affidato al potere significante del termine: parole scelte, arricchite da una aggettivazione meditatamente vissuta. Una sapiente modulazione di versi tesi a contenere spinte emotive che sortiscono lampeggianti segnali espressivi.
Nazario Pardini

Note ai libri "Bisognerà presto voltare pagina" e "Quel poco che ancora avanza" di Giovanni Tavcar

Nota
al libro 
Bisognerà presto voltare pagina
di
Giovanni Tavcar

Come per Eliot, in Burnt Norton, la poesia è “il possibile non realizzato nel tempo ... in cui le parole si sforzano, s’incrinano e talora si spezzano sotto il peso, sotto la tensione; scivolano, non vogliono stare a posto, non vogliono stare ferme ...” così per l’autore la poesia è il mistero di un linguaggio, in cui la parola s’interroga sul destino dell’uomo e sul misterioso richiamo della morte; in questa plaquette il verbo si fa ricerca continua per rendersi speculare al travaglio interiore teso all’arcano linguaggio dell’universo. Forse è nelle cose (nel dorato colore del miele, o in un pomeriggio inondato di sole, o nello spazio infinito di una lacrima) che il poeta riesce a concretizzare una cifra esistenziale in cui “Ci sono rischi / ben più terribili / da affrontare, / come il rischio di morire” e dove “Bisognerà presto voltare pagina / e riscrivere tutto di nuovo, / pena la sconfitta / e la totale dissoluzione”.  

                Nazario Pardini





Nota
al libro 
Quel poco che ancora avanza
di
Giovanni Tavcar  

La bella plaquette di Giovanni Tavcar, divisa in quattro sezioni ciascuna col titolo di una poesia, è tutta tesa , attraverso un percorso intimistico, alla ricerca di una verità che da sempre inquieta l’animo umano. Come introduce Graziella Parra: “L’anima del poeta è un vascello leggero, che naviga sballottato da continue tempeste alla ricerca di Luce, simbolo di una felicità che sia appagamento del corpo e dello spirito”. La navigazione ha inizio dal bagaglio dei ricordi che, compagni fedeli di viaggio, ci seguono interrogandoci sul loro destino: “Il passo / viene mantenuto in vita / dalla pratica della memoria” scrive l’autore e “Ogni ferita / torna a bruciare / ogni perso sorriso / ricrea vuoti / e smarrimenti...”  “intravedo però - continua il poeta - un denso germogliare di giorni / che il destino / deve ancora inventare...” e “Come posso / in tali circostanze, / srotolare / la sacra pergamena / dei sogni / e abbandonarmi / all’estasi sorgiva / di una fertile /
contemplazione?”. 
Un viatico di cadute e risalite, di sogni, speranze, illusioni, delusioni, il cui filo conduttore  è una ricerca spirituale che appaghi l’essere e l’esistere; un viatico dove l’anima è vita, dove è vita il mare - incessante prova dell’anima - è vita un eterno ricominciare e lo è la preghiera rivolta al Signore per la richiesta di un canto: “Ora che hai sedato le tempeste.../ fa’ ch’io possa cantare per Te...” “Non mi deludere, o Signore, come mi ha deluso questa affannata / e sterile umanità”.

Nazario Pardini

Nota a "Composizioni e notturni" di Gianluca Presutti

Nota
Composizioni e notturni, Il Portone Letteraria, Pisa 1999. Pp. 40
di
Gianluca Presutti

Definirei l’opera “Composizioni e notturni di Gianluca Presutti
un canzoniere d’amore,  in una sequenza di quadri in cui affiora lo stupore di chi ama ed è riamato, quasi come un omaggio “stilnovistico” alla donna  raffigurata in  immagini di raffinata e dolce eleganza, anche quando è colta nella dimensione della più concreta umanità. Canzoniere il suo che, con accezione moderna, si snoda attraverso vari percorsi rendendosi volta volta più denso, più libero, più ampio, più conciso, ora di stile poetico tradizionale, ora novativo nei tentativi di frammentazione sperimentale. Ma lo stile dell’opera scorre sempre attraverso rivoli chiari i cui gorghi si possono avvolgere talvolta in spirali di risucchio, ma per riapparire subito fluidi e trasparenti sopra un corso che scopre cocci e conchiglie candidi come neve. La parola, mai ovvia, è puntuale e precisa, incalza e aggredisce la materia con la forza o la dolcezza di chi vuole trasmettere sensazioni immediate, o covate in un animo che le ha sapute tingere di una vernice tanto delicata come quella di un’alba “ L’azzurro è colmo / di ombre e farfalle. / E’ l’ora / del più dolce batticuore. / Io ti respiro...../ L’Alba“ o  sensuale e misteriosa come quella di una notte “ Un desiderio, / contro il mare, / nell’ombra, / Da vivere / insieme / o da dimenticare / Contro la pietra e la notte“ o inquietante e  prorompente come il calore e il bouquet di un buon vino che sazia   è breve l’amore / che ci toglie il respiro. / Beviamolo / di un fiato / come se fosse un buon vino. / Rosso è l’amore“ E fin dagli inizi si stagliano nitidi sia la liricità che il concento - quanto mai originale e suasivo - tra accostamenti di musica classica e versi sapientemente adattati alle sue sequenze - allegro, andante, adagio - Questa spontaneità lirica continua il suo tragitto oggettivando  sensazioni di plenitudine in spazi senza limiti “Notte che non conosce frontiere / Oceano bello come il suo nome/. Molo e Oceano” o vestendo un’angoscia vibrante con uno stile tanto segmentato come quello di Pen-si-e-ri fram-men-ta-ti, oppure ancora aprendosi a situazioni di più ampio respiro esistenziale nell’utilizzo di una tecnica novativa e convulsa quale quella di “Tra siamo e non siamo”.
Per concludere, l’opera di Gianluca Presutti è da paragonarsi a quella di un esperto artigiano che con sensibilità, passione e creatività estreme adatta la sua mano ora empirica, ora estemporanea ai capricci varianti della materia. Il suo operato riesce magistralmente a controllarla fino ad assegnarle il compito di rappresentare  fedelmente le tensioni, i colori e gli umori della propria immaginazione. Ma questa lo guida in prevalenza su tragitti completamente nuovi  e moderni, che non vengono mai meno comunque a quelli che sono i presupposti tangibili della sua poesia: la musicalità, la creatività e il sentimento debordante da un’anima che si sorprende di fronte alle  bellezze dell’universo.  
                                                                                 Nazario Pardini
Settembre 1999

Prefazione a "Avvisi di cose cadute" di Annarosa del Corona

Appunti per una letteratura di fine secolo:
    

Prefazione
a
Avvisi di cose cadute
di
Annarosa del Corona


“Il giuoco delle equivalenze” in  Annarosa del Corona


Certamente oro colato quello che M. Luzi afferma nella prefazione al poemetto Questo millennio muore di Annarosa del Corona. In riferimento alla sua poesia lo scrittore, in maniera laconica come è suo stile, così dice: - libero e tuttavia compatto nel tono - Ed è proprio da questo dato di compattezza che vorrei partire nella analisi di Avvisi di cose cadute per sostenere una tesi la cui essenza credo contenuta nel titolo alla mia introduzione. Tra l’altro Luzi è il mio preferito (anche se più come poeta che come critico), e lo dimostra il fatto che proprio da parte mia è stato proposto,  come personaggio della cultura nazionale, al Premio Apulia di Bari nell’anno ‘98, riconoscimento di cui poi è stato insignito con la mia stessa motivazione di cui riporto un breve segmento: -  ...è l’autore che meglio di ogni altro non solo ha vissuto, ma che ha saputo esemplificare le inquietudini e le sollecitazioni della contemporaneità in una diacronia di vicissitudini artistiche valide a connotare le tappe fondamentali di quasi tutto il nostro secolo ... -
Ma io vorrei affondare la lama in quella che è la polpa della poesia dell’autrice, la costante, direi, di tutte le sue opere, l’aspetto determinante del suo percorso artistico: “il gioco delle equivalenze”, ovvero l’immagine poetica che riesce sempre a trovare una sua corporeità, una sua corrispondenza, una corteccia nell’icasticità del reale; la sinergia di due forze. - Ma questo avviene in tutti i lirici - mi si potrebbe dire. Il grande recanatese ne è maestro e ne fa sfoggio quando fa dell’idillio il serbatoio delle parvenze a cui ricorrere per dare corpo ai suoi dubbi esistenziali. Ma questo non in tutti, o perlomeno non in  tutti i poeti avviene in maniera così evidente, anzi alcuni grandi lirici non disdegnano l’aveu direct, il dialogo aperto con l’interlocutore senza ricorrere all’intercessione della realtà esterna per farsi leggere. Potrei citare D. Campana dei Canti orfici, e ne è un esempio palese Fabbricare, Fabbricare, Fabbricare, “/......è tutto un lavorare / ecco quello che so fare. /” lirica, scritta dal poeta sul retro di una cartolina indirizzata a Sibilla Aleramo da Marina di Pisa, piena di intensità sulla vanità del lavoro umano in cerca solo di un’affermazione concreta e durevole. Non meno difficile sarebbe la solita ricerca nelle Liriche di Arturo Onofri per esempio, tutto rivolto a confessare la nostalgia della propria infanzia, quando il mondo è tutto nuovo e messe continua di scoperte. Montale forse  più di tutti è l’erede dello stile leopardiano, dicendo di sé con fare indiretto, dandoci come unica possibilità di lettura, quella di ricorrere alle equivalenze oggettive. Nella Nostra io vorrei tornare al tema della “compattezza”, ma circoscrivendo l’analisi a un campo più tecnico e specifico. E già nella prima poesia della silloge Avvisi di cose cadute emergono quei dati visivi come “stella” “oasi dei deserti” “l’interminabile sera”,  indicativi di un iter poetico che tra memoria e preannuncio dispiega l’animo dell’autrice su questo percorso icastico. E così Nei tuoi lunghi viaggi “Nei tuoi lunghi viaggi / tagli la notte./ ..../ La mappa e i traguardi / della tua astratta geografia. /” Mentre in Ti seguo  dall’angusta cella gli anni passati equivalgono a notti chiare, a luminosi sentieri, la partenza a mattini fradici di pioggia, al mare in tempesta. Ma la pièce emblematica della silloge per un apporto esemplificativo di chiarezza a tale analisi esegetica credo sia Quanto è freddo l’inverno, amore, dove tutto un patema esistenziale viene descritto in maniera indiretta con un  ricorso continuo alle immagini della realtà esteriore. “.....Felice la tua barca / prende il largo. /...../ Incerto è il giorno / incerto è il mare /....../ Morente è il sole, / in agguato le stelle /...../ Dall’occidente / viene l’attimo / la resurrezione. /“ Credo anche uno dei momenti di maggiore intensità lirica e stilistica. E per concludere, a ritroso, “Gli Avvisi” stessi del titolo non sono altro che le medesime immagini le quali, riaffiorate con tutto altro sapore e intensità di quando vissute, si concretizzano, in maniera più o meno imperscrutabile, in “cose cadute” come natura vuole che ogni cosa “cada” dall’alba, al meriggio, al tramonto. Da questo giuoco di equivalenze, anima della compattezza dell’opera, nasce un linguaggio metaforicamente saporoso e dolcemente comunicativo; un linguaggio di alto spessore tecnico e umano.  

                                                                                                Nazario Pardini
Settembre 1999

Nota su "L'orrore di Hiròshima", di Franco Daleffe e Roberto Marchi

Nota
al libro
L’orrore di Hiròshima
di 
Franco Daleffe, Roberto Marchi



Una giusta simbiosi la plaquette dei due artisti tra quadri pittorici e immagini poetiche degna di rendere eterna nella memoria una sciagura che l’intera umanità vorrebbe cancellare. Errori, incidenti di percorso, momenti di alta drammaticità tra i tanti altri successi nella storia, ma mai, tanto crudeli come questo, causato da un’intelligenza così sofisticata nel dare la morte. L’analisi è scandita da particolari raccapriccianti e al contempo esaltanti per la realtà e la crudezza  poetica con cui sono delineati. Si scende a fondo. L’obiettivo circoscrive e delimita sempre più i quadri fino ad essere impietoso. Si morde il contenuto con uno sguardo spesso al di sopra del fatto, con una partecipazione verghiana, che rende ancora più obiettivo e crudele l’avvenimento. Il linguaggio endecasillabo nuovo, rivisitato nella sua modernità aritmica di enjambements, ci aiuta a vivere il dramma con un registro che si fa quasi prosa coerente e lineare. Le citazioni potrebbero essere prese a caso e tutte darebbero conferma dell’alto livello artistico e umano che l’autore riesce a trasmettere. “Si compie / il sacrificio alla follia dell’uomo.” (I). “Immane fiotto smosso dalla bomba.” (II). “Tutto è contorto, tutto è arso.” (IV) “Le gocce di morte. / Le ceneri si posano letali.” (V). “- Acqua, acqua, datemi acqua -, disperati / gridano i feriti (...)” (VII). “A vomito, urina e feci si mischia / pelle molle staccata dalle membra / martoriate, devastate dal fuoco.” (VIII). “Una donna cercava il suo bambino./(...) Accanto al suo bambino diventò folle.” (II). Chiudere con gli ultimi versi del libro di Roberto  Marchi è la migliore affermazione che possa scaturire dall’anima della lettura “Le anime e le menti / tremano ancora. / Il dolore del mondo / è conoscere che le loro lacrime / asciutte non servono ad evitare / l’orrore di nuovi folli olocausti.”.


Nazario Pardini





Commento
a
L’orrore di Hirishima
                                           di
Daleffe - Marchi

 La prima cosa che colpisce durante la lettura è proprio, come giustamente afferma la motivazione, questa sinergia tra aspetto iconografico e ricchezza poetica. Daleffe con le sue chine stilizzate, colte nei momenti espressivi di un terrore dal sapore dantesco, e con una progressione di immagini che si fa sempre più psicologicamente sconvolgente, supporta i bei versi altrettanto secchi e incisivi di Marchi.
Il bombardiere, la nube, sirena, caos, cadaveri per le strade, fino a pazzia e suicida, sono i titoli dei quadri che ritrattano in maniera emotivamente crescente le diverse fasi della tragedia fino all’esplosione della pazzia e del suicidio.  
           Come dice Raffaele Degrada - Daleffe ha inteso stilizzare l’immenso dolore, senza fare decorazione; si è trovato nella difficile condizione di uno che voglia rappresentare il non rappresentabile, perché Hiroshima non è rappresentabile.-
           E anche il poeta Roberto Marchi fin dai primi versi di Dedica ci mette di fronte a un dire poco elaborato, quasi narrativo, per raccontare con il più grande realismo, senza fronzoli, quelle immagini. Un disegno altrettanto stilizzato dei momenti di quel drammatico 6 agosto ‘45.
           “Sono sicuro di sapere dove / adesso vivi, piccola bambina / di Hiroshima...” Dedica
E tutto il libro è sorretto da uno scheletro metrico prevalentemente endecasillabo, che non tiene conto delle regole dello stesso metro poetico, ma spesso sversato rende ancora più immediato, meno armonico, e più crudo il fatto narrato.
           Direi, l’insieme, una grande commozione covata negli anni ed esplosa infine nella suggestiva pagina di un esperto cesellatore di sintagmi poetici, disposto a rinunciare ai colori dell’iride a vantaggio dei chiaroscuri.

Nazario Pardini

Prefazione a "La casa sulla golena", e a "Un polso ferito" di Luciana Tagle

                                                   Prefazione
                                                         a
La casa sulla golena, Edizioni Il Portone/Letteraria, Pisa 1999
         di
                    Luciana Tagle

                   è costruita su una golena di detriti alluvionali
                                           la casa sulla collina di Luciana Tagle


Quale immagine più efficace e più penetrante di quella del poeta che sulla golena osserva scorrere le acque della vita? E quale metafora più incisiva di quella dell’accostamento dei giorni della settimana ai momenti dell’esistenza in una circolarità concatenata che ci nega l’accesso a “l’anello mancante”?
Luciana Tagle vi ricorre senza scadere in eccessivi sentimentalismi, raccontando con dati oggettivi una realtà spesso amara. è proprio con questa amarezza nell’anima che il poeta inizia la silloge partendo da una Domenica memoriale in cui “No future scrivevano i punk / con vernice nera sui muri scrostati / della città negli Anni Settanta / qualcuno del gruppo se l’è divorato l’eroina...” E poi il ritorno alle abitudini quotidiane “senza futuro” di un presente monotono, il Lunedì, che sa tanto del pessimismo esistenziale delle maschere pirandelliane “Eclisse  dei sentimenti e della musica / in quest’oscuro / presente senza futuro - albeggia sulla città / sui giardini racchiusi / tra i palazzi come uova nel nido -”. Ma si può ricominciare? “...non è impossibile / sgomberare l’armadio dai vecchi abiti / accatastare libri [...] / gettare vecchie carte [...] / tagliarsi i capelli [...] / ripulire dalle scorie i bassifondi dell’anima / [...] / predisporre il rituale delle ceneri / disperse al vento [...] e non pensarci più”. Quanto amara quella soluzione delle ceneri disperse al vento del Martedì! o quella “...pena / ostinata di sopravvivere” che “ tiene / ancora insieme le fragili / ossature di questa / nostra casa sulla golena” del Mercoledì. Forse l’amore... “...ma tu non ci sei - non esisti -”. Forse la speranza... “tutti ripetono: domani è un altro giorno”. Ma “Il domani che tu insegui ti sfugge sempre / tra le dita. E ancora spunta un’altra / alba livida di pena”. E anche il Sabato non è altro che “Vivere fino all’ultima  stilla la vecchiaia e il dolore / è questo che ci aspetta / la poetica della ginestra / si riduce a questo orrore”. A chiudere, un poemetto in trittico forgiato su Case celesti che non ci appartengono o sulle nostre sbilenche case che sorgono “sui detriti alluvionali su faglie / tettoniche in attesa del big - one / su pendici vulcaniche in continuo sussulto / magmatico su dune / di sabbia itineranti nel vento [...]” e che stagliano un senso di quanto mai struggente caducità sull’orizzonte della vita umana. “Alla fine non resta / che la casa dell’anima dove rifugiarsi / chiudendo stretti gli occhi bloccando / il respiro” e la conferma che “Nel buio / sottoterra o nelle ceneri / disperse al vento il ciclo si perpetua / nell’orrore del vuoto panta rei”. Ma proprio nella perpetrazione del ciclo dell’umano forse sta quell’inconscia religiosità laica che vince i confini del singolo e, con la poesia, si estende alla sommità del tutto in Luciana Tagle.   

                                                                             Nazario Pardini

Ottobre 1999


           Prefazione            
a
Un polso ferito, Il Portone/Letteraria, Pisa 1999. Pp. 32
di
            Luciana Tagle






La preghiera alla divinità pagana Nekuia  “Dammi, ti prego, il sangue e vita e amore / e giovinezza ancora e rimembranza................../ Nekuia” dà inizio alla silloge Il polso ferito che si snoda attraverso un percorso memoriale e meditativo-esistenziale di profonda intensità lirica. L’ “erma corrosa dal tempo / termine di questa notte / sul ponte buio degli anni / Ultimi fuochi” o l’improvviso e inaspettato ricordo “di un collettino di pizzo / Souvenir” o l’accorato “Addio, Ale!“ come grido “collettivo Date Lilia” a contraddire il senso della fine, o ancora l’invocazione all’emblematica Euridice “Lasciati risucchiare dall’altra parte, ove non sai / che cosa troverai....... Euridice “ sono alcuni dei tanti momenti che possono acquisire funzione simbolica nella vita di ognuno. Momenti di un tragitto che l’autore riesce a concretizzare in immagini poetiche suggestive sorrette da uno stile moderno e forbito come quello di Orsa Minore dove già la citazione del Divino Poeta non viv’egli ancora? Non fère gli occhi suoi lo dolce lome? ci prepara ad uno dei momenti di maggiore intensità del percorso poetico dell’opera. Il memoriale si fa qui “ Sassi appuntiti non erosi dal tempo / .....mentre contemplo le costellazioni / ........per rivivere quelle emozioni / e chiamarti tanto a lungo finché tu risponda./ “ Il disegno dell’Orsa Minore con le stelle di mare poste a essiccare sul muro costituisce il segreto intimo del poeta di poter tessere quel filo di continuità tra il reale caso dell’essere e l’imperscrutabile senso dell’esistere in cui la memoria “pur sassi appuntiti” assurge in fondo a valore di vera sconfitta che possiamo infliggere alla morte.Ma  “né sassi né stelle potranno ridarmi le tue parole / quelle parole crudeli scansioni del mio pensiero. / ” è qui che l’autrice dimostra tutta la sua forza d’attaccamento a una vita costituita per la maggior parte di momenti  riaffioranti da un vissuto tanto incisivo da continuare a implodere con vitalità dentro di lei. Ed è proprio in questo binomio “di corone di spine” e coerenza di forma che il più delle volte si attua il tanto difficile e non meno misterioso miracolo dell’arte, per Lorca polso ferito che cerca di sondare le cose da un altro lato.


                                                              Nazario Pardini
    Settembre 1999

Prefazione a "In urna di memorie" di Vera Cantini

                                                                                           Prefazione
                                                                    a
  In urna di memorie, Il Portone/Letteraria, Pisa 2000. Pp. 32
                                                                    di
                                                          Vera Cantini

 

                      Dalla solitudine dell'estraneità alla solezza esistenziale
                                                                    in
                                                          Vera Cantini


La solitudine dell’estraneità, l’amore e il disamore, i figli, la rabbia, il dolore, la quiete, la natura, la scrittura, la metafora sono i punti cardinali di un percorso che dal contingente si eleva alle grandi interrogazioni che l’autrice scolpisce in lesene In urna di memorie. Poesia semplice, comunicativa, lapidaria e al contempo esperta a livello tecnico e lessicale quella di Vera Cantini dove le commozioni ben controllate e mai indulgenti nei confronti di soluzioni eccessivamente sentimentali si aprono verso orizzonti plurimi e di ampio respiro. “Patologia percettiva / è il miraggio nel deserto / come se mia certezza / cedesse all’illusione / di tenera carezza / di calor d’emozione / di profumo di parole” (patologia percettiva). Già patologia, miraggio, certezza ed illusione ci introducono in un dialogo quasi fisico non solo con l’anima dell’autrice, ma anche e soprattutto con l’anima dell’umano. I particolari profumo di parole, esausta, stanca, assurdo tamburo di rock, mi coprirò le orecchie, quest’emozione / che mi prende al risveglio, io aspetto che vieni..., Ma non trovo il coraggio non restano relegati alla sfera personale, né ci inganni l’immissione prepotente della prima persona, ma si amplificano fino a rendersi intuizioni oggettive. L’aspetto artistico sta tutto in questa rielaborazione di immagini improvvise, inconsuete che ne suggeriscono altre ad ampliare geometrie circolari la cui centralità sta tutta in uno scavo interiore. E la poesia si articola in una tessitura aperta ad ogni possibilismo interpretativo, lasciando il lettore libero ed interattivo nell’avviare i meccanismi dell’intuizione poetica. “Credo sia lì... / nel dolore dell’indifferenza /sia lì che si affina l’udito /  sia lì che si sente di nuovo / sulla pelle una dolce carezza di sole / sia lì che cadono bende / e gli occhi tornano a essere / quello per cui sono: / due semplici sfere / per farti vedere / due mondi ingranditi”. Se la poesia classica ci offriva, narrandole con continuità il più delle volte endecasillaba, formulazioni precise di modo che la soluzione fosse chiara e descrittiva, la poesia della Cantini secondo schemi moderni si fa oggetto stimolante di scelte che possano anche esorbitare dalle stesse intuizioni del poeta e diventare plurime. “Dunque / Sarà silenzio...” (silenzio). “Sfiorando / il trascendente / avverto / il cosmico / abbraccio / di due corpi / ondeggiar / nell’Olimpo.../” (l’Olimpo). “su acque di fiumi / d’orgasmi e parole / di candide ninfe / in attesa di eroi / inghiottiti in naufragi / su antiche galee.../” (io aspetto che vieni). Ne nasce un’ambiguità che si apre alle molteplici risposte dei lettori. La conseguenza prima è che tutto ciò di cui si serve l’autrice - ogni oggetto che esamina, ogni figura che propone, ogni ambito sentimentale o fisico che tratta - si fa simbolo di un esistenzialismo ora più pacato ora più sofferto che riguarda il fatto di esistere. “Dove sarà / colui che avrei potuto amare? / Forse sul limitare / del campo di grano di Van Gogh / ...” (sopra un campo di grano). “Mi percorre in fremiti / dall’inizio alla fine del mondo / questa voglia d’amore senza oggetto / questa voglia di grida senza un nesso / questo scorrer di sangue / che evade dalle vene / fino a fermarsi in un ghiacciaio di rosse ombre” (fremiti). Il linguaggio è spesso aveu direct, allegorico e in funzione di molteplici soluzioni; il registro si raddoppia alternando il reale all’immaginario, il presente al memoriale, con una agilità di versi tessuti su un pentagramma di misure brevi che sanno spezzare l’endecasillabo con una maliziosa anticipazione o posticipazione del tonico “per invitarmi a una camminatina /...” (non so per voi) o raddoppiando il settenario “a far cader nei boschi rugiada dalle foglie” (buon compleanno) o unendo il settenario a un senario “che disperatamente cerca le sue mani” (non so per voi). A queste costruzioni si alternano endecasillabi che sembrano riportare il sentimento dell’esistere ad un senso più riposante dell’accettazione di una realtà. Complessivamente però il poeta sembra preferire una metrica in versi brevi, quasi per darci l’idea di voler giungere con maggiore velocità e incisività  a conclusioni spesso amare come nel silenzio   “Credo sia lì ... / nel dolore dell’indifferenza /...” o nella quercia “Ed io così piccina / che credo di sapere”.


                                                                                                           Nazario Pardini


Arena Metato, settembre 2000


Prefazione a "Metà strada" di Enzo Gaia

Prefazione
a
                                  A metà strada
                                                           di
                                                   Enzo Gaia

  

Mi piace esordire dai versi della prima poesia della silloge A metà strada per mettere in chiaro, se così si può dire, e la struttura poetica e il filare dei contenuti che fortemente simbolici cercano di ampliare, slargare gli episodi della vita verso prospettive o aspettazioni sapientemente e ironicamente duttili. “Mutare il tramonto in poesia a volte pare proprio una follia” Cambiare i tramonti per vedervi profonde e intime insoluzioni è proprio dei poeti, seppur follia, ma forse proprio loro hanno quel superlativo potere di dare il colore ai suoni “Come il pittore / che sulla tela dipinge / il colore del vento.” Autoritratto Da qui lo stupendo “errore” degli artisti di non arrendersi alla realtà, ma di volervi vedere qualcosa di più foscolianamente appagante, di volerla leggere con un registro di lettura che la svincoli dalle ristrettezze nelle quali l’uomo si trova vincolato per natura. “Ed al computer / senza fantasia / a quarant’anni si vede ormai costretto” Canto notturno E tutti gli ingredienti di una poetica reale e realistica si succedono in un significante a volte più nascosto a volte più aperto e spietato. “Plasmare dal nulla i pensieri” “Ho un dubbio forse ho sbagliato sapone” “Dove trovare il sicomòro / sopra i rami del quale / arrampicarsi?” “Ed anche la morte...per l’uomo che crede è già vita” “Ben presto il mondo ancóra si accapiglia / e la bontà rimane un’utopia”. Per Leopardi (secondo Binni) la poesia riecheggia la brama umana dell’infinito. Per E. A. Poe “la creazione ritmica della bellezza”. Per Hesse (nel “Il mio credo”) “la pittura dal di dentro in fuori in una atmosfera di arcana sospensione in cui colore e parola si scorporano in astratta musicalità”. Per Th. Eliot il compito del poeta “non è quello di trovare nuove emozioni, ma di usare quelle comuni e di esprimere, trasformandoli in poesia, sentimenti che non si trovano nelle emozioni vere e proprie”. Fine umorismo inglese secondo cui il mistero di quest’arte, come quello dell’universo, è per lo più impenetrabile anche per la poetica; ma che non debba servire a mistificare contenuti con giuochi rocamboleschi, linguaggi astrusi, e oberati da orpelli, forse è un fatto accertato. E qualsiasi argomento si accinga ad affrontare o qualsiasi sentimento voglia esprimere, credo lo debba fare soprattutto con l’intenzione di mettere una platea nella possibilità di recepirli agevolmente, ricorrendo a figure che nascano e si sviluppino con naturalezza e con lo scopo di offrire colorito ed ausilio, e non confusione al messaggio poetico. Perché tutto questo. Non è certamente un fuoriprogramma se riferito al Nostro. La grande virtù di Gaia è quella di partire dal contatto diretto delle cose della vita e della quotidianità per collocare comunque le sue aspirazioni non tanto in speranze escatologiche, quanto in valori basilari e di portata umana quali quelli dell’autenticità dell’amicizia, da rafforzare soprattutto nei momenti di rischio. “Rimani ancora / ho catturato per te / una cometa / davvero più facile / sarà il nostro cammino.” Lirica per un amico. E la metafora “Questa sera / urla forte / l’uragano della mia / esistenza.” rende più incisivo e intenso il forte afflato di un recupero o di un eventuale potenziamento “Giochiamo insieme / affronteremo a viso aperto / la notte / e grideremo alla luna / la nostra voglia di vita” Positiva quindi la poesia di Gaia, come il suo dire che si distende ora veloce e scattante, ora più quieto, ma pur sempre chiaro e sintonizzato a pizzicare le corde di uno strumento che emetta note di alta sinfonia. E anche se non poco lo aiutano le allitterazioni, la pratica di una moderna rima interna, e di una sapiente utilizzazione metrica, pur sempre permane quel mistero di Heliot che Gaia sembra fare suo. “E se qualcuno, infine / ti chiamerà poeta / resta in silenzio / senza replicare: / accade spesso all’uomo / di...sbagliare.”

 
Nazario Pardini

Linguaggio e natura, natura e vernacolo in Nazario Pardini

                                         Linguaggio e natura, natura e vernacolo                
                                                                  in
                                                       Nazario Pardini 

Lo Zingarelli alla voce vernacolo così riporta relativo agli schiavi nati in casa, poi, paesano, domestico, da verna: schiavo nato in casa; come pernacchia da verna. Proprio del luogo in cui si è nati o si vive. Nativo, paesano. Parlata locale. Poesia in vernacolo; dialetto. Quindi il discorso deve essere affrontato su due fronti: a livello linguistico e a livello poetico, e poi, se si vuole, è il poetico che ingloba ambo le questioni. Credo che la più grande presunzione a proposito sia quella, pur apprezzabile e per lo sforzo di studio e per i contributi alla storia delle lingue, di voler generalizzare il vernacolo con grammatiche e sintassi specifiche e capillari che sfuggono alla varietà incontrollabile delle esigenze e dei substrati delle singole località. Daltronde la peculiarità degli spazi è talmente ridotta e limitata ad aree veramente microportanti, che in uno stesso paese non era raro il caso che si usassero forme e parole diverse da corte a corte. Era sufficiente un muro un po' più elevato a creare microstorie che affondassero le radici in esperienze personali. E presunzione ancora più grande è quella di volersi fare supervisori di vernacolo fino a dire che questo lo è o non lo è. Roba da ridere. O ancora di più affermare che tale linguaggio è poesia tradotta in vernacolo, quando il vernacolo è parola, con tutte le sue sfumature fonetiche variabili da luogo a luogo, cultura con tutte le altre sfumature che la riguardano, linguaggio che non è detto debba essere per forza diverso in tutti i suoi singoli sintagmi dal ceppo della madre lingua, e poesia, soprattutto poesia che comporta musicalità, immaginazione, personalità che riguardano solo e solamente quel poeta con la sua totalità espressiva strettamente connessa al suo bagaglio di vita e di cultura vernacola. Il vernacolo è voce soprattutto orale e personale che cambia e si trasforma da luogo a luogo, spesso da componente a componente della stessa famiglia, in base alle relazioni di vita e di cultura che ogni singolo individuo ha e ha avuto. Naturalmente tutto questo prima che il mass media e gli altri veicoli di comunicazione ( viari e scolastici e di altro tipo) riducessero la portata delle microlingue a vantaggio di una lingua virtuale cosiddetta nazionale. E di certo il vernacolo del popolo di Metato era diverso da quello dei cittadini di Pisa ed era diverso da quello con cui si parlava  a Vecchiano o a Nodica. Una volta bastava un fiume come il Serchio a determinare diversità notevoli a livello linguistico. Dato che le vie di comunicazione erano ridottissime e che i paesi erano pressoché relegati a vivere una vita isolata e circoscritta al proprio ambiente. Quindi la prima norma, e la più importante, credo che sia quella di accettare le piccole storie linguistiche legate singolarmente ad esperienze individuali diverse e per motivi di vita e per fattori di ambiti  economici, di studio e di mestiere. Che a Vecchiano i brenciuli fossero i cavoli (parlo degli anni ‘50) lo seppi frequentando dei compagni di scuola che facevano il superiore assieme a me. E così imparai che lo strizzagnolo era la strettoia e che il redulo era il viottolo. Addirittura qualcuno affermava che si dicesse brenciolo altri brenciulo. Altri ancora redolo invece di redulo. E questo per gli stessi vecchianesi, che magari abitavano in strade diverse. Non è il caso che qui ci si soffermi a disquisire sulle verità filologiche, competenze che non ci riguardano. Ma per venire a noi e non rendere troppo serio il discorso linguistico sia a livello diacronico che sincronico, il linguaggio di Pardini è prima di tutto pardiniano e poi metatese. Pardiniano in primo luogo perché zeppo di tutte quelle esperienze, cioè, che Pardini ha fatto nella sua vita e da paesano e da uomo di cultura con la sua professione ed i suoi titoli che gli hanno permesso di frequentare determinati ambienti. Ed è bene che sia così, se Dio vuole, perché l’arte e quindi la poesia è prima di tutto personalità, spontaneità, e adattamento di un linguaggio alle esigenze di una materia abbastanza convulsa che vuole fuoriuscire. E non il contrario. Pardini si rifiuterebbe senz’altro di sottoporsi a virtualismi paragrammaticali o paramorfosintattici per incasellare il suo mondo in base a delle forme prestabilite e chi sa in base a quali criteri, che ne condizionerebbero la spontaneità. Pardini si esprime con il suo vernacolo e non con quello degli altri. E quello che ancora di più conta nell’autore è la continuità di carattere stilistico e ispirativo  che i diversi critici hanno avuto occasione di mettere in evidenza nelle prefazioni delle sue opere anche in lingua. Romboli Floriano afferma mi piace indicare la ricorrente duplicità dei registri espressivi che in altra occasione mi è capitato di mettere in risalto quale caratteristica specifica del linguaggio pardiniano sovente oscillante fra un livello basso, tecnico- agreste e popolareggiante e un livello alto, aulico-prezioso(...) Mi piace esordire con una citazione testuale allo scopo di segnalare aspetti di inequivoca continuità nella ricerca stilistico-letteraria di Nazario Pardini(...). Pardini è alla ricerca continua di se stesso e del suo mondo interiore rappresentato dalla realtà che lo circonda. (“ Gliè venuto dar mare ‘r maestrale / bello zuppato d’aria di ‘ontrada.” La rïiesta der vento) La sua poesia è fatta di simboli ed ogni simbolo naturale rappresenta un suo stato d’animo. (“Mamma mia ‘ome mi sembrano più vecchi / ll’arberi spersi ‘n mezzo alla ‘ampagna!” C’è solo ‘r cäo ‘he brilla) Di qui il suo amore viscerale, espresso ora in maniera ironica e divertita (“Ti guardo ‘oll’occhi lucidi stasera / mentre ‘he strofini e’ soliti tegami” Beppe alla su’ Rosa), ora passsionale (“Valla a cercà’, canzone, vai nell’aria / vai dappertutto e cerca di trovalla” Canzone d’autunno) per una natura che sembra quasi contraccambiare al poeta il suo affetto agevolandogli la comunione con i suoi suoni, i suoi colori, i suoi palpiti, le sue vibrazioni, le sue gioie e i suoi dolori. (“Anc’oggi tira ‘r vento e ‘r cèlo è un velo / di nubi bige ‘he toccano le dita.” Per la festa de’ morti) Il Pardini si oggettivizza in maniera icastica nella sua campagna che personificata gli risponde (“Mi squarciano la gola e ‘nquanto ar bé’ / mi trattano ‘on veleni e detersivi. / Com’ero ‘ontenta prima ner vedé’ / prati fioriti sparsi ‘n mezzo a’ rivi.” Tra Beppe e la natura). Per leggere la sua poesia e la sua lingua occorre interpretare i quadri della sua Valdiserchio (“Cara mi’ terra bella mi’ Metato / che ti distendi ‘n piano lungo ‘r fiume/ rïopperta di rame mäolato / e di foglie ‘he ti ‘ascano ‘ome piume” La terra di Beppe)  , e il vernacolo metatese o meglio pardiniano che ne deriva è un linguaggio metaforicamente panico e allegoricamente saporito. E a conclusione uno dei sonetti  più esemplificativi.  (“Stamani mi són messo solo solo / ad ascortà’  e’ lamenti de’ gabbiani /lontano dalla terra, ’n cima ar mòlo, / con tutto ‘r mare strinto tra le mani.” Giovinezza)


Nazario Pardini

Il gioco delle equivalenze in "Radici", di Nazario Pardini

“Il gioco delle equivalenze”
in
RADICI
di
Nazario Pardini
Fin dalle prime battute della mia silloge Radici credo risalti chiara la necessità di creare una giusta sinergia tra forza interiore e rappresentazione esterna che riesca a concretizzare  il cumulo delle sensazioni, dei sentimenti e delle immagini, sedimentati col tempo nella mia anima, in configurazioni naturali. E tutt’attorno (negli orti del paese, nei giardini, sul mare, nelle pinete, nei campi, nel mondo insomma che mi circonda) l’ostensione del panciotto verdastro, i suoni di velluto, il cielo in funi di mattone, le coccole ad occhieggiare, la presenza del crescione e del farfaro, i giunchi del colore verde rossiccio, l’erbale silenzio, il profumo di spigo, il rutilo calante o i solchi carrabili sbilenchi non sono altro che una lettura di  tanti momenti naturali strettamente speculari al tono di corrispondenti stati d’animo. E questo bisogno da parte mia di vedermi rappresentato nei giochi che la natura stessa offre col variare delle stagioni è anche la molla determinante di una poesia metaforicamente saporosa, dolcemente comunicativa e strutturalmente legata ad una ricerca paziente e di consolidato spessore culturale di elementi lessicalmente giusti all’intarsio. In Radici le liriche sono disposte secondo un ordine di successione temporale: dalle estati di Immagini, di Alla foce o di Tarda estate, agli autunni di D’autunno i falò, di Che dire dell’autunno; dagli inverni di Non ciurlavano nel manico le madri , di Nevicata o di Steccolito è il dicembre, alle primavere di Una pianta nata da poco, di Zufoli e fili d’erba o di Erbale silenzio, fino  ai tocchi rauchi e agli odori dimessi di una conclusione autunnale di A Lidia e di Lo stradone di scuola, dove, oltre ad emergere che proprio questa è la stagione più vicina al mio sentire, forse si attua anche il momento di maggiore intensità lirica e stilistica del “gioco delle equivalenze”. Ma a questo punto mi  è sembrato giusto e esegesicamente necessario tirare in ballo il critico che meglio di ogni altro conosce sia l’amico che l’opera, avendo già prefazionato due mie sillogi Le voci della sera, e Alla volta di Leucade. Così il Prof. Floriano Romboli ha acconsentito a collaborare per quanto riguarda la rimanente parte introduttiva.
        -  Certo è che Pardini non nutre da tempo ambizioni di vitalismo sfrenato e ciò non per banali ragioni anagrafiche, ma per acquisita lucidità della visione d’assieme: il suo animo è infatti improntato a quella consapevole, amara malinconia che gli suggerisce preferenzialmente immagini e atmosfere di questa stagione, la quale appare nei suoi versi evidenziata in tutta la sua centralità problematica di densa e complessa metafora. (”Che lanciavamo sassi ti ricordi? / Erano così veloci che anche i falchi / restavano di stucco nel sentirli / sibilare nell’aria.”, Lo stradone di scuola vv. 20-23).  L’armonia obiettiva della natura è magia segreta delle cose tentare di sondarne il mistero, magari leopardianamente cercando un colloquio con gli astri, è impresa superiore alle tanto modeste possibilità degli esseri umani, alla cui mente è negato il volo al di fuori o al di sopra di ambiti limitati (“è abituata / al fuggitivo scricchio del roveto / o al fremere leggero delle fronde / all’asolo che sfugge, od al cadere / funereo delle foglie nel settembre / tumido e rosso”, Eliaca stella vv. 22-27). Se la vitalità più congeniale all’autore è pertanto quella attenuata e ridotta del saggio ripiegamento autunnale, nondimeno giova il ricordo del proprio e dell’altrui sogno di un’esistenza gioiosamente tesa a un amor vitae senza limiti. Da questa disposizione spirituale nasce quel fascino seducente della memoria, prima semplicemente umana e poi più finemente poetica (“- Non temete. - / Noi restavamo avvinti - Non temete. / Si accenderanno stelle e dalla luna / gocciolerà su voi nettare vago / avvezzo a far sognare. Basta amare / e tutto sarà d’oro, e azzurro il cielo”, Vaghezza, vv. 29-34), che pervade l’intera raccolta e ne garantisce la compattezza strutturale. è d’obbligo far notare inoltre l’inequivoca continuità  nella ricerca stilistico-letteraria di Pardini, poeta dalla produzione ormai abbondante, ma sempre rigorosa e intimamente sorvegliata alla luce di una sensibilità raffinata e profonda. La sua elaborazione lirica ama le misure della precisione rappresentativa ove sono in primo piano gli oggetti o gli elementi del paesaggio o le situazioni consuete della sua campagna; e i suoi versi attraggono per l’efficacia della concretezza evocativa. E per questo il linguaggio pardiniano sovente oscilla fra un livello tecnico-agreste e popolareggiante (gruma, rama, sbalasciato, butti, buttate, seccume, e a proposito la cadenza proverbiale degli ultimi due versi della poesia Facciate “inganni quando dici / che il rutilo calante è un buon levante”) e un livello alto, aulico prezioso (rezzi, verdicante, concento, spiro, giovine, perleo). (“Le mura sono scabre e le facciate / arse nel mio paese. Sarà il sole / rutilo e grosso quando si sfarina / che le rende grinzose. Dico che / proprio a sera lo vedi. è quando l’aria / arriva obliqua e rossa sulle case / e di scancio le coglie che traspaiono / ombre e penombre raso le pareti / esposte ad occidente. Certo meno / si vede all’astro verticale se / con tutto il lucore meridiano / le ferisce”, Facciate vv. 1-12). (“Là infilava la mano uno stradone / fino a perdita d’occhio e riportava / tremiti d’erba medica alle greppie / frementi di muggiti. Si accavallano / gli sterpi nuovi a vecchie ributtate / di seccumi sul fumido selciato / della corte oramai invaso. Mio padre / lo faceva lucente con i tonfi / d’arzilli correggiati. I bei tramonti / rossi sui campi a esorcizzare cirri / su cerule speranze, si defilano / tra pazze rame in crisi d’abbandono.” L’aria è di cera, vv. 12-23). Ho appunto corsivizzato dei termini nei versi delle poesie sopracitate per indicare la ricorrente duplicità dei registri espressivi Non si tratta certamente di accostamento casuale, di giustapposizione distratta: porre in tensione esperienza personale, condizioni di vita determinate e tangibili, e riflessione astraente, modelli ideali, tradizione culturale-letteraria è il moto intellettuale di fondo, l’autentico nucleo genetico della poesia di Pardini. Nei componimenti di Radici il tessuto linguistico risulta comunque privo di dissonanze, rivelando tratti di armonia formale che costituiscono un risultato d’arte senz’altro maturo e compiuto. La nettezza descrittiva, di frequente associata a un sapiente gioco di rivelazioni cromatiche, è in funzione dell’attenta, sofferta partecipazione dell’autore al ritmo vitale della natura. -


Nazario Pardini