"Luglio 1952"
Un nome, un cognome, un paese. Non
era molto, ne ero consapevole, ma era tutto ciò che possedevo. Erano trascorsi
molti anni, inoltre. Forse non viveva nemmeno più a Camogli. Nonostante tutto
ero fiducioso. Salii sul treno diretto a Genova convinto che presto avrei
conosciuto colei che mi aveva messo al mondo.
Feci scorrere la porta dello
scompartimento e domandai a un signore in giacca e cravatta se c’era un posto
libero. Mi accomodai di fronte a una bella donna sulla quarantina che sollevò
appena lo sguardo per immergersi poi nuovamente nelle pagine di un libro. Una
volta seduto iniziai a osservarli, facendo attenzione che non se ne
accorgessero. Lui sfogliava il giornale, distrattamente. Ebbi l’impressione che
stesse leggendo solamente i titoli. Lei alternava lo sguardo tra il libro e il
finestrino. Gli occhi velati di malinconia. Entrambi sembravano non curarsi
della mia presenza. Chissà se osservandomi avrebbero potuto rendersi conto
delle mie emozioni. Tensione, attesa, eccitazione, angustia. Altre domande si
fecero spazio nella mia mente. Cosa avrei fatto una volta arrivato a Camogli?
Sarei riuscito a trovare mia madre? E se la mia ricerca avesse avuto successo,
cosa ci saremmo detti quando ci saremmo ritrovati uno di fronte all’altro?
Sarei riuscito a farle le domande a cui per tutti quegli anni avevo risposto
solamente con astio e risentimento?
Alla stazione di Genova Principe
scesi dal treno e aspettai che giungesse il diretto per Roma. Restai in piedi,
le panchine erano tutte occupate. Il marciapiede era affollato. Come mi spiegò
una signora particolarmente loquace, tra quelle persone c’era chi partiva per
le vacanze e chi invece rientrava per qualche tempo al Sud, così diverso e così
caro, abbandonato a malincuore per inseguire il sogno di un lavoro. Una terra
ricca di calore umano, mai dimenticata e spesso rimpianta, soprattutto dopo
essersi accorti che non era affatto facile sbarcare il lunario in un Nord che
faticava ad uscire dalla crisi economica del dopoguerra.
Erano i pionieri di un esodo interno
che solamente una decina di anni dopo avrebbe assunto proporzioni
straordinarie.
La giornata era afosa, senza una
bava di vento, il caldo era soffocante. Uomini e donne trascinavano a fatica
valigie enormi. L’odore rancido di sudore appestava l’aria. Dalla quantità e
dalle dimensioni dei bagagli sembrava un trasloco definitivo più che un ritorno
di qualche settimana alle proprie origini.
Un fischio acuto annunciò l’arrivo
del convoglio ferroviario e i componenti dei vari gruppi iniziarono a
posizionarsi a qualche metro l’uno dall’altro, sul bordo del marciapiede, per
poter essere i primi ad avventarsi sulla porta, salire sul vagone e occupare i
posti per i propri amici e famigliari. Non ero pronto per spintoni e gomitate.
Salii per ultimo. Rinunciai a cercare un posto a sedere e mi fermai in piedi
nel corridoio, vicino al finestrino. Anche le cose più belle, per poter essere
ammirate e apprezzate, hanno bisogno del giusto stato d’animo e il mio, in quel
momento, non era adatto alla contemplazione. Indifferente all’accecante
bellezza dei raggi solari riflessi da un mare leggermente increspato, desiderai
che quella mezz’ora che mi separava da Camogli passasse il più rapidamente
possibile.
Scesi dal treno scortato da un
chiassoso nugolo di bagnanti. Uscii dalla stazione e mi guardai intorno. Non
ero mai stato a Camogli. Non avevo idea di dove fosse il centro del paese.
Partivo da zero, non sapevo nemmeno se svoltare a destra o a sinistra. Vidi un
bar dall’altro lato della strada. In fondo un posto valeva l’altro, pensai, e
decisi di iniziare da lì la mia ricerca.
Il barista scosse la testa.
“Mi spiace ragazzo, non la conosco”.
“Grazie lo stesso, arrivederci”. Mi
avviai all’uscita con la stessa sensazione con cui ero entrato. Non sarebbe stato
facile, tutt’altro. Dovevo avere pazienza e non lasciarmi scoraggiare dai primi
inevitabili insuccessi. Nemmeno il fabbro e il calzolaio mi furono di aiuto. Scesi le ripide scale che portavano
al mare. Una lunga fila ininterrotta di case colorate bordeggiava la
passeggiata lungo il litorale. Si ergevano alte e strette, con le facciate dai
toni sfumati, una di fianco all’altra, alcune appena un po’ più basse delle
altre, come pastelli leggermente consumati in una scatola. Un mosaico
variopinto di asciugamani ricopriva quasi interamente i ciottoli della
spiaggia. La distesa di sassi terminava sotto la basilica, protetta dal mare da
un castello medioevale e separata dal borgo abitato da uno stretto passaggio
attraverso il quale si accedeva al porticciolo. Quel pittoresco paesino di
pescatori mi piacque immediatamente. Pensai che se non avessi trovato mia
madre avrei potuto in ogni caso trasferirmi lì e cercare un lavoro…
"Febbraio
1960"
Sentii un fluido viscoso colare
lungo le natiche e un liquido caldo bagnarmi le cosce. Il fetore si diffuse
rapidamente nell’atmosfera insalubre della cella. Il fascio di luce che
penetrava dalla finestrella vicino al soffitto illuminava il pulviscolo
sospeso nell’aria fredda e umida. Immaginai i gas fuoriusciti dalle mie viscere
mischiarsi alle molecole di ossigeno e mi domandai se fosse possibile morire
soffocati dalle esalazioni dei propri escrementi. Dall’inclinazione dei raggi solari
calcolai che doveva essere pomeriggio inoltrato. Avrei dovuto aspettare ancora
due o tre ore prima di essere spruzzato. Rabbrividii al pensiero del metallo
bagnato a contatto con la pelle. Erano già due giorni che ero legato, nudo, a
quella gelida tavola di ferro con un ampio foro circolare all’altezza del
sedere. Isolamento rieducativo, così lo chiamavano. Era la punizione più
temuta dai detenuti. C’ero finito per uno stupido screzio con una guardia
frustrata. Mi aveva preso di mira da alcune settimane, ogni suo sguardo o
parola erano state una provocazione. Quando, saturo della sua subdola
prepotenza, avevo reagito insultandola, una smorfia sadica e un ghigno feroce
mi avevano gelato il sangue.
Il suono metallico del chiavistello
riecheggiò nello spazio vuoto.
“Puah, che schifo! La tua merda
puzza più di un animale putrefatto” esclamò la guardia di turno. “Lavalo” ordinò l’uomo che la
accompagnava. La guardia sollevò la coperta, afferrò il tubo di gomma, aprì al
massimo il rubinetto e mi sparò addosso il getto potente di acqua ghiacciata.
Quando si accanì sui genitali strinsi i denti e sopportai in silenzio il
dolore. Avevo imparato che il sadismo di alcune guardie durava meno se non era alimentato
da urla e suppliche.
“È tutto suo, dottore”.
Il medico del carcere si avvicinò e
mi analizzò con una rapida occhiata. “Come si sente?” domandò con tono
professionale, lo stesso che avrebbe usato se si fosse trovato di fronte a un
paziente nel suo studio privato.
La mia permanenza in quel posto
dipendeva dal mio autocontrollo. Il giorno prima, alla medesima domanda, avevo
risposto mandandolo a quel paese. Si era rivolto serio alla guardia
suggerendole di lasciarmi lì ancora un po’, perché ero troppo nervoso.
“Starei meglio altrove” ribattei,
sforzandomi di rimanere calmo.
“Ah sì? E dove?”.
“Nella mia cella”.
“Eppure qui se ne può stare da solo,
tranquillo... pensare... riflettere...”.
Si era spostato di fianco ai miei
piedi, costringendomi a tenere sollevata la testa per poterlo vedere. La
cinghia di cuoio premeva sul pomo d’Adamo, come a volerlo respingere in gola. “In cella siete in tre in otto metri
quadrati”. Chiuse gli occhi. “Nemmeno tre metri quadrati a testa” aggiunse dopo
qualche secondo con un sorriso, fiero della propria rapidità di calcolo.
Sentii i muscoli del collo
irrigidirsi. Abbandonai la testa all’indietro, cercando di non farla sbattere
sulla tavola di ferro. Quell’uomo avrebbe fatto perdere la pazienza anche a un
monaco buddista.
“Lo spazio non è un problema”
mentii.
Si mosse nuovamente e si posizionò
in modo che potessi guardarlo senza sollevare il capo.
“Però deve ammettere che qui ha
delle comodità particolari. Per esempio, non deve fare la coda per andare in
bagno”.
La guardia soffocò a stento una
risata. Il medico si massaggiò il mento con l’indice e il pollice, compiaciuto
che la propria ironia venisse apprezzata dal pubblico presente. Avvertii un
formicolio propagarsi dalle dita alle mani fino alle braccia. Serrai i pugni.
Il medico si accorse del gesto. I suoi occhi si accesero della soddisfazione di
chi si considera ormai vincitore. Sentii i nervi cedere. Con un ultimo sforzo
provai a ritardare la risposta, sostenuto dalla flebile speranza che accadesse
qualcosa che mettesse fine a quel martirio psicologico.
Silenzio.
Le gocce d’acqua che cadevano sul
pavimento bagnato dalla struttura metallica sulla quale giacevo scandivano il
lento e inesorabile scorrere del tempo.
Respirai profondamente. Sentii
l’aria fluire per il corpo, allentare le tensioni, massaggiare i muscoli,
sciogliere le articolazioni, accarezzare i tendini. Il formicolio stava
scomparendo. Ruotai leggermente il collo da una parte, poi dall’altra, come per
verificarne la riacquistata mobilità.
“O forse preferisce fare i suoi
bisogni in compagnia?”.
Si portò la mano destra davanti alla
bocca e spalancò gli occhi, simulando un atteggiamento di scusa per avere
azzardato tale ipotesi. La sensazione di scandalo che provava nel
visualizzarsi la scena e che traspariva dal suo sguardo era invece reale.
“Ha ragione dottore, qui non ho
fretta. Posso concentrarmi con calma, riflettere, pensare, immaginare che la
sua orrenda faccia da culo sia qui sotto e ricoprirla di merda”.
Il viso gli si incendiò. Alzò il
braccio per colpirmi, ma si ravvide un attimo prima di scaricare sul mio corpo
inerme i cocci della sua autorità calpestata e offesa. Visibilmente seccato per
aver perso, seppur per un istante, il controllo della situazione, mi diede le
spalle e si avviò con passo deciso verso l’uscita, inseguito dalla guardia.
“Ti concederemo ancora un po’ di
tempo per le tue fantasie” sentenziò sprezzante. “Non dimenticarti mai che non
sei altro che un rifiuto della società, un piccolo stronzo insignificante.
Fosse per me, ti lascerei marcire qui dentro per il resto della pena” concluse
minaccioso prima di abbandonare la cella.
Il rumore freddo del chiavistello
risuonò più forte di quando erano arrivati. La visita giornaliera era finita.
Ero di nuovo solo in quel tugurio fetido. Mi assalì il panico. Non avrei
resistito fino all’indomani. Ebbi l’impressione che le cinghie di cuoio si
stringessero ancor di più intorno ai polsi e alle caviglie e che il soffitto mi
crollasse addosso. Chiusi gli occhi con la speranza, vana, di addormentarmi in
fretta.
Tratto
dal cap. "Luglio 1964"
... Abbandonammo la villa cullata
dal canto perpetuo delle cicale e prima che fossi completamente sveglio stavamo
già correndo sulla statale verso ovest. Marco si dilungò a elogiare le doti
aerodinamiche e la potenza del bolide su cui ci trovavamo. L’argomento non mi
interessava particolarmente e approfittai di una sua pausa per accendersi una
sigaretta per cambiare discorso.
“Non sei mai a casa, Marco, il
lavoro ti assorbe completamente. Non ti manca mai la tua famiglia?”.
Era una domanda intima, non avevo idea di come avrebbe reagito.
“Mia moglie e i miei figli sono il
mio tesoro. Mi piacerebbe poter trascorrere più tempo insieme a loro, ma so che
con il mio lavoro posso garantirgli un avvenire fatto di prosperità e ricchezza
in un paese moderno e sviluppato” disse tutto d’un fiato.
Immaginai il vuoto che Marco
lasciava tra le sue persone più care, il paradosso di chi un padre lo avrebbe
voluto ma non lo aveva più e chi un padre lo aveva ma non poteva goderselo
perché impegnato a costruire il futuro piuttosto che condividere il presente.
Potevano i soldi ricompensare l’assenza della persona amata? Poteva un futuro
agiato fugare il ricordo di un passato che si sarebbe desiderato diverso? Ne
aveva mai parlato Marco con sua moglie e con i suoi figli? Gli aveva mai
chiesto che cosa pensassero della sua scelta di dedicarsi anima e corpo al
lavoro, di agire e vivere per loro invece che insieme a loro?
“Ti sei ammutolito. A cosa pensi?”
chiese Marco, interrompendo il flusso dei miei pensieri. “Nulla” risposi
titubante, preoccupato che avesse intuito ciò che mi era passato per la testa. “In fondo è un tuo diritto non
rendermi partecipe delle tue riflessioni”.
La sua replica aumentò ancor di più
il mio imbarazzo e fui costretto a volgere lo sguardo fuori dal finestrino. Non
vidi altro che una piatta distesa sconfinata. Sembrava che nei dintorni fosse
tutto finito sotto una pressa gigantesca. Lo sviluppo invocato e auspicato da
Marco consisteva nel rimodellare continuamente quell’enorme substrato,
costruendo altre strade, progettando nuovi edifici, impiantando grandi e
moderne industrie. Senza alcun timore di apparire presuntuoso, soleva ripetere
di sentirsi investito dell’arduo ma allo stesso tempo stimolante compito di
completare, con le sue costruzioni, l’opera che Dio aveva lasciato incompiuta.
La macchina che aveva ideato e assemblato per realizzare il suo sogno doveva
essere complessa e difficile da gestire. Decisi che era il momento di iniziare
a conoscere meglio il mondo di Marco Lomellini.
“Come funziona un’azienda così
grande come la tua? Come fai a mantenerne il controllo?”.
Socchiuse impercettibilmente gli
occhi e stirò leggermente le labbra. Tardò qualche secondo prima di rispondere,
come se ciò che stava per rivelare gli stesse particolarmente a cuore.
“Hai mai sentito parlare di
olismo?”.
Era la prima volta che udivo quel
termine. Scossi la testa.
“È una corrente filosofica secondo
la quale le proprietà di un sistema non sono riconducibili a quelle dei singoli
componenti. Considera per esempio i mattoncini elementari che compongono la
materia. Ogni atomo preso singolarmente ha delle proprietà fisiche che sono
diverse da quelle che presenta un insieme di atomi, anche se tutti identici.
Sono le interazioni tra i vari atomi che formano il cristallo a determinarne le
caratteristiche macroscopiche, per esempio la conducibilità elettrica, la
durezza, le proprietà magnetiche”.
Marco soppesava le parole, come se
stesse tenendo una lezione all’università di fronte a un’aula gremita. Con la
coda dell’occhio si assicurò che lo stessi ascoltando.
“Per un’azienda vale la stessa cosa.
Le capacità dei singoli sono certamente importanti. Una selezione oculata del
personale è il primo passo verso un’impresa di successo. Ma non basta.
Fondamentale è la rete che unisce i vari nodi. Sono le interazioni tra le parti
che determinano il risultato finale, iniziando dalla comunicazione tra i vari
dipartimenti fino a giungere alle relazioni tra i dipendenti, nessuno escluso.
Occorre una struttura leggera, in cui lo scambio di informazioni possa avvenire
in modo rapido ed efficace. Sarebbe una follia pretendere di controllare in
prima persona ogni decisione, valutare ogni scelta. È necessario delegare e
avere fiducia nei propri collaboratori. Uno dei compiti più difficili è far sì
che si sentano responsabilizzati e, altro aspetto non trascurabile, soddisfatti
del proprio lavoro. Questo vale, senza distinzione, dal capo progetto
all’ultimo degli impiegati. Più le persone sono contente, più si impegnano per
raggiungere gli obiettivi prefissati. Tanto più regna l’armonia, maggiore è la
produttività dell’azienda”.
Era la sua vita e aveva le idee
chiare. Interazione, responsabilità, soddisfazione, produttività. Tutte parole
chiave per descrivere un gioiello di cui si sentiva estremamente orgoglioso.
Dal suo discorso la felicità dei dipendenti appariva molto più uno strumento
per ottenere il massimo profitto che un principio su cui basare le relazioni
interpersonali. Mi venne in mente il rispetto che portava nei confronti di
Margherita e Peppino. In che percentuale era sincero e quanto invece
interessato per ricevere un servizio migliore? E anche se così fosse stato,
perché avrei dovuto giudicare tale comportamento? In fondo non mi interessava.
Avevo molto più di quanto potessi sperare, molto più di quanto mai avessi
avuto. Personalmente non avevo nulla da rimproverargli, al contrario, mi
sentivo in debito nei suoi confronti. Comunque, più che le questioni morali,
erano gli aspetti tecnici a stimolare la mia curiosità. Marco aveva descritto
una macchina perfetta. Era efficiente, ben organizzata, snella. Filava sempre
tutto liscio o c’erano ogni tanto delle difficoltà da
affrontare, dei problemi da risolvere?
“E funziona sempre tutto? O la
pratica si discosta ogni tanto dalla teoria?”.
Rise.
“Sarebbe fantastico. Purtroppo non è così. Ci sono decisioni che non vengono
prese senza prima consultarmi e l’ultima parola spetta sempre e comunque a me.
È per questo che sono costretto a viaggiare in continuazione da una parte
all’altra. Nel mio lavoro si incontrano spesso degli ostacoli, il segreto è non
vederli mai come insormontabili”.
Il suo ottimismo era incredibile,
sembrava che per lui nulla fosse impossibile. Mi accompagnerai in giro per la
penisola, sarai la mia ombra. Mi era sempre mancato un punto di riferimento
solido e sicuro, sul quale fare affidamento e appoggiarmi senza timore di cadere.
Non lo era stato mio padre, troppo impegnato con la politica. Ancor meno mia
madre. Lo era stato in parte Enrico, ma in una situazione particolare,
circoscritta e difficilmente esportabile al di fuori del carcere. In ogni caso
ne avevo perso completamente le tracce. Pensai che forse ora lo avevo
incontrato. Si trovava di fianco a me. Guardai Marco e provai una sensazione di
dolce euforia.
Ci fermammo solamente una volta per
una breve sosta. Lomellini non aveva risparmiato l’Alfa e Milano distava meno
di venti chilometri. Giunti alla periferia della città, svoltammo sulla
tangenziale. Dopo una decina di minuti eravamo a destinazione. Un deposito col
tetto di lamiera si stagliava in prossimità di un bosco di faggi. Nonostante la
strada proseguisse fino all’ingresso del capannone, Marco fermò la macchina a
una cinquantina di metri e spense il motore.
“Dammi la tua foto e aspettami qui”.
Raggiunse a passo svelto l’entrata,
bussò e rimase in attesa. Dopo qualche istante un uomo con indosso una tuta da
meccanico apparve sulla soglia. Si scambiarono una stretta di mano e una pacca
sulla spalla. Parlarono alcuni secondi, poi Marco gli porse la mia foto, lo
salutò e ritornò verso la macchina.
“Entro stasera avrai una patente
nuova di zecca”.
Lomellini trascorse il resto della
mattinata in ufficio, io ingannai il tempo discorrendo con il portiere del
palazzo.
Pranzammo in un raffinato ristorante
con vista sul Castello Sforzesco. Lomellini conosceva il padrone e ci furono
serviti piatti speciali che non facevano parte del menù.
Nel pomeriggio Marco si concesse eccezionalmente una mezza giornata di libertà.
Mi propose di entrare nel duomo. Ci sedemmo su una panca uno di fianco
all’altro, lui a mani incrociate, mormorando con gli occhi serrati e la bocca
socchiusa alcune preghiere, io intento ad ammirare la vastità dello spazio in
cui ci trovavamo e a scrutare le mosse dei pochi fedeli presenti all’interno
della chiesa. Passeggiammo poi per le vie del centro. Ci infilammo in un
negozio di vestiti da uomo e Marco insistette affinché ne provassi uno. L’abito
mi calzava a pennello e non aveva bisogno di alcuna rifinitura.
“Ti sta benissimo” commentò
compiaciuto.
Dopo aver scelto una cravatta anche
per lui, pagò e proseguimmo il nostro giro a piedi.
Conoscevo Milano, uscito dal carcere
c’ero sopravvissuto per sei mesi. Ora però era diverso, le mie prospettive
erano cambiate. Percorrevo le stesse strade, eppure era come se vedessi quei
palazzi per la prima volta, come se indossassi un paio di occhiali attraverso i
quali non apparivano più sfumati e grigi, ma, finalmente, nitidi e colorati.
Poco prima del tramonto recuperammo
l’Alfa e ritornammo nel luogo in cui eravamo stati al mattino. Di nuovo Marco
accostò prima di giungere al capannone e proseguì a piedi. Nella penombra intravvidi
un uomo uscire dal magazzino e consegnargli qualcosa. Marco si soffermò un
istante ad analizzare ciò che gli era stato dato, poi infilò una mano nella
tasca interna della giacca, estrasse alcune banconote e le porse al
falsificatore.
La scena mi lasciò attonito. In
galera ero entrato in contatto con il vasto e variegato universo della
criminalità. Sapevo di persone che all’ombra di un lavoro legale si dedicavano
a ben più remunerative attività illecite. Ciò che mi disorientava era come il
mondo regolare potesse intrecciarsi con apparente disinvoltura con quello
irregolare. Lomellini, che consideravo appartenente al primo, non aveva avuto
alcuna difficoltà a rivolgersi al secondo per ottenere un documento falso.
L’uomo con la tuta da meccanico costituiva un nodo della rete a cui aveva fatto
riferimento Marco per descrivere il funzionamento della sua azienda? Il rumore
della portiera interruppe i miei pensieri.
“Ha fatto un ottimo lavoro. Il
foglio è stato leggermente consumato di proposito. In un controllo, uno troppo
nuovo darebbe adito a sospetti. Ora scendi, siediti qui e fammi vedere se ne è
valsa la pena”.
Ci scambiammo di posto. Sentii
salire la tensione. Una tensione simile a quella che mi assaliva da bambino
prima dei compiti in classe di matematica. Strinsi forte il volante, inserii la
prima, mollai la frizione e schiacciai il pedale dell’acceleratore. Il motore
rispose con un grugnito sordo e l’Alfa schizzò in avanti con un balzo. La mia
avventura come autista di Marco Lomellini era iniziata.
Diego Repetto è nato a Genova nel 1975 e ha vissuto i
primi vent’anni della sua vita a Camogli, pittoresco borgo della riviera ligure.
Laureato in Fisica all’Università di Genova e dottorato in Nano-Scienza al
Politecnico di Losanna, è emigrato all’estero spinto dal desiderio di conoscere
nuovi luoghi e confrontarsi con persone di diversa cultura. Ha lavorato come
ricercatore in Svizzera, Germania e Spagna. Scienziato per professione,
scrittore per passione, nell’aprile del 2012 ha fatto ritorno in Italia e attualmente
vive a Genova con la sua famiglia. Autore di numerose e prestigiose
pubblicazioni scientifiche, Il baco e la
farfalla (Italia Press Edizioni, I ed. apr. 2011, II ed. nov. 2011) è il
suo primo romanzo.