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Claudio Fiorentini, collaboratore di Lèucade |
Le opere letterarie che
vanno per la maggiore sono gialli, noir e incredibili raccolte erotiche che ti
fanno credere che il mondo sia popolato da giustizieri, commissari, magistrati,
criminali e assatanati. Si prova più gusto se invece parliamo di giustiziere, criminalesse, magistrate,
e... assatanate. Insomma, delle migliaia di romanzi che vengono pubblicati,
pochi brillano per originalità, ma ci insegnano, tutti, chi sono i buoni, chi sono
i cattivi, e come si fanno certe cose nell’intimità. Troviamo, quindi, molti titoli
di dubbio valore che, invece di proporre valori, si adeguano alla tendenza del
mercato, o almeno di quello che percepiamo come tale.
Quando però capita di
leggere un libro che esce da queste riduzioni schematiche, occorre parlarne. È
il caso di alcuni romanzi ad ambientamento storico che sembra abbiano una
decorosa collocazione nella letteratura contemporanea, e ancor di più è il caso
del libro che presentiamo oggi, un piccolo gioiello che propone un misto di
immaginazione, di erudizione e di saggia scrittura.
Lucio Sandon è un autore
che conosciamo, l’abbiamo già presentato quando il suo trentottesimo elefante
ha fatto vivere la storia di Annibale raccontata dal figlio che il condottiero
non ha voluto sacrificare a Tanit, un importante elemento della narrazione che
l’autore ripropone anche in questo libro.
Ma chi è Tanit?
Tanit
era la dea
che deteneva il posto più importante a Cartagine e significativamente, per una città
prettamente commerciale, la sua effigie compariva nella maggior parte delle monete della città punica.
Tanit
era una delle consorti di Baal ed era venerata come dea protettrice della
città e godeva di speciali favori e venerazione da parte dei cittadini di Cartagine e del suo impero.
Dea cartaginese, quindi, e anche
assetata di sangue. La ritroviamo nella macchina anatomica in ben altre vesti,
quasi una dea protettrice che dialoga con il protagonista, Angelo, un
architetto che, nel 1740 viene incaricato dal re borbone di cercare il tesoro
di Alarico.
E ancora, chi era Alarico?
Alarico I,
o Alarico dei Balti, noto anche
come Flavio Alarico, Flavius Alaricus in latino (370
circa – Cosenza, 410),
è stato Re dei
Visigoti dal 395 alla morte. Fu l'autore del celebre
saccheggio di Roma del 410 dopo il quale morì improvvisamente mentre si
dirigeva forse verso l'Africa.
Lucio Sandon è un autore di romanzi
fantastici ad ambientamento storico; un esperimento lodevole perché unisce alla
ricerca e all’erudizione l’elemento fantastico che ci permette di immaginare
una storia, di viverla in modo diverso, dandoci chiavi di lettura inedite che
ci consentono di dire: e se fosse stato così?
Eccolo,
viene avanti.
Silenzioso,
terribile. Invisibile, in questo nero di morte.
Il suo
incedere nelle tenebre non produce alcun rumore.
Mentre
si avvicina, non si riesce a intuire nemmeno la più piccola increspatura
sull’acqua ferma del sotterraneo.
Ma le
creature che, come me, abitano il buio, lo sentono ugualmente. Nessuno lo vede,
però quando lui si avvicina tutto il mondo dell’oscurità diventa immediatamente
consapevole del suo sopraggiungere, e improvvisamente, qui sotto, tutti i suoni
si cristallizzano in una lunga pausa di silenzio.
Hanno
paura di lui, tutti hanno paura di lui.
Tremano
perché sanno perfettamente che, quando andrà via, porterà con sé qualcuno di
loro, qualcuno che non farà più ritorno.
Ora si
sta avvicinando a me: ecco, in questo momento riesco a udire distintamente il
suo respiro pesante, il suo delicato e agghiacciante sciabordio nell’acqua
immobile e demoniaca di questo abisso.
Non
riesco a vederlo, ma so che i suoi occhi di pietra invisibili e crudeli mi
hanno già individuato nel profondo dell’oscurità, in cui ormai vivo da tempo, e
mi stanno già fissando immoti, dal buio profondo del fossato. Si è fermato
esattamente qui di fronte. È venuto proprio da me, perché è sicuro di ricevere
il tributo che gli è dovuto. Lui è certo che lo avrà, lo aspettavo e lo sa.
È così che Lucio Sandon introduce la
storia. Un prologo misterioso, un corsivo che non chiarisce, ma incuriosisce. Ora
entriamo nel romanzo, e per farlo entriamo anche nei sotterranei del Maschio
Angioino dove il protagonista è rinchiuso da mesi, e dove nasce la sua amicizia
con un … coccodrillo.
Napoli, Castel Nuovo
Giugno
1740
Credo che sia un maschio, non me ne
intendo molto di coccodrilli. Grosso lo è di certo, anche troppo per i miei
gusti. Per forza, lui al contrario di me mangia bene, anzi sicuramente mangia
meglio qui che nel posto in cui è nato. Non so esattamente come abbia fatto ad
arrivare fino al porto della mia città e poi infilarsi dentro a questa
prigione: probabilmente, quando era un tenero cucciolo di poche settimane,
potrebbe essere rimasto incastrato alla catena di un’ancora o magari è
possibile che si sia aggrappato al fasciame di qualche bastimento nel porto di
Alessandria d’Egitto o da dove diavolo vengono questi mostri, e abbia navigato
fino ai nostri moli come clandestino inconsapevole.
Arrivato qui, sarà stato sicuramente
facile per lui penetrare dal porto nel fossato del castello, e poi trovarsi una
tana sicura qui sotto. Prima di vederlo con i miei occhi, ero convinto che il
coccodrillo
del Maschio Angioino fosse solo una
leggenda: in tutte le taverne, e in verità anche nei salotti buoni di questa
città, ne avevo spesso sentito discutere. Il mostro corazzato che infesta i
sotterranei di Castel Nuovo era un argomento che andava per la maggiore in
città, almeno fino a qualche mese fa. Adesso non saprei.
Non frequento più le taverne, e
tantomeno i salotti, buoni o meno. Ora che potrei disquisire di lui in tutti i
particolari, sapendo descriverne con minuzia le scaglie rugose del suo dorso,
il suo aspetto terribile e le relative abitudini alimentari ancora peggiori,
non ho invece assolutamente nessuno con cui condividere le mie impressioni.
Anzi, credo proprio che tra non molto farò esperienza diretta dei denti del mio
feroce compagno di prigionia, dopodiché del sottoscritto resteranno solo dei
bei ricordi.
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“Il Maschio
Angioino ha due locali sotterranei adibiti a prigioni: uno si
chiamava “fossa del miglio”
un altro “prigione della congiura
dei Baroni”. Il primo era un
deposito per il grano, poi utilizzato come prigione, e prese il nome di “fossa del coccodrillo”. Narra la
leggenda che i prigionieri ivi rinchiusi scomparivano all’improvviso; fu
allora predisposto un controllo maggiore e si venne a conoscenza della
presenza di un coccodrillo che entrava da un’apertura nella parete,
azzannava i prigionieri e li trascinava con sé in mare. Pare che l’animale
fosse giunto a Napoli seguendo una nave proveniente dall’Egitto. L’uccisione
del rettile fu attuata utilizzando come esca una coscia di cavallo. Il
coccodrillo fu poi impagliato ed appeso sulla porta d’ingresso.”
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L’autore non prende di petto la storia
per deformarla, ma ci gioca, la modella a piacimento, la sottomette
all’immaginazione e la rende viva. I personaggi che incontriamo nei suoi libri
non sono contorti come in Proust, sono semmai semplici come semplici erano le
persone nelle epoche in cui è ambientata la macchina anatomica, e come è giusto
che sia per un romanzo storico con tinte di giallo perché, anche se non sembra,
un po’ di giallo c’è, ma nelle sue migliori tonalità.
Il
comandante supremo dei Goti era ormai il fantasma del baldanzoso generale che,
nella notte del 23 agosto di quello stesso anno, alla testa del suo esercito di
fulvi e selvaggi guerrieri aveva messo a ferro e fuoco la capitale dell’impero
romano, al termine di un crudele assedio.
I
Visigoti, Wesgote nella loro lingua, eranbo una tribù di nomadi, originaria di
una piccola isola al largo della Scandinavia. Si erano poi spostati nelle
pianure danubiane, sospinti e cacciati verso est dell’avanzata delle legioni
romane, oltre i confini della Dacia.
Prima ho detto epoche, termine usato
volutamente al plurale, perché l’autore, come avete appena ascoltato e come ha
fatto anche con Il irentottesimo elefante, intreccia diverse narrazioni
ricollegandole al presente narrato, in questo caso il settecento, a Napoli,
quando il misterioso principe di Sansevero si diletta in esperimenti di oscura
origine.
Nel giorno di San Giovanni, il sole si
sposa con la luna e l’acqua fa l’amore con il fuoco. In fondo alle campagne si
accendono grandi falò per glorificare il sole, propiziarne la benevolenza e
anche per tener lontani quei demoni che nella notte precedente erano stati
liberi di scorrazzare liberamente in giro per il mondo.
Lo sanno tutti. A San Giovanni, nel
tempo brevissimo in cui sboccia un fiore, nel brillare di un fuoco e perfino
nell’istante della morte, proprio allora si liberano le energie della natura.
Nel suo seno, in
quell’attimo preciso, avviene uno
sposalizio ed è proprio in quel momento magico, nel giorno di Mezza estate, che
il cielo e la terra si uniscono in un rapido, tragico amplesso.
“La notte di San Giovanni destina il
mosto, i matrimoni, il grano e il granturco” dice l’antico proverbio.
Tutto succede nella notte più breve
prima del giorno più lungo dell’anno. Al culmine di quella notte, mentre una
luna rossa andava ad affogare nel mare, all’interno della camera attrezzata del
laboratorio
segreto nascosta nei sotterranei di
Palazzo Sansevero, il sergente Antonio dè Monaci detto Totò aprì lentamente un
occhio, si guardò intorno per qualche breve istante, poi lo richiuse
immediatamente.
Non era possibile, stava sognando.
Rimase per qualche secondo così, le palpebre strette per non vedere, in bilico,
con la coscienza sospesa tra l’oblio della droga e la debole luce riflessa di
una lontana lampada ad olio sul punto di spegnersi.
Dopo un tempo che gli sembrò
lunghissimo, riaprì tutti e due gli occhi, ma una tremenda fitta di bruciore lo
costrinse a stringere di nuovo le palpebre.
L’autore è dotato di grandi capacità
narrative, lo si capisce benissimo da questo frammento che parte da una
bellissima narrazione della notte di San Giovanni per poi sprofondare,
lentamente, gradualmente nell’orrore delle palpebre che non si riescono ad
aprire. Una narrazione a intarsi, come a intarsi vengono presentate le storie
che si narrano, partendo dal passaggio da Alarico in Calabria, quindi la sua
morte, la sua sepoltura, e con questa la sepoltura del suo incredibile tesoro,
con tanto di candelabro d’oro a sette punte, la Menorah, altro straordinario spunto
narrativo che consente di mettere sulle tracce di quel tesoro anche i cavalieri
templari che come ombre si aggirano nella narrazione principale e alla fine
incontrano Angelo, l’architetto protetto da Tanit, in un momento di narrazione
corale che unisce gli elementi e li trasforma in pilastri dell’intera struttura
del romanzo. Giustamente, questo accade verso la fine perché, in tutti i
romanzi che si rispettano, non si può arrivare a conclusione senza prima
narrare gran parte della storia.
Ma sentiamo di nuovo la voce
dell’autore, che ci racconta il male:
Quando iniziò a mostrarsi,
affacciandosi da dietro il fronte delle coltri compatte di nuvole antracite,
l’alba del nuovo giorno si presentò scarlatta di fronte al mare, che con pazienza
l’aveva attesa
per tutta la notte. Il sole, nel suo
lento cammino di risalita da dietro le spalle del vulcano, quella mattina
sembrava voler scivolare al di sopra delle tenebre. Lento e inesorabile, come
la lama di un boia.
Era grigio e immobile, quel mattino il
Mediterraneo. Più che un mare, sembrava un lago di pianura. La città dormiva
ancora, intontita dall’umidità della notte, Fiordarancio, invece, era sveglio
già da molto tempo prima dell’aurora e in quel momento, fermo nel centro dalla
piazza, fissava il disco di fuoco che si affacciava alla notte. Osservava
quello spettacolo della natura senza emozioni, semplicemente perché il suo
cuore non ne conosceva.
In quel momento, con tutto il suo
essere, lui pregustava solo la sofferenza che quella giornata gli avrebbe
elargito, ma anche questo senza gioia e senza dolore, con lo stesso
atteggiamento di
chi attende l’impiccagione di un feroce
assassino sulla pubblica piazza.
La sofferenza era per lui un
nutrimento, e lui anelava il suo cibo. Attendeva solo il momento in cui avrebbe
avuto il permesso di scatenare i suoi istinti più neri, laggiù nel regno del
suo padrone.
Quello era il posto più simile agli
inferi, quelli che lui aveva sempre visto soltanto dipinti nei quadri, che
Fiordarancio avesse mai sognato. Non aveva dormito molto quella notte: il suo
pensiero correva sempre a lei, la sua prigioniera inerme nel sotterraneo,
legata sopra un tavolo di marmo. Lui pregustava nella sua mente tutto quello
che avrebbe fatto per trarre la maggiore soddisfazione possibile dal suo
strazio. Un sorriso sghembo gli attraversò il viso.
Linguaggio denso, ritmo costante, ottimo
lavoro redazionale e grande erudizione sono altri ingredienti che fanno di
questo libro un’opera di pregio, che va letta con attenzione e che va anche
studiata.
I personaggi, ben lontani da descrizioni
proustiane, sono ricchi di sentimenti e di valori. Alcuni risultano anche
grotteschi, è il caso di re Carlo terzo, altri sono trattati con profonda
delicatezza, plasmandosi nella storia per il valore che gli danno, perché
questo rappresentano: un valore umano. È il caso del robusto sergente Cicciotto
e del capo dei templari, o anche di Fiordarancio, un personaggio secondario che
diventa primario perché unisce i due elementi: il bene e il male. Ed è proprio
Fiordarancio uno spunto importante: sappiamo chi sono i buoni e sappiamo chi
sono i cattivi, ma questi sono solo cattivi?
Tra le pagine più belle del libro
segnalo proprio quelle che parlano della nascita di Fiordarancio, un mostro sia
fisicamente che umanamente, ma pur sempre un uomo, vittima inconsapevole della
disgrazia umana.
Tutti
lo chiamavano Fiordarancio, ma nessuno ne sapeva il perché. Forse nemmeno lui
avrebbe saputo dirlo, sempre se ne
avesse
avuta l’intenzione, ma semplicemente lui non ci aveva mai pensato. Alcuni
pensavano quel nome fosse dovuto ai suoi capelli biondo-rossicci, ma
probabilmente chi, all’epoca, per la prima volta, aveva suggerito quel
soprannome conosceva la leggenda secondo la quale il primo albero delle arance era
stato piantato da Dio stesso nel giardino delle tre figlie della Notte. E lui
era figlio della notte.
La
mamma di Fiordarancio, fin da giovanissima, si era sempre venduta a chiunque
per pochi spiccioli, ma non era mai rimasta incastrata da gravidanze indesiderate,
un po’ per una buona dose di fortuna, ma anche perché aveva imparato tutti i
trucchi da sua madre, la quale, essendo una vera e propria strega, conosceva
tutti i metodi e tutte le erbe da usare per evitare la malaugurata evenienza.
Dal
momento in cui aveva raggiunto la quarantina, smarriti i suoi flussi mensili e
perduto quasi tutti i denti, la brava donna aveva pensato di essere
definitivamente fuori pericolo e stante anche l’allarmante diminuzione della
clientela, aveva eliminato parecchie precauzioni. Il diavolo invece, come si
sa, è sempre in agguato dietro l’angolo e un bel giorno lei si accorse di
aspettare un figlio. Quella rogna non se l’aspettava. Cercò di ricordare, di
risalire a chi potesse essere stato il colpevole, e come potesse essere
capitata una disgrazia del genere. Quando ritornò con la mente alle settimane
precedenti, rabbrividì, nonostante fosse una tiepida giornata di fine aprile:
la lista dei potenziali indiziati avrebbe potuto ben figurare nel museo degli
orrori, ma comunque decise che non era il caso di pensarci troppo. Aveva ben
chiaro cosa fare.
Si
preparò immediatamente un decotto potentissimo, lo ingurgitò tutto d’un fiato
superando il disgusto per la sua puzza mefitica, ma pregustandone gli effetti
sul suo corpo, e attese con fiducia. Lo aveva tracannato tutto, fino all’ultimo
residuo nero e amarissimo, ed era sicura che avrebbe funzionato subito, come le
altre volte. Passarono alcune ore: nulla, nemmeno una goccia di sangue o un
crampo, un indizio che il veleno con il quale voleva uccidere il suo bambino
avesse sortito qualche effetto, ma non successe niente. Provò anche a
trafiggere quel corpo che cresceva dentro di sé usando un ferro da calza, ma
quello reagiva attaccandosi a lei con maggior vigore e scalciandole dolorosamente
il ventre dall’interno.
Lo
odiava, lo odiava con tutto il suo cuore di mamma. Attese il momento del parto
tra i morsi della fame. Nessuno,
infatti,
voleva più avvicinarsi al suo corpo sformato e ai suoi occhi allucinati. Quando
finalmente venne l’ora, era notte fonda. Fece tutto da sola, prese il fagotto
insanguinato e urlante e lo gettò tra l’immondizia, all’angolo della strada,
poi tornò alla sua misera stanza e cadde sfinita sul letto, il suo posto di
lavoro.
Morì
dissanguata prima dell’alba.
E i personaggi femminili? Certo, le
epoche e le epopee narrate lasciano spazi narginali alla sfera femminile, ma
rimangono pur sempre dei pilastri perché lo spirito guida è sempre l’amore. Quindi
il ruolo di Marianna, la donna di Angelo, di carattere forte e di tempra
invisiabile, Rosina, la mamma di Angelo, l’unica a conoscere il segreto di
Tanit, la stessa Tanit che sorveglia e manipola la realtà con la sua misteriosa
potenza.
E infine, la macchina anatomica, cos’è
veramente? Sentiamo:
La
realizzazione dei modelli fu commissionata da Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, ad un anatomista palermitano,
tale Giuseppe Salerno, intorno al
1763. L'eccezionale realizzazione del sistema circolatorio artificiale dei modelli ha alimentato la credenza
popolare secondo cui i due corpi sarebbero stati il risultato di esperimenti alchemici condotti dal Principe di Sansevero su due servi ancora in vita. Nel 2008 i ricercatori
dell'University College London hanno ricevuto l'autorizzazione da parte degli
attuali proprietari della cappella ad eseguire esami scientifici sui due
modelli; da tali studi è emerso che gli scheletri sono effettivamente umani, ma
i sistemi circolatori sono completamente artificiali e costituiti da filo
metallico, cera colorata e fibre di seta con tecniche artigianali comunemente
utilizzate dagli studiosi di anatomia dell'epoca.
Ed è qui che la storia supera la realtà e l’autore ci
sorprende nel finale con una macchina anatomica figlia di una altro,
meraviglioso mistero, che rivive in un sogno letterario che ci fa dire con un
filo di impietosa speranza: e... se fosse veramente così?
Claudio Fiorentini