Prefazione
a
IL GIOCO DELLE NUVOLE
di
Egizia Malatesta
Ci sono giorni in cui
mandrie
di nuvole
pascolano
l’azzurro,
s’ammucchiano,
ribollono,
traboccano
giù dal cielo
cancellando
l’orizzonte
ed io,
come una vela
gravida
di vento,
scivolo
silenziosa a ricucire
i confini
del mare.
Sta qui la
ricchezza umanamente caduca e spiritualmente elevata della poesia di Egizia
Malatesta: in questa corsa verso i confini del mare su una barca gravida di
vento, oltre il trabocco delle nubi. Ed è lo stupore per la bellezza del
creato, la coscienza della nostra caducità a nutrire l’anima della poesia, ed è
lo slancio verso l’inarrivabile a renderla infinitamente suggestiva. Direbbe il
poeta: “ La coscienza di noi e il volo verso l’alto, non tradiscono la vita, ma
la traducono in arte”. Silloge compatta, organica, strutturata su uno spartito
metricamente vario ed articolato ad accompagnare l’estensione di un’anima tutta
volta a tatuarsi in sintagmi e accorgimenti stilistici di grande impatto
lirico. Ed è la musicalità che cattura la sensibilità del lettore. Con malizia
tecnica e spontaneità ispirativa l’autrice abbina versi di diversa misura metrica
a seconda della domanda emotiva; e spesso, a segnare il culmine di una vera
romanza è l’endecasillabo, che esplode in tutta la sua portata sonora,
valorizzato da misure ipometriche: “…gravida di vento, / scivola silenziosa
a ricucire / i confini del mare”. Quello scivolare risalta come sinfonia da
intermezzo lirico fra il senario e il settenario. E tanti sono i giochi
stilistici con effetti di ritorni onomatopeici. Ma cosa è la poesia se non utilizzo
di suoni e intrecci fonici, di impiego di figure, che valorizzino significati e
significanti? e che cosa se non ricerca di noi attraverso le nostre
confessioni? se non che l’impellente necessità di vincere i limiti che ci
chiudono nello spazio ristretto di un soggiorno? se non che sognare, sognare,
perché il sogno fa parte della vita, è vita, e ci aiuta a scalare vette
insormontabili? e che cosa è la poesia se non che repêchage di attimi sfuggiti con troppa
velocità, e riportati a vivere come un grande patrimonio che sollecita
interrogativi altamente esistenziali? o che cosa, infine, se non che fare della
Natura un linguaggio visivo, che parli con la nostra voce, e che, rimbalzando
sulle cose, ritorni all’anima rivestito dei suoi colori?
Dice un poeta francese Marcel Dégas, che ho
avuto occasione di conoscere alla fiera del libro di Francoforte nel lontano
1993: “La memoria e il senso dei limiti umani, l’azzardo della parola e lo
sguardo verso il cielo sono l’alimento più proficuo della poesia”.
E questa silloge dal titolo Il gioco delle nuvole è tutta in questi
intarsi. E’ memoriale, è ricchezza di esplosioni di luce, è traduzione del
nostro essere ed esistere in segmenti visivi, è coscienza della brevitas vitae,
è slancio oltre quelle nubi che tendono ad oscurare l’azzurro; è sentimento di
precarietà che nasce dalla contemplazione del bello commisurandolo alla nostra
debolezza: dum loquimur fugerit invida aetas. Ma se vita fugit, e noi abbiamo
la percezione della labilità del tempo, che cosa di più umanamente poetico del
ridare linfa a storie che ci chiedono di rivivere, di tornare a esistere per
non cadere nei vortici dell’oblio?
Ed è emblematica la prima poesia che dà il
titolo alla silloge: Il gioco delle
nuvole. E’ il gioco di queste brume fumose e leggere, il loro accoppiarsi,
dividersi, intrecciarsi, sparire, riapparire, e svanire a darci l’idea del
tempo che fugge, ma anche quella di un sogno che ha il potere di trasferire il
nostro cuore in mondi immaginari o ritrovati.
Forse mondi di ginestre rosa e di grani che ci richiamano ad altre età; “A
volte / quando rincorro il tempo /con l’ansia dei giorni / che non concede
abbandoni, / mi sorprendo a guardare lassù / dove da sempre si compone / il gioco
delle nuvole. / Così fantasticando ritrovo / l’aria serena / che accendeva
fasci di luce / in mezzo al grano, e torna / quel profumo sottile di ginestre
rosa / che fa della mia pelle / il cielo, del vento…il mio respiro.” (Il gioco
delle nuvole). E’ la capacità di sorprendersi che alimenta questa poesia,
quella di reinventare, di rigenerare, appunto, attualizzandole, scintille
luminose di infanzie che tornano su questi spartiti con freschezza e
generosità. Non c’è bisogno di una poesia oberata di orpelli, ma di un
linguaggio semplice e arrivante come quello dell’autrice: un canto intonato a
tanta emozione.
Ed interviene la Natura con la sua forza
evocativa a collaborare, disponibile, a farsi voce, a chiamare le emozioni,
rivestirle dei suoi palpiti, per ridarle fresche e rigenerate. La luna, il
mare, le dune, il lentisco selvatico si fanno corpi di un’anima che si frantuma
in parvenze naturali dando a ciascuna il compito di rivelare immagini ora
vergini, ora annose e saporose di vita: “ Dolcemente / mi abbandono al suo
profumo / che è di lentisco selvatico, / di resina e di mare.”. (Al silenzio)
Ed è una sinfonia, una sinfonia trasmessa
dagli archi di viole e violini, dalle mani che corrono sulle tastiere ad
accompagnare il silenzio che complice crea un’atmosfera di surreale armonia,
quasi romanza pucciniana, alcova di un’anima volta a fare della realtà un
trampolino di lancio verso slarghi di cielo. Ed è proprio la poesia, credo, lo
strumento che ci permette di avvicinarsi il più possibile all’inarrivabile: “Poco
a poco / si ricompone il silenzio, / irreale, purissimo. / Sfavillano gli archetti / delle viole e dei
violini, / corrono svelte / le mani alla tastiera: / il tempo di un respiro…/ ed
è improvvisamente, /meravigliosamente / sinfonia.”. (Preludio al concerto).
Una silloge zeppa di motivazioni umane,
troppo umane; una silloge che arriva al cuore del mondo per farne l’epicentro
della parola poetica. Ed è la parola col suo piegarsi, col suo espandersi, col
suo frammentarsi, col suo scomporsi e ricomporsi a far di tutto per combinarsi colle
emozioni che zampillano dal seno dell’autrice. Ma la parola si dilata in uno
sforzo, sebbene spontaneo, anche tecnicamente malizioso ed esperto in questa
funzione complessa di rivelare a pieno la profondità dell’anima. Ed il poeta sa
che la parola non è mai del tutto sufficiente a completare questa simbiotica
contaminazione. Essa è umana, è un congegno di articolazioni tecnico-foniche
finalizzato alla comunicazione, al linguaggio. Ma l’anima è divina e il suo
pozzo è profondo quanto l’immensità dei cieli. Come lo è quello della
Malatesta. E per questo la poetessa ricorre ad una Natura fortemente umanizzata
e le affida il compito di rivelarla, in tutto il suo aveu: “E quando / un cielo
grigio ristagna / nelle pozzanghere ghiacciate / della vita / dove ammainano le
stelle / una ad una, io so / che basta un raggio di sole / ad inventare un mattino / e a scoprire / in
quello specchio di fango / un cantuccio d’azzurro: in fondo / c’è sempre un po’
di cielo / sopra di noi.”. (Un po’ di cielo). C’è sempre un po’ di cielo verso
cui espandere i nostri sguardi anche se in basso ristagnano pozzanghere di
fango. Ed è verso quel cielo che la poetessa ambisce a proiettarsi, per
svincolarsi, forse, da quello spazio ristretto in cui siamo destinati a vivere.
L’azzardo dei confini è il cuore di questa silloge che con voce chiara si veste
d’azzurro, di vita, di ritorni, di fughe, di ricerca di luce: “Lasciami andare
/libera e leggera / lungo i viali della Grande Anima, / ombra d’aria nell’aria
/ a sciogliere stagioni con le mani: / per te ritaglierò / pezzetti di cielo
sempre nuovi / distesi ai piedi dell’aurora / dove potremo ritrovarci ancora /
perché tu sei / e sempre per me sarai / la vita!”. (… Mara) (Lasciami andare). Anche la persona amata,
seppur lontana, si fa talmente viva, e fresca da farsi rappresentazione
fisicamente reale, tanta è la forza evocatrice della Malatesta: “ Posso sentire forte il tuo profumo / anche se
sei lontano / e sfiorare con le dita il tuo profilo: / è strano, non so dire /
quanto mi manchi / e quanto sei vicino, / forse perché quell’ombra / che mi si
allunga accanto sulla riva / è qualcosa di più / di un bizzarro riflesso della
luna.” (Stasera).
Ma la sua visione universale, che si fa
totale abbandono dell’essere nella bellezza e nel canto della Natura, spesso è
contaminata dalla percezione del nostro essere umanamente vinti e vincibili: “Così
mi sento / un atomo di luce, / una particella smarrita / nell’incanto della
Genesi / mentre un raggio di sole / s’imprigiona / tra le mie ciglia socchiuse
/ ancora innamorate di un sogno.”. (Alba chiara). Questa particella smarrita
nel cuore dell’universo, cosciente della sua breve e irripetibile avventura, sa
abbandonarsi attraverso il sogno ed un raggio di sole alla totalità della
poesia. Quanta luce, quanta positività, quanta ricchezza umana in questi
versi! Ed è in novembre, forse, che la
poetessa meglio che in altre effusioni, riesce a trasmettere quel senso di
umano abbandono ad una sorte che il novembre stesso simboleggia a pieno con le
sue foglie stanche: “Dorme Novembre / nei mucchi di foglie secche / che il
vento raduna / qua e là come pensieri / che si alzano / e ricadono inerti / per
diventare / briciole di niente.”. (Novembre). Il lirismo della Malatesta si fa
pieno, coinvolgente, e la poesia tocca vertici di grande levatura spirituale
con ritagli brevi e concisi, nella loro funzione simbolica: briciole di niente. Ed è il ricorso alle
singole particolarità autunnali a significare il passaggio della vita da rami curvi del melo / rossi di frutti ad
una inesorabile fine de l’ultimo boccio di rosa settembrina.
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pièces, che si dipanano su un dettato poetico vario e articolato, ma che rispettano il leit
motiv conduttore che ne garantisce l’organicità. Si legga Ricordi di aprile, per avere un’idea chiara della gentilezza con
cui la poetessa tesse le maglie del memoriale. E anche qui sono i riferimenti
esterni coi loro corpi luminosi a offrire una tangibile collaborazione alla
epifania dell’anima: “Un diluvio di luce / e di sereno / riempiva l’aria / di
quell’Aprile / innamorato / di un profilo di vento, / e gli aquiloni /
nuotavano / negli occhi dei bambini / chiari / come pozzanghere di cielo.”. (Ricordi
d’aprile). Ma c’è tanta luce, c’è tanto cielo, e che profumi!, a dare unità
inscindibile alla memoria di un tempo che si fa alcova, riposo-ritorno, pace e
nirvana edenico per la poetessa.
La scalata lirica dell’opera si completa con
un colloquio soffuso d’amore che nella composizione finale, dedicata alla mamma,
raggiunge il colmo del pathos, l’apice di una storia che, decantata nell’anima,
si traduce in poiein. In un argomento in cui facile sarebbe cadere nel retorico
o nell’eccessivo sentimentalismo, la Malatesta riesce a creare un gioiello
d’incastonatura, dove tutto è equilibrio e dove la parola con una spontaneità
effusiva, riesce a combinarsi attraverso una trasfusione sentimentale in
linguaggio-supporto; la parola si fa ancella, si dona tutta per assecondare
un’anima pulita, volta a dire la parte più intima di sé: “Lascia aperte, ti
prego, / le porte del sonno, / che io possa accompagnarti per mano / (come
allora facevi con me) / da dove non sei più / a dove ancora non sei, / perché è
lì che si addormenta l’onda / e la notte s’imbeve di sogni, / perché è lì che
tutto riposa / e all’ombra della luna / si compongono le trame della tela / che si farà vela / per il tuo viaggio di
ritorno.”. <<Lascia aperte (…Amia madre)>>
Alla fine della lettura emerge chiaramente
l’amore della Malatesta per un dire arrivante e suasivo. Tutti i tasti delle
corde umane vengono più che toccati accarezzati. E quello che più ci resta è un
sentimento di amor vitae, un lessico luminoso, incalzante, fatto di invenzioni
e lampi immaginativi, che lasciano il lettore emotivamente coinvolto. E proprio
il linguaggio, supportato da figure retoriche quali metafore, sinestesie,
assonanze, allitterazioni, da enjambements e da rime usate in maniera
modernamente parsimoniosa, si regge su una versificazione spigliata, libera,
breve e concisa.
Se nella letteratura contemporanea primeggia
l’idea di una vita la cui felicità è rappresentata da una muraglia con cocci di
bottiglia, e se la stessa poesia, spesso, è vista come una solitaria esperienza
senza gioia e senza orizzonti, per la Malatesta c’è sempre un raggio di sole o uno
squarcio d’azzurro verso cui elevare lo
sguardo dalle pozzanghere ghiacciate della vita: basta amare; amare le memorie,
anche le negative a volte, amare il bello, amare insomma; e lei ama la poesia,
perché la poesia la ama, e fa di tutto per corrisponderla nel suo atto umano e
non solo di renderla libera.
Nazario Pardini
Arena Metato 22/02/2012