martedì 8 maggio 2012

La fine di una corsa, di Dario Ghiringhelli


Autore: Dario Ghiringhelli – Via Roma 105 22078 Turate (Co) – tel.cel. 3384630174



LA FINE DI UNA CORSA



Nella nostra insulsa incoscienza ed illusoria spensieratezza non eravamo molto adusati all’idea della morte che ci sembrava un evento lontanissimo e neppure da prendere in considerazione, perché gli entusiasmi della vita ce lo facevano apparire come una cosa a cui non eravamo tenuti di pensare, quasi come se noi fossimo immuni da una circostanza di tal fatta.
La vorticosa ruota dell’esistenza quotidiana ci assorbiva totalmente, impedendoci di pensare e di riflettere sugli aspetti spiacevoli derivanti dalla considerazione che, prima o poi, ogni individuo ha un’alfa e un’omega.
L’immensa distanza della prima lettera dell’alfabeto greco, che ben conoscevamo, esistente dall’ultimo simbolo, ci pareva significare un’eternità di tempo mai destinata ad interrompersi.
Solo una volta all’anno, quando veniva novembre, si andava a rendere visita alle tombe dei parenti defunti e a compiere un giro tra i lumini e i crisantemi che ravvivavano la cupa atmosfera dei cimiteri, quasi come se la visita della gente, in folla, ai camposanti fosse una specie di festa.
Cadevano le foglie e, ad autunno inoltrato, in prossimità di un anno che si esauriva, noi eravamo ben vivi, ben vestiti e si finiva per mettere la testa nel freddo di alcune tombe di famiglia dove erano riposti nonni, zii, ed altri parenti che forse non avevamo neppure fatto in tempo a conoscere.
Vittorio, orfano di padre, era un giovanotto forte, esuberante e lieto che non faceva altro che vivere, come tutti noi, cioè mangiare, bere, studiare, andare al Cadorna e ridere con gli amici.
Aveva scoperto che il mondo era bello, divertente e tutto da ridere. Faceva parte, fin dall’inizio, del nostro gruppo. Dopo le medie superiori si era iscritto ad un corso di scenografia tenuto presso la Scuola dei Filodrammatici di Milano.
Aveva una predisposizione innata per il disegno e, da appassionato di teatro qual era, intendeva specializzarsi per diventare uno scenografo professionista. Si era già cimentato in questa sua passione, disegnando le scene di alcuni spettacolini rappresentati da oratori del nostro paese.
Era un tipo molto minuzioso che curava ogni piccolo particolare, forse un po’ introverso come tutti gli artisti dotati di grande sensibilità e qualità innate. Però, in compagnia, il suo buon umore rumoroso e dilagante contribuiva a renderci tutti ancora più amanti delle buone cose della vita.
Aveva incominciato a frequentare il Cadorna poco più che diciottenne, legando immediatamente con tutti noi ragazzi, mentre con le ragazze si dimostrava molto riservato, perché già impegnato con una fanciulla da circa tre anni. Più volte aveva manifestato il desiderio di sposarsi non appena la sua attività di scenografo gli avesse consentito una certa tranquillità economica. Il suo idolo letterario era Orazio ed il suo modo di concepire la vita era perfettamente in sintonia con la filosofia che lui amava di più: “Non preoccuparti del futuro, sarebbe inutile e infausto, cogli l’attimo, vivi il momento, credendo nel domani il meno che puoi”.
Si era innamorato di questo carme oraziano, adattandoselo a suo sistema di vita: “Godi il presente, ed il resto appena credilo”.
Subito dopo Gigi, era da noi considerato uno dei più prestanti ed affascinanti ragazzi del Cadorna. Si era attaccato sentimentalmente ad una giovane molto carina ed assai assennata che si guadagnava la vita collaborando con la madre nella portineria che gestiva le case di via Volonterio, riservate ai dipendenti delle F.N.M..
Vittorio viveva con la pensione della madre nel popolare quartiere di via Volta, arrotondando la magra entrata della genitrice mediante la sua capacità di disegnare e pitturare quadretti colorati che vendeva agli amici.
In quell’estate del ’65 era piuttosto elettrizzato perché, per la prima volta nella sua vita, era imminente la possibilità di trascorrere un Ferragosto al mare, grazie ai risparmi che la sua fidanzata aveva accumulato svolgendo, nei ritagli di tempo, l’attività di sarta a cui ricorrevano molti inquilini dipendenti delle Nord.
Qualche giorno prima di partire per Gatteo Mare, Vittorio ci illustrava il programma da lui concertato per quei pochi giorni di vacanza.
“Ragazzi, sapete che in piscina vi ho sempre superato come un buon nuotatore. Fra poco potrò cimentarmi anche al mare, mettendo in pratica la mia abilità. Voglio andare a nuotare molto al largo, dove la trasparenza dell’acqua mi consentirà di vedere dei fondali che immagino diversi dagli oggetti caduti e rimasti sul fondo della piscina che frequentiamo. Scatterò anche delle fotografie insieme con Luciana che vi mostrerò al mio ritorno”.
Noi lo ascoltavamo con pazienza per  non sminuire l’entusiasmo di quella sua imminente vacanza, senza fargli rimarcare le nostre precedenti avventure marine per vivere le quali non eravamo obbligati ad aspettare la settimana del Ferragosto.
Ma la sua bontà d’animo, non disgiunta da una certa innocente, spontanea ingenuità, ce lo faceva apparire un ragazzo molto meno scafato di noi, di fronte al quale il nostro comune atteggiamento di ostentata indifferenza e disprezzo nei confronti di valori morali e sociali, si sgonfiava come un palloncino pieno di gas, proprio come avveniva con i giocattoli dei bambini.
Gli volevamo bene perché era uno dei migliori fra tutti noi, proprio per il suo candore e per la sua pulitezza morale.
Eugenio fu il promotore di una colletta fra di noi organizzata per racimolare i pochi soldi necessari a regalargli un orologio da subacqueo quale nostro augurio di buone vacanze.
In quel fine settimana di Ferragosto, del nostro gruppo, solo in due eravamo rimasti a Saronno: io, in quanto i genitori avevano deciso di tenere, comunque, aperto il bar, l’albergo ed il ristorante, e Grazia impegnata, come al solito dalle Orsoline, per organizzare un viaggio in Umbria con tutte le allieve prima della ripresa dell’anno scolastico.
In un afoso pomeriggio del ventiquattro agosto, mentre ero impegnato in un frenetico ripasso di matematica e fisica, materie che avrei dovuto riparare in settembre per conseguire la maturità classica, una telefonata dal centralino interruppe il mistero di seno, coseno e tangente in cui ero immerso.
“Le passo Gatteo Mare”.
“Pronto, Dario, sono Luciana ………………”, poi un silenzio di qualche minuto, “Vittorio …..” , altra pausa,
“Vittorio cosa, Luciana dimmi”.
“Vittorio è annegato!”.
La comunicazione si interruppe. Probabilmente a Luciana erano venute meno le forze per continuare.
Del tutto impietrito rimasi per qualche minuto con la cornetta in mano senza avere la reazione di deporla.
Come in uno squarcio di lucidità, caddi nella spiacevole sensazione di essere riportato sulla terra di fronte a una realtà che mi era totalmente sconosciuta. Non so per quale ragione mi venne in mente un pensiero:
“Non è tanto importante quello che si trova alla fine della corsa, ma ciò che si prova durante la corsa”, rendendomi conto che questa stupida considerazione costituiva il fulcro della vita spezzata di Vittorio.
Tutti gli amici e le amiche fecero ritorno a Saronno senza aver concluso il periodo di ferie programmato. Il cimitero ci appariva come un campo di un’infanzia non fiorita, un silenzioso riquadro nel cui mezzo appariva, non si sa per quale errore o concessione, la tomba di un ventenne: il nostro amico Vittorio, che guardava i passanti, ritratto nel pieno della sua consueta gran risata. Quel sorriso balordo emergente tra le lapidi e le croci in quella selva dei morti innocenti, dalle vite appena accese e spente nel candore, rappresentava emblematicamente la nostra stupefazione.
Era la stupefazione di tutti noi al pensiero che Vittorio fosse là, tra i giovani innocenti, con la bocca aperta ad un sorriso come uno sbadiglio che non cessa mai, quasi a fermarci e a farci pensare, come ci impressionava con il suo buon umore rumoroso e dilagante.
“Perché tanta allegria, se ti è toccata così precoce morte? Sei qui a fermare il passo dei vecchi amici, a sorprenderli con l’immagine della tua risata”.
Non sapevamo che dire:
“Un ragazzo, un giovane pieno di vita, che a vent’anni era morto di un caso qualsiasi, al quale non credeva, come si poteva vedere da quel suo riso aperto alle cose gustose e solide del mondo”.
Era un giovanotto come noi, forte, esuberante e lieto che non faceva altro che vivere. Rideva tanto di ogni cosa, che le poche fotografie rimaste dopo la sua morte lo effigiavano con la bocca aperta e gli occhi socchiusi dal gran ridere. E così è rimasto, quando, ogni anno, a novembre, andavamo a portar fiori sulla sua tomba: uno splendido ragazzo prelevato dalla sorte affinché ridesse a lungo, più a lungo di tutti noi.
Tutto ciò avveniva nel pieno di quella nostra generazione che stava sempre “sulla strada”, per non stare da nessuna parte, risoluta ad essere sempre nel presente infinitamente espanso che era il solo unico tempo oltre che il solo spazio in cui ci si poteva sentire protetti.

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