ENZO BACCA
IN VERITÀ MI DICO
PREFAZIONE
Scandagliare l’animo dell’uomo-poeta
e cercare la genesi sottesa alla raccolta di versi, che sembrano nati dal
nulla, rappresentano fatica e impegno, difficili da decifrare e collocare nel
giusto centro dell’esegesi e sull’asse ermeneutico, seguito e voluto
dall’ispirato narratore di un io difficilmente percepibile nella sua
essenza più intima. Davanti a questa nuova silloge di Enzo Bacca anche il
lettore più attento stenta a percorre il labirintico sentiero, che sfocia
immancabilmente in un diario criptico, nato dal percorso di vita e dalla
spiritualità dell’animo travagliato teso alla ricerca dell’espressione più
idonea per esternare il complesso e, non di rado, contraddittorio mondo
interiore: pathos ed eros, amore e morte, gioia e
dolore si susseguono, si incalzano, si affiancano, si allontanano e fondono,
perché il poeta non si distacca mai dalla Natura, che in ogni lirica ha sempre
un ruolo di primo piano e di forte impatto emotivo. Il saldo ancoraggio alla
natura non è convenzionale, ma è parte integrante, vitale, costitutiva della vis
poetica, che serpeggia nella lirica di Enzo Bacca. Il quale non ferma
l’attenzione alla minuta descrizione dell’albero, del fiore, del colore o
dell’evento, ma mediante un rapido cenno conduce il lettore con passi sempre
più ardui, verso un orizzonte mai nettamente definito, verso un cielo sempre alius
et idem, lo stesso ma diverso, secondo la felice definizione oraziana. La vis
poetica, anima ed essenza di ogni lirica, non si ferma qui, non è fine a se
stessa: sottende un discorso ampio, articolato, equilibrato sui diversi aspetti
della vita affettiva, fisica, sentimentale, religiosa e politica.
Al di fuori di ogni schema metrico
precostituito, l’impianto formale della lirica, si snoda naturale, del tutto
privo di trite convenzioni stereotipe, che altri ingegni trovano giusto e
necessario contenitore di nobile e sentita espressione poetica. Enzo Bacca
assorbe e assimila forme e modi di sentire più diversi e contrastanti, messi in
atto da poeti sia del passato sia, e in modo particolare del presente: sono,
infatti, presenti Szymborska, Neruda, Machado,
Eluard. In controluce, però, sono ben visibili le tracce di Quasimodo, di Montale,
di Saba. Non mancano influenze di ascendenza ungarettiana, che conferiscono
alla lirica tono rara e particolare efficacia, soprattutto in alcune impennate
di intenso e coinvolgente lirismo.
L’impianto poetico, che domina
tutta la raccolta, si concretizza nella ineludibile realtà del dono, cui
è necessariamente sotteso l’Amore, motore immobile di gesti e azioni sia
sperimentate che immaginate, sia fisiche che metafisiche, sia personali che
collettive. In questo universo dagli orizzonti a volte fissi, a volte
cangianti, a volte luminosi a volte bui vive il Poeta, che coglie di volta in
volta gli elementi, che sostanziano la produzione lirica e la stigmatizzano in
forme ora fluide ora fisse, ora penetranti come aculei, ora morbide e
avvolgenti come il tepore e la dolcezza dell’abbraccio materno. Tutto questo
mondo, semplice e complesso a un tempo, trova la sua vis nel verbum,
nel dettato poetico, che diviene, insieme con le diverse simbologie,
l’archetipo di un antropomorfismo cangiante per modi, per forme, per stati. Nel
momento dell’obliterazione, l’io cogitans e l’idea si infuturano
nel complesso paradigma dell’ego creans, instabile nell’apparente
fluire del verso e dei sintagmi scelti
per dar corpo all’idea, al pensiero all’espressione. L’archetipo, racchiuso in
sequenze verbali sovente antitetiche e contrastanti, nell’animo del poeta varca
gli angusti limiti imposti dalla corporeità e proietta se stesso in una serie
pressoché indefinita e indeterminata di gesti e aneliti non sempre espressi.
Vibra in ogni lirica intensa e pregnante la primigenia vis vitalis, che
sostanzia il verbum e, carico di nuove proprietà semantiche, lo proietta
all’esterno in forme spesso asinartetiche, ma compiute e levigate dal complesso
e costante labor limae.
Questo aspetto, fondamentale per
carmi destinati a segnare un punto nella storia della Poesia, sovente
non solo è trascurato, ma è persino biasimato da quanti suppongono che la
bellezza del dettato poetico consista nell’immediatezza della scrittura, nella
genuinità di un prodotto nato ex abrupto, nell’impasto linguistico dato
dall’hic et nunc, senza la necessaria, e fondamentale, mediazione della
tecnica scrittoria. Si pretende, e presume, di vedere a ogni costo il
primigenio furor del vate descritto dalla fantasia, il quale invasato da
una vis primordiale crea e proietta all’esterno un universo ignoto ai
più. In Enzo Bacca questa energia vitale, opportunamente controllata e
incanalata, all’interno di un universo reale proietta enti reali, i quali,
costituiti di Anima e, soprattutto, di Corpo, conducono all’esistenza situazioni
sapientemente intessute e soffuse di un Eros a volte allo stato primigenio,
a volte velato dietro sofisticate sequenze sintagmatiche, a volte, infine,
nascosto tra le pieghe morbide e voluttuose d’una Psiche dirompente, animata
da energie insite nella sensualità delle forme esteriori, le più appariscenti.
Chi legge questa silloge di Enzo
Bacca non può negare che la mente, secondo Raimond W. Gibbs, abbia «una struttura poetica», che la cognizione,
come l’agnizione, secondo la dottrina di George Lakoff e Mark Johnson, «sia modellata da
processi sia poetici, sia figurati».
Nel travagliato e lungo processo creativo particolare rilievo acquistano le
espressioni metaforiche, nonostante siano esigue, comuni e condivise: sono proprio
queste, infatti, che nella mente del Poeta prima e successivamente del lettore
organizzano la percezione, suscitano il pensiero, avviano alla comprensione.
All’interno di siffatte strutture concettuali, mosse dalla vis creans
nei riguardi della vis recipiens, per naturale e insita pervasività
spicca immediato lo schema del viaggio nell’aspetto tanto reale quanto
immaginario. Ciò, presumibilmente, avviene in virtù dell’attinenza alla metafora
più forte e immediata, mediante la quale si concepisce l’esistenza stessa
dell’uomo come un viaggio.
La esperienza artistica stessa,
vissuta da Bacca nella composizione della presente silloge, può essere
rappresentata come un viaggio: è, infatti, un viaggio attraverso i vari momenti
della vita nella condizione umana, colta e considerata nel suo incessante
divenire. Mentre il tempo scorre e la vita, incalzata da vicissitudini umane e
pervasa da aspetti significativi e dinamici dell’esistenza quotidiana, si
assottiglia sempre di più, fino a svanire. In questo lasso di tempo, costellato
da esperienze di varia natura, prendono vita una miriade di forme: esse sono
tante, quante sono le opere che il poeta riesce a creare mediante i segni del
suo alfabeto. Sono, queste, opere che all’uomo parlano dell’uomo,
dell’universo, del possibile, dell’immaginario, dell’impossibile, del
fantastico e persino dell’assurdo. Mediante la sua silloge Enzo Bacca concorre
e contribuisce a creare il nostro modo di percepire la realtà, a prendere
coscienza della nostra identità, a orientare in modo costruttivo il nostro
comportamento nei diversi casi della vita e nelle situazioni più disparate,
date da un incontro, da un evento gioioso, persino da un lutto.
E pure l’esperienza, che Bacca
concentra in questa significativa silloge, può essere descritta come un viaggio,
un’autentica esplorazione dei variegati territori, nei quali si concretizza la
complessa e, non di rado, contraddittoria psicologia del mondo poetico,
espresso con forme ora piane, ora ardue. Obiettivo primario del poeta è trovare
soprattutto intelligenza, di contribuire a svelare l’enigma della vita nel suo
fluire con tutte le pulsioni e le contraddizioni insite nell’ens cogitans
e nell’ens operans; di inoculare la convinzione che la Poesia costituisce
uno dei valori più alti e significativi dell’esistenza; di avviare il proprio
simile alla comprensione delle sue possibilità espressive cognitive
immaginative, perché possa perpetuarla, a conservarla, ad avvalorarla. Compito,
questo, non facile, soprattutto oggi per motivi di genere prettamente culturali.
Ma Enzo Bacca con la sua opera
si spinge oltre: intende sollecitare un’indagine, anche superficiale, sulla
psicologia della letteratura contemporanea, cui questi accenni intendono
offrire un modesto contributo. Per la complessità del dettato poetico, non
sempre percepibile a una lettura anche meditata, bisogna inerpicarsi per gli
ardui sentieri dell’accurata formazione culturale, che dev’essere
necessariamente sottesa anche alla stesura d’un verso elementare: l’embrione
della Poesia, come insegna lo studio della letteratura, germoglia sempre e
comunque all’interno di un complesso e organico mondo culturale, che trova l’humus
nell’animo del Poeta. A quali autori, a quale corrente filosofica, a quali
esperienze di vita Bacca si riferisca, quando si accinge a estrinsecare il
complesso mondo interiore in forme piane e ricercate non è difficile né dire,
né supporre: è sufficiente leggere pochi versi di una lirica qualsiasi, per
entrare nel complesso mondo del poeta doctus, cui spiana la strada
l’accurata osservazione del mondo, che lo circonda, e della vita, che scorre gravida
di affanni e di dolcezze. È questa complessa realtà che costituisce lo
strumento ottico, che offre tanto all’autore quanto al lettore la possibilità
di discernere ciò che, probabilmente, senza quella precisa esperienza, senza
quella fondamentale cognizione, senza quella spinta esteriore non si sarebbe
messo in moto quel complesso e imperscrutabile mondo interiore, dove giace
in nuce quel quid proprio e fondante della Poesia. L’attenta lettura
della produzione poetica permette di intravedere come Enzo Bacca adoperi,
secondo una felice intuizione di M. Proust, quel «ricco bacino minerario», il quale con la sua «estensione immensa e molto disparata
di giacimenti preziosi» offre al poeta gli elementi fondamentali per la creazione
del suo mondo poetico.
Anche il lettore, per poter comprendere e cogliere l’immensa
ricchezza celata all’interno di ogni carme e della silloge poetica, deve, mediante
opportuni strumenti, necessariamente vivere l’interesse per il fenomeno letterario,
inserito nel complesso mondo culturale, che non di rado sfugge anche agli
spiriti più attenti e sensibili. Il lettore, in ogni modo, deve possedere i
necessari elementi di conoscenza, che, acquisiti con lo studio e l’esperienza, gli
permettano di entrare nei meccanismi regolatori del mondo poetico; deve
conoscere il particolare tipo di poesia, cui si attiene di volta in volta
l’autore, e analizzarlo secondo tutti i codici consci e inconsci. In questa
analisi «vengono rimossi», secondo Italo Calvino, «tutti i Tabù, imposti dal
Sesso, dalla Classe, dalla Cultura Dominanti». In altre parole non è il poeta,
ma il lettore a essere esaminato secondo i canoni della scienza, quando si
accinge a identificare e misurare le sue elaborazioni cognitive o i suoi
«emungimenti» o, leggendo la silloge di Bacca, i suoi dreni emungitori, che
permettono un’adeguata indagine psicologica.
Albert Arnheim soleva dire, e a ragione, che «le parole sono
una specie di forme pure», che il poeta adopera per veicolare all’esterno quello, che, per convenzione, si suole
chiamare «mondo poetico». Questa denominazione, puramente convenzionale, per
Alberto Savinio, è denominazione oscura, che genera più equivoci che
intelligenza di quel mondo, spesso relegato nel fantastico e
nell’irraggiungibile.
L’indagine psicologica sulla Poesia prende le mosse da
queste «forme pure», per proseguire verso il complesso mondo interiore, che
origina il dettato poetico e lo realizza in forme personali e irripetibili, e
si contraddistingue in due orientamenti diversi: l’uno, quello scientifico,
studia in modo prevalente gli aspetti percettivi e cognitivi, l’altro, definito
umanistico, ne investiga, come insegna M.H. Bornstein, «le componenti emotive e
motivazionali».
Mettendo da parte l’aspetto scientifico, destinato a
intelletti di altra levatura, in questo breve intervento si rivolge
l’attenzione sull’orientamento umanistico o speculativo, gli inizi del quale
risalgono a Sigmund Freud, il quale nei suoi studi si è occupato di trovare
interpretazioni sia della «creazione artistica», sia della «personalità ben
strana», rappresentata dal «poeta», come si desume dall’apparato teorico della
psicoanalisi. Lo studioso, infatti, nel saggio Il poeta e la fantasia
dice che sui profani ha sempre suscitato una straordinaria attrazione il
problema di sapere donde quella personalità ben strana, che è il poeta, tragga
la propria materia e come egli riesca con essa ad avvincere con commozione ed
emozione, delle quali l’uomo comune non sarebbe stato mai capace.
Con queste parole, riferite in modo molto libero, Freud
individua l’oggetto primario di interesse per la psicoanalisi nel problema
della «creazione artistica», della «scelta del materiale poetico», anche se
sottende il problema, ben più importante, degli «effetti emotivi», che il poeta
«suscita con le sue creazioni»; postula ancora una serie di principi
interpretativi nella produzione artistica, perché il poeta, utilizzando
l’«attività fantastica, ondeggia fra i tre tempi» dell’ideazione, costituiti
dal passato, dal presente e dal futuro. A questi elementi primigeni sono
intimamente connesse le «forze promotrici della fantasia», nelle quali si
presentano in primo luogo, come si è già accennato, i «desideri erotici» e i
«desideri ambiziosi».
Il colto psicanalista propone come metodologia di studio
l’analisi della produzione artistica per individuare le pulsioni psichiche, i
complessi meccanismi dell’inconscio, che azionano gli ingranaggi e i
personaggi, dai quali il poeta estrae la materia della sua poesia.
Sulla base delle deduzioni enunciate da Freud, G.T. Fechner
in Prolegomeni all’estetica sperimentale ricava una serie di leggi o di
principi estetici, tra i quali va presa in debita considerazione la «soglia
estetica», nonché il «rafforzamento o l’intensificazione estetica». A questi,
come si evince dal dettato poetico di Enzo Bacca, si connette tanto «la
connessione unitaria del molteplice», quanto la «non-contraddittorietà
dell’accordo o della verità». Questi elementi portanti per la poesia e per la
sua struttura, necessaria è la presenza «della chiarezza» e «dell’associazione
estetica».
Il filo sottile, che lega i componimenti della silloge e
rende questa degna di attenzione, va individuato nell’oggetto primario di
interesse verso l’estetica sperimentale non tanto nell’atteggiamento attivo,
ossia nella produzione artistica, ma nella recezione estetica. Il Poeta indica
come metodologia di ricerca lo studio sperimentale della relazione fra gli
stimoli artistici e le sensazioni di piacere o di dispiacere, che essi
provocano prima nel suo animo e, in un secondo tempo, nel fruitore in sintonia
con lo stato psicologico sotteso e concomitante alla stesura della lirica. Indica,
in ogni caso, anche le preferenze nei confronti sia soggettivi che oggettivi,
attua una serie di tecniche volte all’indagine tanto del lessema quanto del
sintagma, mediante i quali concretizza materialmente il concetto; controlla
artisticamente le caratteristiche formali della sua opera mediante il «metodo
della scelta», con il quale inocula nel fruitore stimoli in ordine di
preferenza. Mediante il «metodo della produzione» inoltre richiede al soggetto
di modificare, ampliare o coartare uno stimolo, intervenendo, a seconda delle
preferenze o dei criteri estetici, dei quali si presuppone fornito, sulla
qualità e intensità dello stimolo stesso.
Il poeta, come il lettore, avvinto dal fluire dei versi si
lascia trascinare ad anatomizzare l’intera silloge e ad analizzare i singoli
componimenti come altrettanti processi psichici, come se fossero individui
dotati di carne e ossa. Con tale ottica, mentre si cerca il poeta, si sorvola
sulla poesia e sulla sua essenza. Questo tipo di approccio allo studio
dell’arte in generale e della poesia in particolare, determinato
dall’orientamento speculativo ispirato alla psicoanalisi, ha dominato, e in
parte domina tuttora, un campo di indagine di proporzioni ben più ampie e
complesse. Questa posizione egemone, lungi da esercitare un potere tirannico e
coartante, ha assunto il ruolo di contraltare alla condizione, in verità molto
modesta, dell’orientamento sperimentale, imputabile, in primo luogo,
all’importanza relativa attribuita ai comportamenti artistico ed estetico,
rispetto alle altre forme assunte dal comportamento umano, e giustificata, per
certi aspetti, dalle non poche e lievi difficoltà incontrate dagli psicologi
nel tentativo di imbrigliare sperimentalmente i complessi meccanismi, che
ruotano intorno alla produzione e alla recezione dell’opera poetica e
letteraria.
Queste difficoltà, considerate da taluni critici
insormontabili, sì da dubitare, come sostiene I.L. Child, che la letteratura
possa entrare nel campo di indagini psicologiche, hanno indotto gli psicologi
sperimentali a privilegiare le arti visive, molto meno complesse di quelle
letterarie. Non mancano, però, eccezioni. Rudolf Arnheim, infatti, pur
privilegiando le arti visive, ha dedicato diversi studi alla letteratura
mediante metodi di indagine, che andavano anche oltre la sperimentazione in
senso stretto, e ha cercato di individuare possibili analogie tra i diversi
domini artistici. Ha individuato, infatti, che un medesimo processo elaborativo
caratterizza l’esperienza letteraria in tutti i registri estetici e consiste
nella «percezione sequenziale» e nella conseguente formazione di «immagini
sinottiche», che si presentano alla mente del lettore, quando il testo poetico
scorre sotto i suoi occhi e produce una serie di immagini atte a illustrare e
completare quanto lo scritto racchiude.
Connotato psicologico di grande impatto emotivo è l’adesione
incondizionata alla realtà, che circonda il poeta. La Natura con i colori, con
i profumi, con l’alternanza delle stagioni, viene presentata nella sua veste
primigenia, sempre uguale, ma eternamente diversa: «Acini
ovatta cremisi pervinca viola / nettare di vino chiamato inferno rosso», oppure
«Ho gettato fiori al crepuscolo / non ricordo rose rampicanti». Il
poeta prova un gusto speciale, quando sulla carta riversa la ricca tavolozza,
che si schiude ai suoi occhi: «Tra vigne e solco ripongo letame, il
mio seme / di libertà, le paure, anche il sole e le lune». A questi versi con
crescente lirismo, quasi con gioia panica, aggiunge non senza veli di
malinconia: «Mi ritrovo dove l'unghia diventa averno, /il paradiso - una
scodella di pane molle / preso a polpastrelli nella dignità della fame / d’amare
- unico vincolo per risorgere». Vitalità ed energia descrittiva, soffocate da
un Eros primordiale, includono sotto l’aspetto psicologico, simbiotico e
simbolico, il senso stesso dell’ens cogitans nel grembo vivo e pulsante
della Natura. Il poeta ne diventa parte, interpreta il suo ruolo di
protagonista privilegiato e prorompe sulla scena con la vitalità delle più
intime e segrete pulsioni. Enzo avverte con piena coscienza il sentimento
panico della Natura con rara percezione, mediante la quale introietta
all’interno del suo ego la realtà del mondo esterno e crea, con precisi
riferimenti al paesaggio naturale, una fusione quasi mistica tra l’elemento
naturale e quello umano.
Anche se Enzo Bacca tributa,
almeno in apparenza, i dovuti onori a D’Annunzio, si distacca dalla visione
pagana del modello ed esalta la gioia della vita, pur nel lacerante grido di
dolore, che strazia il cuore. Nel suo panismo si avverte un sapiente impasto
tra la tradizione classica di ascendenza ovidiana e gli stimoli cristiani, che
orientano a riflettere sulla caducità della Natura e dei sensi. Il poeta domina
la Natura, ma nel contempo è soggiogato dalla misteriosa sinfonia emanata dai
suoi colori e dai suoni ora tenui ora cupi. Lungi dal nascondersi negli
elementi naturali, Enzo proprio mediante questi elementi veicola al lettore il
suo stato d’animo, il suo pensiero, la sua fede profonda nella redenzione
panica, che, avvenuta nel passato, si rinnova ogni momento per un diverso modo
di vedere e interpretare l’elemento primordiale nella sua più vasta estensione
semantica.
Come D’Annunzio anche Bacca,
secondo il presocratico Eraclito, considera la Natura in continuo divenire,
un’entità viva; vi stabilisce un contatto intenso, ne avverte il ritmo e i fremiti, ma
non si identifica con essa, nonostante si senta parte privilegiata: egli,
infatti, cerca la fusione dei sensi alla luce dell’Eros benedetto dall’acqua
santa; con piena e cosciente adesione fisica e, soprattutto, spirituale
accoglie e rivive in sé il miracolo della vita, intesa nelle sfumature sue più
tenui e vibranti. Con la sua interpretazione, originale per concezione e
presentazione, il panismo dannunziano sfuma in forme che trovano il loro essere
nella sensibilità psichica e religiosa, cui il senso sembra un’appendice quasi
trascurabile.
La lirica di Bacca è dominata
dalla Natura, presentata con minuziosità di dettagli e di particolari: frutti,
colori, alberi, fiori non sono dettagli di poco conto, ma essenze determinanti
stati d’animo, angosce e speranze racchiuse nell’ego cogitans. Sole e
Luna acquistano di volta in volta valenze diverse: se l’uno è incarnazione del
simbolo maschile e paterna, l’altra diviene archetipo del senso femminile e
materno. In questa concezione Enzo non si distacca dalla tradizione, che
affonda le radici nella cultura assiro-babilonese: Inanna, la Signora del
Cielo, simbolo della fecondità, della bellezza e dell’amore inteso come
espressione erotica carnale piuttosto che coniugale. A questa dea nel pantheon
mesopotamico si accompagna Šamaš, divinità solare, che
incarnava il potere della luce sulle tenebre e sul male ed era venerato come
dio della giustizia e dell’equità tra gli dei e tra gli uomini. Questa
coppia primigenia, veicolata dalla tradizione greca e romana, nonostante i
numerosi cambiamenti culturali avvenuti nel corso dei millenni, vive ancora ed
esercita nell’animo del poeta il fascino del mistero.
I riferimenti di Bacca non si
limitano solo a queste due divinità, ma spaziano nell’ampio e complesso
pantheon greco-romano, nel quale Venere e Giove incarnano i diversi, e
fondamentali, momenti e compiti nella vita. L’una è in perenne tensione verso
la comprensione maschile, pugnace e sanguinolenta; l’altro è presentato come
prototipo dell’autorità e dell’ordine. A queste due divinità il Poeta innalza
lo sguardo verso il Cielo nella sua misteriosa e insondabile profondità, che
scruta con lirica intensità e commozione, anche se non riesce a comprenderne i
confini.
All’interno di questo mondo,
impastato di umano e di divino, di carnalità e di spiritualità, di ingiustizia
e di giustizia, di povertà e di ricchezza il Poeta muove sicuro i suoi passi e
presenta il mondo e, in modo particolare, l’uomo, indiscusso signore del mondo,
con la sua fragilità, con le sue attese, con la sua speranza e, in particolare,
con i suoi dolori e le difficoltà della vita, che il profumo di fiori non
riesce né a evitare, né a lenire. A rendere faticosa la vita sulla terra
contribuisce non poco il tempo, che, col suo scorrere sempre uguale, rende più
grigio e doloroso il pellegrinaggio su questa terra. Il tempo che scorre e
pulsa nella silloge è più di ascendenza galileiana che platonico-agostiniana.
Difatti, quando il tempo fu interpretato secondo lo schema della fisica
galileiana, tanto per la scienza, quanto per la poesia occidentale costituì un
notevole progresso, perché il momento, nel quale, il tempo si liberò dalle
pastoie della filosofia scolastica, segnò il trionfo del pensiero umano. In
questa prospettiva Bacca riflette da vicino la concezione senecana del tempo,
unico bene in possesso dell’uomo. Ripete ancora una volta, ma in modi e in
forme diverse, il carpe diem oraziano. Per tal motivo nelle liriche si
riscontra con maggior frequenza il presente, nel suo incessante fluire, perché
costituisce la certezza, che può afferrare con mano, ne può sperimentare la
dolcezza e il dolore, il piacere o la noia, come si può desumere dai seguenti
versi: «Tra le rovine del tempio / volano lampi di futuro»,
oppure: «C’è sempre un’ora di fronte / che sbuca dal sacchetto della spazzatura
/ e scompare - poi riaffiora - / o dalla scatola dei profumi». È la poesia del
presente, la quale, se al primo impatto può sembrare trita, banale, priva
addirittura di linfa, penetra in modo prepotente nell’animo e vi lascia solchi
profondi e per la piena adesione alla contingenza della realtà e per la tangibile
esperienza quotidiana, che struggente si avverte nei seguenti versi: «C’è una stanza senza scuri / dove non entra mai la
notte… / Solo in quella stanza / non è permesso a mani di nessun ramo /spalancare
finestre», perché: «Troppo in fretta la quiete diventa favela. / Spade già
troppe se ne librano in aria / e funi pronte a chi tira meglio di braccia».
Non manca, com’è ovvio, il
futuro, che nella mente del Poeta incarna la Speranza dell’attesa, il desiderio
di realizzare se stesso come Uomo all’interno di un cosmo, che diventa sempre
più angusto: «Gladiatore al soldo dell’attimo dopo / senza ombra sui
sassi ne sposerò l’anima». A questo anelito non realizzato, con un velo di
soffuso pessimismo soggiunge: «Sarò rudere ricomposto / solida pietra al saldo
di nuova malta».
Il passato, adoperato molto di rado,
richiama alla mente del Poeta sensazioni remote, che hanno lasciato vive
impressioni nell’animo. Il ricordo diventa ora amaro, ora soffuso di velata
malinconia, come: «Era verde quel bocciolo di
rosa», oppure: «Mio nonno era fornaio e un letto di paglia», «Eravamo rami forti, vini
pregiati, campanili». Bacca con il richiamo al passato rievoca la percezione,
che rappresenta, e presenta, la naturale successione di eventi e il rapporto
con altri esseri, i quali, animati o non, popolano la sua poesia. Più che
grandezza fisica, in questi casi specifici questa categoria, prettamente umana,
diventa il «tempo dello spirito», avvertito nel suo fluire come misura del
processo interiore in continua trasformazione, Nella coscienza del Poeta, e
dell’Uomo, si presenta pressante e senza interruzione il trascorrere del tempo,
che informa i necessari cambiamenti spaziali e materiali dell’esistenza e
dell’esperienza, secondo l’osservazione comune, ma non scevra di una certa
filosofia, seppure elementare. È, questa, la condizione, che permette a Enzo
Bacca, di descrivere ciò che si muove e si trasforma nello spazio racchiuso
nell’espressione e nella comprensione poetica: è, infatti, ciò che interessa il
senso visivo e uditivo, perché venga introiettato e assimilato come exemplum
del divenire, percepibile solo col cambiamento. In ogni lirica della silloge
l’identità dell’essere esistente non in contrasto o in contraddizione con la
sua incessante trasformazione. È questo il motivo, secondo il quale il Poeta al
prima, il passato, e al dopo, il futuro, preferisce il presente, che permette
di cogliere il flusso vitale nella sua reale e concreta realizzazione.
L’idea del tempo si coglie in tutta la sua espressione, e
completezza, nell’immagine di copertina, nella quale presente, passato e futuro
mostrano il volto intero, circondato da ali di farfalla. Il presente è raffigurato
al centro, come discrimine, senza mento, indeterminato, indefinito. Ogni
aspetto, o segmento, del tempo, non a caso, ha un occhio solo: l’intelletto
umano, infatti, coglie la realtà nella sua totalità e obiettività mediante
l’astrazione sintetica del passato, del presente e del futuro. Il tempo, nel
quale si condensa l’esperienza, come la farfalla, ha vita breve. Questa
immagine richiama alla mente il salmista, il quale, quando si rivolge al
Signore, dice: «Ai tuoi occhi mille anni sono come il giorno di ieri che è
passato, come un turno di veglia nella notte … passano presto e noi ci
dileguiamo».
Se si riflette bene sull’immagine e, soprattutto, sulla
disposizione degli occhi, si ha del tempo non la rappresentazione lineare, di
ascendenza cartesiana e propria della cultura filosofica moderna. Con questa
immagine Enzo Bacca non intende rappresentare, nella sua poesia, il tempo
rigido, indipendente e assoluto secondo la concezione di Newton, ma un’entità
dinamica, elastica e indissolubilmente legata allo spazio. Per cui nelle
liriche se l’oggetto è immancabilmente legato allo spazio, la nozione del
tempo, secondo l’intuizione di J. Piaget, è associata alla pura casualità,
racchiusa in definiti limiti spaziali. L’autore del resto sa bene che il tempo non
è entità né oggettiva, né sostanza, né accidente, né relazione, ma condizione
soggettiva necessaria, perché come ens vivens et cogitans, secondo M.
Heidegger, l’esistenza della vita umana è inserita nella temporalità e circoscritta
nella temporalità. Enzo Bacca, ancora, è consapevole, secondo una nota immagine
di Borges, che il tempo è anche la sostanza, della quale è costituito, al pari
di tutti gli esseri.
Pur consapevole di tutte queste implicazioni, che
costituiscono l’impalcatura della silloge, il Poeta mostra forte ed evidente
propensione verso la rappresentazione circolare o ciclica del tempo, espresso
dalle civiltà antiche e, in genere, dalle società fortemente ancorate al
passato, come il cristianesimo, che nella silloge echeggia dappertutto in modo
ora chiaro, ora velato.
Una riflessione a parte merita il titolo, In verità mi
dico, il quale, oltre a rimandare alla figura, nella quale i tre occhi hanno
un esplicito richiamo a Dio, uno e trino, è una personale elaborazione e
interpretazione di quanto si legge nel vangelo di Giovanni: «In verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò
che vede fare dal Padre». Enzo riprende il significativo sintagma profferito da
Gesù, ma non osa proporlo nella sua genuinità, perché consapevole
dell’incolmabile distanza tra il verbum divinum e il verbum humanum.
Come uomo di fede e religioso, Bacca non si erge a maestro, ma si pone nella
condizione di discente; non sale sul pergamo a insegnare, ma si chiude in se
stesso e, concentrato sulla parola di Cristo, volge al suo intimo i
riferimenti, le denunce, le riflessioni proprie di uno spirito consapevole del
ruolo, che ha nella società, in questa società dilaniata da guerre, contrasti,
ingiustizie e disuguaglianze.
In
tutta la produzione poetica Enzo Bacca mostra sempre un animo e un pensiero naturaliter
religiosus, perché, come dice J. Riese, nel mondo la sua presenza assume e
manifesta un modo di esistenza, riscontrabile nelle diverse forme religiose
trasmesse dalla storia. Non è un bigotto, ma, come dimostra il suo stile di
vita, è un laico impegnato, critico spassionato delle scelte della Chiesa, ma
pienamente aderente all’insegnamento del magistero: crede, infatti, nel sacro e
nell’esistenza dell’Essere Assoluto, il quale, come osserva M. Eliade, pur
trascendendo il mondo, per mezzo di esso si manifesta, per santificarlo e
renderlo più accetto nella sua realtà. Bacca, però, col suo impegno morale e
civile si pone nettamente sulla linea segnata da Gerardus van der Leewe, che
oppone l’Homo religiosus con una specifica relazione col sacro, all’homo
negligens in netta opposizione ai naturali doveri verso il prossimo e verso
Dio. Anche se il Poeta non si abbandona a ierofanie o a teofanie stempera nella
sua opera, specchio di vita attiva e partecipe alle umane vicissitudini, quel quid
di sacro, che sperimenta in sé e nella società civile, perché come ens
rationale prende coscienza del sacro, che vibra sotto il suo sguardo
indagatore della Natura e lo distingue nettamente da ciò che sacro non è.
Considerata sotto quest’ottica, non sempre comprensibile e accessibile alla
prima lettura, la silloge di Bacca costituisce una continua, ininterrotta
ierofania, senza cadere nel panteismo o nell’immanenza di Dio nella Creatura,
che ne è solo pallida manifestazione. Difatti nella diversità e nell’armonia
della natura mostra più di quanto vi è intrinseco, tutto il sacro, che vi è
contenuto.
Intimamente
partecipe ai luttuosi eventi, che addolorano l’umanità già sofferente, che
cadono sotto i suoi occhi e si susseguono in modo sempre più tragico, si china
dolente sugli orrori provocati in Ucraina dall’invasione russa. Per descrivere
gli orrori, provocati dalle armi russe sugli Ucraini, nella lirica che chiude
la prima parte, si ispira alla Zattera della Medusa di Gericault: «Schiavi sui
manifesti dipinti con vernice rossa / naufraghi sulla zattera della medusa / nel
mezzo di secoli a cultura corta». In questa desolata considerazione sulla
follia omicida dell’invasore, non mancano echi ad alcune immagini tratte da Shelly, cui si
rivolge con un grido di dolore e di impotenza, perché la Storia, definita da
Cicerone: «testis temporum, lux veritatis, vita memoriae,
magistra vitae, nuntia vetustatis», cioè testimone
dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera
dell’antichità, non ha ancora
insegnato niente, soprattutto a chi si crede potente. Alla dotta riflessione
dell’oratore romano, il quale della Storia affermava la funzione istruttiva, la
sola capace di incarnare i morti nei viventi, Bacca mediante un’incisiva
invettiva, come Dante contro Pisa, così conclude la lirica: «Ehi, Shelley,
avevi ragione tu / - diavolo d’un poeta - / c’era il sole di notte e nessuno se
n’è accorto», nonostante abbia visto «Il sole arrabbiato nella notte i falò in
aria / il richiamo di Shelley disperato dal mare».
La parola, pur impregnata di cristiana umanità, pur
vaga e, sovente, volutamente indefinita, può sembrare una frammentaria melodia,
che si perde nelle elucubrazioni di asfittici sofismi. Trova, invece, tra le
luci, le ombre o i chiaroscuri la sua armonia, colta nel fremito incessante
della Natura, della Fede. Per cui la Storia ritrova la sua vitalità e l’uomo si
avvia a poco a poco, con passi a volte incerti, verso la Metafisica, che si
coagula nell’Amore, tanto umano, quanto divino. In questo orizzonte dai confini
spesso indefiniti pulsa la poiesis antropocentrica di Enzo Bacca,
corroborata dalla gnome e da descrizioni forti, potenti e, a volte,
taglienti nella cruda realtà. Per rendere più immediato e penetrante il
pensiero frequente è il ricorso a neologismi, a ossimoriche metafore, ad
azzardate sinestesie, a iterazioni anaforiche, a rime interne, a omoteleuti. In
questo groviglio sinfonico, apparentemente privo di misure metriche
predeterminate, Enzo Bacca costruisce l’impalcatura d’una lirica, che schiude
la Poesia contemporanea verso muovi e inesplorati orizzonti. L’ego del
poeta, all’interno di un ritmo ondeggiante, vivifica la parola, come una brezza
leggera increspa il mare, muove le fronde, agita le cime dei pioppi o dei
frassini, sparge l’olezzante profumo delle rose o dei gigli. Con questa silloge
Bacca dice al lettore: «In verità mi dico. Così sono. Se vi pare».