PREFAZIONE DI ENZO CONCARDI A "NEL FRATTEMPO VIVIAMO", 2020
Già
molti anni or sono il Corriere della Sera di Milano pubblicava un
articolo letterario, nel quale l’autore riportava un’apodittica affermazione di
Eugenio Montale: “La poesia è vita”. Leggendo quest’ultimo lavoro di Nazario
Pardini, il collegamento con tale memoria è stato quasi immediato: Nel
frattempo viviamo contiene la coniugazione al presente del verbo,
dell’azione del vivere. Ed è un amore per la vita incondizionato, che
viene prima di ogni domanda esistenziale e finalistica su questa nostra
avventura umana, ancor prima dunque di aver scoperto o capito il suo
significato, il suo senso: il poeta scommette sulla vita e l’uomo s’identifica
con l’artista senza alcuna scissione o dicotomia.
Tante
sono le liriche che possono dimostrare tale assunto, a partire da quella
intitolata Gioachimismo, con riferimento alla dottrina e al movimento
spirituale di ispirazione millenarista generatisi dalla predicazione e dai
testi del monaco cistercense calabrese Gioacchino da Fiore (1130-1202) che,
basandosi su una interpretazione allegorica della Bibbia, profetizzava la
venuta di un’età dello Spirito sulla terra, con il trionfo del Bene e delle
virtù cristiane: “Se il Paradiso fosse in terra, / mio Signore, /…/ senza la
guerra, l’odio e il patimento, / qui tra le povere cose, / tra l’erba fresca
delle mie radure, / o sopra i colli, / tra i papaveri, le spighe e le ginestre
/ ove io conobbi amore. /…/ Sparirebbero dannati e qui tra noi dominerebbe
aperto il Paradiso / col viso blu profondo ed il suo altare / di giada verde
come il nostro mare” (Gioachimismo).
È l’umana nostalgia dell’Eden perduto dopo la caduta iniziale, sempre secondo
il racconto biblico.
Altri
componimenti poi fanno riferimento ad un mestiere di esistere, che occupò a
lungo anche la riflessione di Cesare Pavese - Il mestiere di vivere - da
cui emerge un accentuato clima di solitudine esistenziale: “Passavo la sera
seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia”. Fuori da ogni equivoco,
Pardini sa che esiste il rischio della solitudine, ma sa bene anche che nessun
uomo è un’isola e dunque il suo ‘mestiere di esistere’ va in direzione opposta
alle conclusioni dello scrittore piemontese, abbraccia la voglia dell’incontro,
di natura, di meraviglia, di restare abbarbicato alla vita in ogni modo: “Ho
conservato una foglia; / svenata dall’autunno / si macchiava di sangue e non
aveva più potere; / l’ho salvata per miracolo. / È lì in un barattolo / sotto
vuoto spinto. / Mantiene, sì, l’aspetto / di chi muore, / ma pur sempre un
colore senza fine” (Ho conservato una
foglia).
Ed
anche: “Sarà solitudine, / sarà tristezza, noia, / sarà pesantezza per il
bagaglio / dei ricordi che ci portiamo: / la vecchiaia! / Ma pur sempre /
l’unico mezzo, / il solo, possibile mezzo / di restare più a lungo / a
respirare la vita” (Sarà solitudine).
Emerge il realismo dell’autore, impresso anche sullo stile letterario qui
opportunamente ad usum populi, ma per nulla mancante di ampi respiri
lirici, di vera poesia. Un realismo che si veste di volta in volta di memorie
domestiche e familiari, di momenti del quotidiano tra suoni di campane e lavori
nei campi, delle storie che potrebbe raccontare il marciapiede, della
scaltrezza del tempo che nasconde il suo trascorrere dietro gli eventi della
vita così che giunge la fine quasi senza preavviso, della sottile ironia su
funerali e morti... Il poeta traccia dunque un campionario di varia umanità e
molteplici atmosfere che letterariamente compongono una sorta di ‘zibaldone
esistenziale’ in versi, in cui, se volessimo cedere alle formalità
classificatorie delle tematiche, potremmo individuare due triadi essenziali:
vita-anima-destino e natura-memoria-amore.
Eccoci
dunque a pedinare l’anima del poeta per scoprire insieme a lui e alla sua ricca
umanità quale cammino s’intravede nella sua ‘realtà spirituale’: “…L’unica voce
/ che unisce ogni elemento / è il momento dell’arte, / è il sesto senso / che
l’anima / possiede. / È nell’anima / la stessa geometria / molecolare” (La geometria che attorno si distende).
Una facoltà - il sesto senso - invisibile: invisibile, ma concreta, non
vi è alcuna contraddizione, perché produce elementi tangibili! Ogni poeta
profondo lo sa. Ed infatti nell’articolo del Corriere
della Sera citato in apertura, lo stesso Montale dichiarava: “Io sono un amico
dell’invisibile!”. Inoltre il poeta ligure sosteneva che la poesia tende a far
intuire quel quid in più che le sole parole non riescono ad esprimere. E
Pardini cosa fa? Ascoltiamolo: “Ho pescato con la rete dell’anima / rumori
nell’oceano del blu stellare. / Non sono affogati, / li ho mantenuti in vita /
nel vivaio della poesia” (Ho pescato con la rete dell’anima). Con linguaggio
analogico ci dice come le sensazioni dell’anima, invisibili, diventano poesia
attraverso immagini che vanno oltre la parola. Lo stesso processo avviene in
altra lirica, quando è certo dell’esistenza del soprannaturale ascoltando la
musica di Puccini.
L’anima
non è dunque per il poeta un concetto filosofico astratto, definito attraverso
speculazioni teologiche o teoretiche, ma un’energia vitale capace di penetrare
in ogni dimensione dell’universo e dell’esistenza, quindi anche nella natura e
nel sentimento. È una facoltà della personalità che potrebbe stare tra la voce
interiore del fanciullino pascoliano e gli stimoli dell’elan vital bergsoniano.
Nella sua visione la natura non ha fine, possiede una vita immortale, è un
eterno divenire: si rinnovano sempre le stagioni, i colori, le fioriture, i
canti e il suo giorno non muore; essa possiede un’armonia che lega insieme
tutti gli elementi. Le immagini sono quelle della sua terra: il colle, il
bosco, il rustico, il cipresso solitario, il callare (viottolo di campagna), il
mare, il molo, il maestrale… Il canto d’amore ha qui brevi pennellate liriche;
dipingono il sogno di un’isola fatata, le fantasie di storie giovanili da
inventare con l’amata: “… E col sorriso l’isola accoglieva / solo utopie
forgiate per amare” (Stai qui con me);
dipingono l’immancabile connubio fra amore e luna: questa comanda il mare,
quello il cuore; dipingono ancora il suo potere anche nei confronti della
morte: “Pare un’inezia / il peso della fine / se guardo gli occhi tuoi su me
posati…” (Pare un’inezia). Per una
più approfondita conoscenza della poesia amorosa di Pardini rimandiamo al suo
libro I dintorni dell’amore ricordando Catullo (2019), con prefazione di
Rossella Cerniglia, la quale sottolinea “una concezione dell’amore fortemente
idealizzata”.
Nel
frattempo viviamo presenta una seconda parte a cui l’autore ha
dato come titolo: Dal serio al faceto. Dal sacro al profano. Egli dice
delle liriche di questa raccolta: “Tante portano come titolo Il fatto… Per me è una silloge un po’ diversa
dal mio stile: poesie brevi, apodittiche, attuali, e soprattutto motivate da
fatti concreti”. Oltre a questo genere vi troviamo anche composizioni che
assomigliano a massime, aforismi, detti, proverbi con strofe e rime libere in
sciolti versi armonici e sonori: non ci è dato sapere se d’invenzione del poeta
o se anche ispirate alla tradizione popolare. Fatto sta che sono veramente
facezie godibili che portano al sorriso, oltre che alla riflessione o ad una
morale sottesa, come spesso succede per questo tipo di scrittura.
Letterariamente esse sono, a mio avviso, collocabili in quel filone burlesco
toscano di lunga data, che va da Cecco Angiolieri al Giusti, variamente
definito dalla storiografia come ‘realismo comico-sarcastico’ o ‘scherzo
satirico’: tutto ciò rientra pienamente anche nel temperamento di Pardini,
sempre duale - come lui stesso ha scritto - tra serio e faceto, fra sacro e
profano; ed io aggiungerei tra intellettuale e concreto, spirituale e
materiale, ideale e possibile.
Tra
i motivi più ricorrenti citiamo la vita, l’amore, la gioia, il destino, la
speranza, il vino, la solitudine, la morte… ed un paio di esempi per carpirne
il clima: “È come un lecca lecca, sai, la vita, / finito non ti resta che lo
stecco, / non te ne fai di un becco, caro mio!, / gustala bene prima sia
finita” (È come un lecca lecca). “La
milza, la pancetta, la coratella, / la bazza, il calcagno e le budella / si
lamentano in continuazione / perché messi in un cantone. / Per non parlare poi
della chiappa e del rognone. / L’autore cita sempre nella poesia / cuore,
occhi, bocca, crini, anima mia, / e in disparte lascia sempre la plebaglia. /
Gridano adirati: «L’autore è una canaglia!»” (La milza, la pancetta, la coratella…).
Nazario
Pardini, un poeta infine che sa anche uscire da ambienti e modi accademici per
andare incontro agli uomini e condividerne il destino, nel profondo dell’io,
nelle relazioni con gli altri, nel mistero “del cammin di nostra vita”.
Enzo
Concardi
Anche il lettore frettoloso è in grado di constatare
la centralità del tema della natura nell’opera poetica di Nazario Pardini,
ormai davvero ricca di testi.
Le raccolte
più recenti confermano, all’interno di una ricerca artistico-letteraria
contraddistinta da forti elementi di continuità ideale e formale-stilistica,
tale rilievo primario, non certo limitabile alla semplice frequenza
quantitativa bensì qualitativamente prezioso nella sua dimensione privilegiata
di espressione oggettivata degli stati interiori, àmbito della manifestazione
concreta e coinvolgente delle differenti
situazioni etico-sentimentali, nonché momento dell’esplicitazione
commossa e meditata di una coerente concezione della realtà.
Questa nel
discorso lirico pardiniano appare, fin dagli esordî, percorsa da un’intima
dinamica energetica, da un élan
espansivo, teso a prorompere e dilagare, insofferente di argini, ostacoli,
limiti di sorta. Tale idea si obiettiva, ad esempio, nella potente
rappresentazione della piena di un fiume: “Piove a dirotto stamani, ed il
Serchio / gonfia il suo letto; è già nelle golene, / tra gli alberi che invocano
l’aiuto / frusciando malinconici richiami / col loro ciuffo sopra alla
corrente; / niente risparmia l’acqua inferocita, / tutto porta con sé, alla
deriva. / Qui dall’argine l’occhio si spaventa / a mirare la potenza che
sprigiona: / le barche sradicate dai pontili / corrono in grembo al grosso
defluire, / e ciottoli, tronchi, tavole, e ferraglie / si rincorrono in gara
verso il mare...” (La piena del Serchio da
I dintorni della solitudine, 2019). Dinanzi
al moto imperioso della vitalità naturale il primo atteggiamento dell’autore
consiste nell’abbandono positivo, in un acuto desiderio di immedesimazione, in
un bisogno di fusione panica e disindividualizzante: “… Odori di salmastro e
d’acqua smossa, / di erbe trascinate contro voglia, / mi invadono narici. E mi confondo / con tutto quel fracasso
naturale: / divento un ramoscello in
mezzo al mare.” (ivi, corsivi miei, come in seguito). Ho citato da I dintorni della solitudine (2019), la
silloge che avvia un percorso ideativo proseguito con I dintorni dell’amore ricordando Catullo e I dintorni della vita, libri pubblicati in questo stesso anno, a
comporre un’interessante trilogia.
Nella prima
raccolta emerge altresì il ripiegamento riflessivo, il distanziamento
meditativo, magari coadiuvati dal recupero memoriale, dalla riappropriazione
intellettuale delle esperienze del vivere, potenziate così nella loro rilevanza
morale e affettiva: “Ed il ricordo /
l’ho in saccoccia cogli altri. A questo punto / penso proprio di tenerli vicino
/ ad un cammino ormai giunto alla fine (…) Ogni tanto / me ne riprendo uno come
quando / si gioca con i petali sui prati. / È come ripescare un angolino / della vita. È come riviverla / col supporto fecondo dei ricordi. / Allungarla? Chissà…” (Via à vis con la sorte da
I dintorni della solitudine). È questo
l’altro tratto caratteristico dell’elaborazione estetica di Pardini,
coessenziale nell’ordine strutturale-compositivo del suo lavoro d’arte, come in
varie occasioni mi è occorso di sottolineare: tale disposizione mentale implica
l’aspirazione a un punto di vista personale, all’acquisizione di un abito
critico che, concentrando l’attenzione sui “dintorni” di determinate, capitali
situazioni spirituali, ne focalizza gli aspetti problematici, ne sonda la profondità
sentimentale e intellettuale.
Nella Lettera ad una amica mai conosciuta
premessa ai componimenti riuniti ne I
dintorni dell’amore lo scrittore si dichiara credente (“…L’avrà (Pneuma) lo
Spirito Santo questo potere di infondere tutta la sua forza sulla materia per
evolverla in bene? Io ci credo. Sono un credente. E non mi pongo tanti
interrogativi…”), dopo aver esordito con un’immagine a lui congeniale secondo
che si è in precedenza documentato: “È proprio vero, il fiume scorre,
portandosi dietro ciottoli, acque chiare, torbide, detriti, piene, e bonacce. E
tutto va a finire in un mare immenso, infinito. Avrà funzione catartica quel mare,
che all’apparenza pare chiaro e brillante, poeticamente tanto vicino
all’eterno? Potrà purificare tutto? La portata del fiume è pesante. Pesante
quanto la nostra memoria…”
Rammento un
verso di Charles Baudelaire, poeta molto caro al nostro autore: “Homme libre,
toujours tu chériras la mer!” (Uomo libero, ti sarà sempre caro il mare!, L’Homme et la mer, da Fleurs du mal, 14, v.1); se la seconda
silloge risulta sostanzialmente monotematica, incentrata com’è sul motivo dell’amore, l’idea del mare - come ha
evidenziato nella lucida prefazione Rossella Cerniglia - vale un’istanza
idealizzante e unificante i varî momenti di un sentimento che unisce alla
passionalità istintiva, edonistico-sensuale (“Il profumo del corpo / ed il tuo
seno, / rosa d’aspetto / e marmo nel suo tatto, / in me sopite voglie / destano
ancora / e rotonde e compatte / nelle mani / stringo le forme tue.”, Il profumo del corpo da I dintorni dell’amore) l’ambizione di
darsi misure superiori di immensità e di transtoricità: “…Son fuscello / che si
annulla nell’aria mattutina / portato sull’onda dell’aria leggera / del
novembre. Forse rincaserà / l’anima mia in fuga negli abissi. / Ritornerà in
prigione nel suo corpo, / riprenderà i suoi occhi per mirare / l’immensità del mare, / per pensare di
nuovo che la vita / è quel fuscello breve / che dimena / in un’immensità che ti rapina…” (In un’immensità che ti rapina, ivi).
Il rientro
dell’animo nella dimensione corporea e quindi il recupero di un’ottica
storicizzante e relativizzante rendono comunque lo scrittore toscano - anche
attraverso la stimolante mediazione dei testi di Catullo - consapevole della caducità
della vita umana e quindi pure dei rapporti d’amore: “… Così passiamo Delia.
Noi saremo / polvere e cenere sotto quei fiori / o sotto il gelo che
l’indifferenza / porterà sempre a mietere l’estate. / Fuge quaerere, Delia!
Amiamo, amiamo / e ancora amiamo. / Facciamo d’ogni tempo primavera.” (Ode, ivi). L’intonazione oraziana
intride di malinconia lo spunto conativo e partecipativo tipicamente pardiniano
e dispone il lettore a quella “conversazione con Thanatos” di cui constano i
versi de I dintorni della vita.
Può sul
momento sembrare curioso che un complesso di liriche intitolate alla “Vita” si
richiami con insistenza e sistematicità alla “Morte”: nondimeno l’interesse
critico-intellettuale ampiamente dimostrato riguardo alla seconda si risolve e contrario nell’apprezzamento e nella
valorizzazione dei pregi della prima.
L’antitesi vita/morte pervade da sempre il pensiero
e le forme dell’arte degli uomini, se gli antichi Greci riconobbero nel
“pensiero della morte” (μελέτη ϑανάτου) l’origine stessa della filosofia; e un
poeta moderno fornito di una robusta cultura classica, Giovanni Pascoli, mise
in risalto nell’epilogo di quello che è il più noto e forse meglio riuscito dei
Poemi conviviali (1904), L’ultimo viaggio, l’effetto psicologicamente
angoscioso ed eticamente devastante dell’assillo costante della morte: “Non
esser mai! Non esser mai! Più nulla / ma meno morte che non esser più!” (XXIV, Calypso, vv.52-53, cioè: ‘è meglio non
esser nati, che nascere e vivere una vita tormentata dalla continua preoccupazione
della morte’).
La tradizione
teorico-culturale ha nel tempo concepito al proposito differenti strategie difensive.
Per esempio un pensatore stoico come L. Anneo Seneca raccomandava di
familiarizzarsi progressivamente con la prospettiva della fine individuale,
rilevando il carattere liberatorio (“Qui mori didicit, servire dedidicit”, ‘chi
ha imparato a morire, ha smesso di essere schiavo’) del contenimento e della
crescente limitazione degli impulsi che legano alla vita: se non è possibile
sradicarli, si deve almeno ridurne l’efficacia vincolante (“Una est catena,
quae non alligatos tenet, amor vitae, qui ut non est abiciendus, ita minuendus
est”, Epistulae morales, III, 26,10);
si tratta di una posizione che Bino Sanminiatelli, un raffinato prosatore della
mia terra di Toscana, ha attualizzato e ridefinito in termini esistenzialistici
nelle splendide pagine dei suoi Diarî:
“Sentirsi vivere significa (generalmente e
mondanamente) dimenticare la morte. Sentirsi vivere, invece, non è altro che
sentirsi morire (…) A me non interessa tanto l’uomo nei suoi rapporti sociali
quanto l’uomo di fronte alle cose della natura, all’amore, alla morte,
all’esistere dell’universo” (da Quasi un
uomo, 1968), giacché con
la morte “crolla nel nulla l’illusorio sodalizio creato da vivi. Ritroviamo la
solitudine della nostra preesistenza.” (da Ultimo
tempo. Diario (1967-1976), 1977). Nazario Pardini non ignora di certo la
presenza dolorosa e disorientante della morte, la sua azione distruttiva e
deprivante, come è ribadito in questi versi tramite la sequenza anaforica: “Morte - Lo sai che prima o poi faremo i
conti. / Verrò da te da anima negletta, / ti
toglierò gli affetti, le memorie, / ti
toglierò la vista, e quel che è
peggio / ti toglierò il pensiero. /
Raccogli i tuoi bagagli, preparati alla fine, / saluta la tua terra, i luoghi
sacri / dai quali hai preso tutto...” (Dialogo
con la morte).
Il poeta però
sul fondamento del proprio vitalismo naturistico si oppone ad essa, inveisce
con durezza contro di lei: “…Non hai alcun rimorso, / morte nefanda, morte
senza scrupoli, / morte che veglia anche sopra i mari, / per captare innocenti
forse in preda / di terrore e miseria? Tu che scorrazzi ovunque, / sui colli,
le città, sulle montagne, / sui paesi nascosti alle intemperie; / proprio tu,
morte, presente in ogni dove…” (E quella
imbarcazione?); “…Tu non hai passione, / sei nata senza cuore, né potrai
provare / il bello di una storia. Solo morte; / la tenebra, l’oscuro, i
cimiteri, i loculi infecondi sono lì / che attendono il tuo passo desolato (…)
A te è negato ogni volo in cielo, / dacché conosci solo l’ipogeo…” (Se ti guardi dattorno); “…Come faranno a
vivere, lurida morte, / morte lurida che indifferentemente / ti accanisci da
sempre sulla gente / innocente e perbene (…) Per dirti quanto è vile il tuo trascorso. / Vivi senza rimorso?” (Senza rimorso).
La rima dell’ultima
citazione - piuttosto isolata in un contesto lirico dominato dal verso libero -
rinsalda l’aspro giudizio e un antagonismo irriducibile: “…C’è già nell’aria
clima di sereno / anche se il mare continua il travaglio; (…) Ma i dintorni
riprendono il colore, / aprendosi in segno di speranza. / Questa è la danza / a
ritmo di natura; / danziamo la ballata delle gialle gramaglie; / invidiosa
sarai, morte, / dinanzi ai nostri salti…” (Mi
sembra che il vento).
Dalla
correlazione antinomica risulta pertanto un elogio della vita (“Non scriverò di
certo della tua / falce nemica, né del tuo volto / macilento e avvilito,
stamattina. / Non avrai il privilegio di occupare / la testata di questo
poemetto / che racconta la vita, le
memorie. / Scriverò, al contrario, della
gioia / che zampilla dattorno per i prati / indifferenti al tuo potere maligno;
(…) delle ardite primavere che sempre / impavide ritornano a tradirti / coi
tessuti cromatici vibranti/ all’asolo di marzo. Tradimento! / Mi piace tutto
quello che si oppone /
all’impertinenza della tua presenza, / morte...”
(Non scriverò di certo, morte), della
sua forza tonificante, dei suoi valori (l’amore, la poesia) capaci di vincere
la morte: “…A dicembre quel ramo ebbe la gioia / di vederli cresciuti, forti e
rossi, / cachi rotondi come il sole a sera; / ma poi cedette. L’ho rivisto
quest’oggi / secco tra i rami, inanimato a terra. / Un simbolo d’amore e di
preghiera, / che ti ha fregato, morte, / annullando la lama della sorte.” (Un ramo secco a terra); “… E la parola /
fedele obbedirà / alle risacche pronte / a essere risolte in tatuaggi: // ‘Vola
oltre la morte / e amami ancóra come io ti ho amata / e non lasciar che il
mondo ti contamini / togliendoti dall’anima quel succo / nato per trasformarsi
in poesia…’ ” (Infangare Calliope).
Interrogandosi
assiduamente intorno ai misfatti della morte (“…E poi dove sei andata? A chi è
toccato? (…) Tu non lo sai ? / La conosci la storia di mio padre? / oppure
l’hai falciato come tanti, / senza chiederti niente?…” (E tu, quando morì mio padre?), l’autore non si nasconde le responsabilità
degli uomini nello spargimento del sangue, nella diffusione del lutto e può
altresì concedere che Thanatos aiuti paradossalmente la vita liberando le
creature dal dolore (“Forse a questo punto hai fatto bene, / sono d’accordo con
te questa volta. / Soffriva da tant’anni; il male lo rodeva. / Gli leniva il
dolore la morfina. / Era un urlo perenne (…) Forse ha trovato pace; io non so/
cosa succede dopo, ma senz’altro / ha smesso di patire. Oggi ti approvo.”, (Oggi ti approvo, morte), ma la sua
opzione convinta a favore della vita non è mai posta in dubbio.
Stante il
contrasto di fondo di cui si è detto è consequenziale il fatto che nei
componimenti de I dintorni della vita
assuma una funzione strutturante la figura dell’antitesi e specificamente quella costituita dalla compresenza
conflittuale di buio e luce: “…ma il tempo non ci fu: / venne
per te una sera non sperata / anche
se amavi tingerla / coi buoi della Maremma. / Venne oscura per te che amavi il giorno”
(Lettera al fratello scomparso);
“Racconteranno con le loro storie / i luoghi dove io conobbi amore, / per
contraddire con la loro forza / il nero
vuoto della tua esistenza. / O primavera! / Torna fulgente sopra i verdi prati…” (Non
scriverò di certo, morte)
Pardini, che
altrove si è notato, ha affermato di essere credente, confida poi nella
sconfitta finale della Morte, nel
trionfo della Vita, in un tripudio di
luce: “Si aprirono i cieli, / la luce
incoronò valli ed abissi, / e tutto fu chiarore (…) Dovunque fu un abbraccio /
di fratelli, madri, padri; / sugli avelli dei tanti cimiteri / nacquero fiori;
danzarono le anime / rinate a nuova vita (…) Fu gioia. Fu luce attorno,
accecante, / nelle case, sul mare, e per le vie (…) Vinse l’amore, e nella notte
/ si accese la lampada divina, / grande, enormemente forte, / più che d’agosto
la calura estiva. / Più che di giorno la gloria del Signore” (Si aprirono i cieli).
Floriano
Romboli
I DINTORNI DELL'AMORE, RICORDANDO
CATULLO
Collana di testi letterari Alcyone 2000
– Editore G. Miano
PREFAZIONE DI ROSSELLA CERNIGLIA
I dintorni dell'amore, ricordando
Catullo, la più recente
opera poetica di Nazario Pardini, proposta nella memoria del grande poeta
latino, è anch'essa divisa, come la precedente, I dintorni della solitudine,
in tre sezioni; è inoltre preceduta
da una Lettera ad un'amica mai conosciuta, testo che ne richiama
subito alla memoria un altro, che immagino vicino al sentire e alle intenzioni
del nostro autore. Si tratta della poesia di Luis Cernuda, dal titolo A un
poeta futuro dove troviamo gli stessi interrogativi, le stesse incognite,
lo stesso bisogno di colmare il vuoto e la solitudine interiore e di trovare un
senso alla propria vita che rintracciamo nel testo di Nazario Pardini. Vi
compare anche l'immagine di uno stesso fiume che porta in Uno vicende ed
esperienze umane - metafora dell'esistente da cui precisamente prende l'avvio
il testo in prosa del nostro autore. Ma, al di là di questo, un unanime respiro
connette le due scritture: un tono epistolare intimo e confidente che con
movenze accattivanti ed emblematiche, si innesta in una concezione dell'amore
fortemente idealizzata, a testimonianza e suggello di una visione poetica e di
un credo artistico che rimane a fondamento della loro opera.
Il testo di Pardini si apre, come già detto, con una lettera che prende
l'avvio dall'immagine di un fiume che trascina, insieme alle sue acque chiare, tutto
ciò che incontra sul cammino, fino al mare infinito.
Ed è, per l'appunto, una metafora della vita: il fiume che porta
nell'immensità del mare, ovvero nella totalità dell'Essere, bene e male insieme
a tutte le contraddizioni e le antinomie che connotano il contingente: il
nostro essere, e quella realtà limitata, parcellare, conclusa che sembra
fronteggiarci, ma che ci costituisce nel nostro essere più proprio, essendo una
con noi.
Il poeta, che si interroga intorno a questo “fiume”, si interroga sul
senso dell'esistere, e in altri termini si chiede dove andiamo, a cosa siamo destinati,
e che senso abbia la vita umana in quanto costruzione di qualcosa a cui
- nel bene o nel male - siamo chiamati.
Quando “foscolianamente” ci induciamo a pensare nei termini di una
nostra eternità laica, dicendo che ci eterniamo nella memoria dei posteri,
credo che intendiamo dire anche questo: tutte le esperienze e conoscenze dell'uomo sono fiumi, rivi,
torrenti, che confluiscono nel grande, sconfinato mare della conoscenza che è
nuova creazione e nuova vita. Un mare, dunque, che mescola la ricchezza e
multiformità delle tante acque che affluiscono in lui, riportandole ad Unità.
Riportando il multiforme e difforme ad Unità, cioè a nuova realtà e a
nuova vita. Pertanto, l'uomo è parte integrante di un processo che estende
l'opera divina, anche in forza del suo “libero arbitrio” - che non è assoluto,
ma condizionato, anzi spesso pesantemente condizionato - ma è comunque quella
facoltà di scelta che mette in moto il divenire, e che contraddistingue il suo
pensare e il suo agire.
A proposito dell'Amore, un tema che riveste vitale importanza in
quest'opera, il poeta afferma che non debba mai allontanarsi dall'ideale della Bellezza,
e dunque dalla Poesia. L'Amore, infatti, primo attributo divino, è
il principio che informa l'universo. È Pneuma, spirito, energia del
cosmo, che costituisce anche la nostra parte divina, la quale, tuttavia,
nell'attuale civiltà sembrerebbe messa da parte, dimenticata in qualche oscuro
canto di noi stessi. In questo concetto che lega insieme Amore ed Arte, il Bene e il Bello,
possiamo rintracciare quello della Kalokagathia che esprime l'essenza di
quello spirito dell'arte greca, da Nietzsche definito apollineo.
Nello stesso testo, inoltre, partendo delle premesse che l'autore va
sviluppando, si fa strada l'idea di una poetica ben definita sulla base, non
nuova - perché mai risolta e sempre, di epoca in epoca risorgente - di una quaestio
a carattere concettuale e linguistico
che contrappone, in ambito letterario, il valore del “Nuovo” a quello
dell'“Antico”-
Pardini opta per una concezione in cui l'“antico” si innesti sul “nuovo”
per dare nuovi germogli, nuovo frutto, nuova vita all'arte. Ma anche dove
l'antico possa intendersi come il terreno, l'humus, il sostrato, la base
feconda e intatta (eterna) della poesia che verrà dopo: una poetica che
pienamente condivido.
La prima sezione del libro, quella che dà anche il titolo all'intera
silloge, sembrerebbe una rivisitazione dello schema amoroso catulliano delle Nugae,
che costituiscono la prima parte di quel Liber di 116 componimenti
poetici a noi pervenuto.
Nelle Nugae vivono le alterne vicende della passione amorosa del
poeta latino per una donna cantata col
nome di Lesbia - nel riecheggiamento del mito e del fascino della
poetessa di Lesbo, Saffo.
Anche nella prima sezione della silloge pardiniana trovano posto le
vicissitudini di un amore nel dispiegarsi di momenti e tappe che in qualche
modo richiamano ed intersecano il paradigma catulliano che procede dalla
passionalità e fedeltà amorosa fino alla tragica constatazione del disamore e
dell'abbandono finale. I componimenti di questa prima sezione non hanno titolo
e sono separati tra loro da un asterisco.
Questo attraversamento di momenti e di stati d'animo dispiega, anche nel
nostro autore, un corollario di sentimenti ed emozioni, finemente elaborati,
che stempera, tuttavia, e ammorbidisce i toni della passionalità più accesa di
certi carmi catulliani.
Le liriche pardiniane hanno lo stesso andamento tematico, e tutto è
rivissuto e rivisitato nello spirito e - per certi versi - nello stile
catulliano che è quello amoroso per eccellenza - anche se di un amore
che ha i connotati e le sfumature peculiari dell'anima del poeta: connotati e
sfumature che indicano una consonanza spirituale che attraversa il tempo per
divenire nei due autori, afflato, visione, emblema di uno stile che è misura di vita e immagine
di una realtà.
I componimenti sono brevi e, come i carmi catulliani delle Nugae
con continui riferimenti alle personali vicende amorose. Si innestano nel
tessuto dell'opera richiami più puntuali, e parziali rifacimenti di alcuni dei
testi più rappresentativi del poeta latino, come è nelle pagg. 33, 45, 47, 48,
e forse in qualche altra ancora.
L'incipit di questa prima sezione è dato da versi pregni di amara
dolcezza e del senso di ogni fatale declino che - sempre all'insegna dell'amore
- conduce alla ricerca di una vita che sia più vera ed essenziale. I paesaggi
sono un riflesso dell'anima, un esempio è fornito dalla pag.38: mare e
spiaggia, pensieri e immensità che recano connotazioni dell'anima “...e un'aria
grigia / ricopre i miei pensieri. (…) brusio di poca gente / ma tutto è vuoto
/non mi consola niente.”
Natura e paesaggio
sono, del resto,
lo sfondo costante
dell'opera, che i
versi dispiegano in ampia e
variegata fenomenologia. Vivono sovente della dimensione del ricordo, e aprono
a scene in cui si mescolano note passionali che vagheggiano sogni lontani
(pagg. 37 e 39).
In alcuni componimenti di questa prima sezione incontriamo una dolcezza
che sconfina, a volte, nel gesto voglioso e irruento come pure avviene in
qualche testo del poeta latino. Il personaggio centrale, è una Delia/Lesbia che
ci riporta alla donna amata da Catullo, e che, come la Lesbia catulliana,
si mostra a noi di riflesso, attraverso i sentimenti che suscita nel nostro
poeta. Gli stessi versi aprono talora a suggestioni e vagheggiamenti di un
passato arcaico in cui l'immagine femminile era accostata a quella della
divinità, e vi si effonde una malinconica dolcezza che pare emanare dalla
natura e dal paesaggio ed irradiarsi in palpito e in levità che si fanno canto
di delicata elegia.
Così la nostra Delia/Lesbia, trasfigurata, diviene ninfa vagante
per i boschi, che ci appaiono intramati di elementi vegetali e umani: “
...tingevano i capelli / i raggi rossi / penetranti tra i rami / e i butti
smossi. / Olezzava il salmastro e la tua pelle...” E poco più avanti, in un altro componimento: “(…) Forse non
giungi, Delia, / ché più non mi ami? (...) Ma dal fondo del bosco, / ninfa
vagante, / dal fondo del viale / verso i miei dubbi / muovi le tue grazie (...)
ed io respiro / il tuo dolce profumo, / il tuo sospiro.” Una mescolanza
visionaria in cui la bellezza femminile compenetra e anima la natura. E questa,
a sua volta, si mostra come la degna cornice entro cui cantare la donna amata.
Ma in essi si insinua il dubbio della fedeltà amorosa della donna, che ci
riporta alla parabola catulliana, prima ascendente, poi declinante, di un amore
che ci appare, nel suo incedere, fatalmente segnato.
Comunque - al di là delle affinità che accomunano i versi dei due poeti
- le vicende amorose sono, nelle loro opere, diversamente contestualizzate e il
sentimento che le anima dipende dall'apporto complessivo delle singole
esperienze di arte e di vita.
L'immagine della donna amata riflette, in ognuna delle due opere,
atmosfere che appaiono consone al suo tempo, così la vicenda dell'amore tenero
e appassionato del poeta latino riceve l'impronta nuova della realtà che vive
nel nuovo poeta: e l'”Antico” trova un prezioso innesto nel “Nuovo” che avanza.
Nella seconda sezione del libro Di vita, di mare di amore, i temi
affrontati sono esplicitati nel titolo. E il primo componimento sembrerebbe,
appunto, un inno alla vita e alla natura, tradite e devastate dall'uomo. Delle
quattro strofe che lo compongono, le prime tre presentano l'anafora del verso
iniziale “E noi ti demmo morte” a ribadire con enfasi e immagini di brutalità,
lo scempio operato su di esse dall'uomo. D'ora in avanti, infatti, anche in
considerazione dell'opera nefasta dell'uomo su di esse, percepiremo il
sentimento dell'autore mutare, e i paesaggi e la vita intera ci appariranno,
nei versi, disabitati, inquieti, silenti...
“(...) Mi prende il largo spazio: / sono il nulla e il nulla si dilegua
/ nel vento salmastro dell'immenso./ Non odo più la bàttima né provo / sogni e
tristezze in questo diluirsi / del cuore nel mio mare.”
Anche nei versi di Chissà per quali mete, troviamo lo stesso
abbandono, lo stesso senso di vuoto e dismissione che si riflette nello sguardo
che si allarga alla campagna “ Spentisi i girasoli, ammorbiditisi / i colori
della mia campagna / resta un canto che accompagna / i rintocchi di una campana
funebre. / Questo rimane di un'intera stagione: / un suono lento e peso /che
rinnova un trasporto; / seccumi senza scricchi / per assenza si sole; / viti
disabitate; / uccelli che svolazzano nel vuoto, / immemori di nidi.” Il senso
di una morte incombente emana da questo lento sfiorire della natura, dallo
spegnersi dei colori accesi dell'estate: cenni che divengono segni e simbolo
dell'inesorabile fine di ogni cosa.
Alcuni versi, come quelli di Ignoto verso il mare hanno poi un
andamento lento e riflessivo, modulato, si direbbe, su una meditazione che
proceda sugli stessi passi del poeta “E' febbraio. Non vedi per i campi /
traccia di paesani; tutto è fermo. / Persino lo svolare attende l'ora calda...”
L'occhio osserva la natura che lo circonda, minuziosamente, in una calma
riflessiva che conduce al ricordo di un tempo lontano, di una giovinezza colta
nel dolce e amaro sentimento del nostos. Il presente, infatti, non vive
più delle grandi speranze di allora: “ (…) “A te mi dono / mese di nostalgie!
Di quando a sera / ci si accostava al fuoco con un animo / già pronto ad
incontrare primavera: (…) E ti rivivo, /
seppur la mia speranza / non cova rami in fiore”
In altri momenti, l'interiorizzazione del paesaggio è dovuta a un
sentimento di vastità panica che abbraccia il Tutto, tutto il paesaggio in un
unico afflato, e la terra in un sentimento filiale: “Nessun pensiero / mi
assalirebbe di dolore o di paura / sui sentieri di campo solitari / di papaveri
tinti e di ginestre. / Volerei felice tra le reste / scricchiolanti di calura
estiva / alla deriva / in possesso dei suoni e degli afrori /della mia madre
antica.” E l'uso ottativo del condizionale avverte, appunto, dell'insanabile distacco
tra la realtà e il desiderio.
Ritorna spesso, come in E' l'aria di novembre, il parallelismo
tra il trascolorare della natura e il declino della vita umana, già rilevato
nei versi di un'altra silloge I dintorni della solitudine: “ (…) Resta /
un silenzio che ingloba nel suo manto / la stanchezza del mondo. (…) Qui
respiro il riposarsi fragile dell'aria, / lo scorrere caduco di stagioni / che
sembravano eterne. (…) E se mi specchio / mi vedo stagione / che lascia alla
corrente / l'ultimo verde delle sue memorie.” La consonanza tra immagini
e sonorità del verso è di straordinaria bellezza e levità. E straordinaria, come dicevo, appare la
chiusa della poesia dove il pensiero e il sentire umano trovano espressione nel
simbolismo universale della natura.
Il tema dell'amore ricompare evocato dal ricordo di un paesaggio
visitato insieme all'amata. E il
personaggio della dolce Delia torna nei versi di Ode, - e in
altre pagine - e si mescola a questo tenue rammemorare, al vagheggiamento di
momenti estatici che si fondono al paesaggio e lo nutrono di atmosfere
vaghe e fluenti come il trascorrere delle stagioni nell'aria. Torna anche,
nell'ultima strofa, un riecheggiamento dei versi catulliani del “soles occidere
et redire possunt”, a commento di questo dileguarsi di eventi e di visioni che
è la vita.
Nell'Ecfrasi, intitolata il Canto della bellezza, compare
il tema dell'idealità amorosa che si dispiega nella sublime immagine di un
amore estatico, immortalato fuori dal tempo attraverso la descrizione di un
gruppo marmoreo in cui gli amanti non consumano l'acme della loro attrazione,
che è magnetica, fatale. E la rappresentazione delle forme è, pertanto, la
rappresentazione di questa attrazione che rimane ferma in se stessa,
senza trovare un divenire nella materia. Attrazione che diviene astrattezza e pura idealità
nel suo esimersi dalla incarnazione ed oggettivazione nel reale, e dunque
dallo scadimento di quel gesto puro in una contaminatio che lo
priverebbe di quella assoluta bellezza che lo apparenta al divino: sublime
descrizione di un attimo che ferma sulla soglia del divenire un gesto estatico,
e lo rende eterno simulacro dell'Amore.
Il tema del
mare, presente in vario modo nella silloge, si presta ad esprimere, per
traslato, più di un aspetto della vicenda umana, e al tema del mare è da ascrivere La barca,
ultima lirica della seconda sezione: qui i versi sono tutti intessuti di
metafore – barca, mari indifferenti, onde pellegrine, aspri scogli, porto, faro
ecc.– afferenti per lo più a un'area semantica di dominio
psicologico-esistenziale, ma anche a quella valoriale delle esperienze umane “
Sono una barca che s'inarca al mare, / sono un fuscello in balia del vento /
che cerco un porto (…) I remi stenti / hanno solcato mari indifferenti / verso
il chiarore delle mie speranze. (…) Ho navigato incerto in queste acque /
sbattuto spesso da onde pellegrine / in scogli aspri e crudi; in rocce scure.
(…) Aspetto un porto. Un faro che m'illumini; / una scia che segni la mia rotta
(…)”. E i versi chiudono con un desiderio e una ricerca, dentro una quasi
disperata speranza.
La terza sezione della silloge è intitolata Canzoniere pagano; ed
è da escludere, naturalmente, che l'attributo, abbia alcun
riferimento al significato che esso andò acquistando in relazione alla
sopravvivenza degli antichi culti politeistici nelle campagne dopo l'avvento
del cristianesimo.
In questi versi non è implicato alcun rapporto con la religione se non
quello con una realtà che, nella sua idealizzazione, conserva tuttavia qualcosa
di sacrale – tema anch'esso rilevato nella silloge I dintorni della
solitudine - dove è intimamente rivissuto il rapporto con un paesaggio
della memoria e con uno stile di vita, che riconducono l'autore alle sue
lontane radici, alle ancestrali forme di un mondo dalla bellezza e purezza
archetipiche.
Compaiono, come in precedenza, immagini scelte di luoghi amati -
accomunati in un canto intensamente lirico - ma ci si mostrano spesso anche in
abbandono: luoghi dove, a volte, una Natura malata, quasi moribonda, parrebbe
esalare un ultimo respiro “La zappa è appesa al filo del vitigno / incolto e
abbandonato e tra i filari / è cresciuta gramigna (…) filtra quell'aria sana
di campagne /odorose e feraci che a
frinire /continua in mezzo a
scorze rosicchiate // da talpe o a sibilare alle micragne /rimanenze di vita.
(…) Paesaggi, cari alla memoria che rappresentano per il poeta un richiamo vitale, un amore
cui, nel vago, si mescola una incerta malinconica speranza. Così, talvolta,
come nei versi di Albeggia, lo sguardo si posa con affetto sulle cose,
le osserva vagheggiando un lontano, impossibile ritorno a quel passato, a quel
minuscolo paradiso che racchiude gli esseri cari, il senso di un tempo
che l'anima custodisce: centro e forza del suo essere stesso, richiamo e voce
di cose care e sacre non più presenti, non più raggiungibili come un tempo,
e da cui nasce il respiro dolce e amaro di questa poesia.
L'amore per la bellezza è una costante della continua ricerca che i
versi sottendono, dipanandosi in un cammino attraverso un universo reale e,
nello stesso tempo, entro il se stesso, nell'interiorità della propria anima
che della bellezza fa tesoro, di essa respira. Nella lirica San Rossore, i
passi, lo sguardo, lo spirito dell'autore documentano, appunto, questo anelito
e ricerca costante della bellezza nelle forme di quel grembo paradisiaco che è
la Natura, la grande Madre
che questi tesori ancora elargisce, a dispetto dell'incuria e del
degrado cui l'ha condotta l'uomo. L'andamento dei versi, il loro ritmo riposato
e lento, ci riportano ancora a un andare “Solo et pensoso per i deserti
campi...” -come già, forse più
palesemente alla pagina 49 della prima sezione - ma non per nascondere
agli occhi indiscreti l'animo esacerbato da una passione amorosa divorante,
bensì in meditazione, per una necessità di ascolto di se stesso in solitudine e
di un colloquio col suo essere più intimo e profondo, vale a dire con la sua
stessa anima. Gli accenti e le sonorità dei versi, le descrizioni dell'elemento
naturale, evocano l'insistente richiamo di questa voce che tutto riporta
a un ancestrale mondo di sanità e purezza, ormai in disuso, e a canoni estetici
e valoriali che hanno dato un imprinting radicale all'anima del
fanciullo e dell'adolescente, in un tempo lontano.
In tutte le poesie di questa sezione, torna, infatti, e trascorre,
proprio il ricordo di “quel tempo lontano”: troviamo versi memorabili in All'alcione;
e in Giusto figure di un'antica età compare un aspetto di quel mondo
che una sacra nicchia conserva nel suo cuore: il ricordo dei pastori
transumanti la cui anima sembra vivere, in pienezza, degli spazi smisurati e
della purezza dell'essere in una natura ancora incontaminata.
Troviamo, in alcune poesie, echi e rimembranze di altri testi, per esempio
in Il tempio, la memoria va alle Correspondances baudeleriane, mentre
La casa del
colle - ma solo per lievi
assonanze -
vagamente richiama La casa dei
doganieri di montaliana memoria.
Anche l'amore si lega spesso a queste immagini di paesaggi, e di
quel mondo che lo santifica e lo rende
eterno nel ricordo. E nelle descrizioni talora aleggia l'impronta di un passato
leggendario, e il mito si frammischia alla realtà e alla storia come è, ad
esempio, in Volo pagano: “Lèucade profumata di salina / memoria io ti
trovai tale alla spiaggia / dell'ombrata Versilia, ove la pina / rumoreggia con
tonfi sulla gaggia / dorata dai suoi tirsi (…) Mi ghermirono / con violenza gli artigli di possenti /
avvoltoi e mi levarono su rade / tanto in alto, che vidi sotto me / il
brulicare d'isole affollate / di miti, ninfe, dèi e antichi re. (...)
Fedeli alla sostanza delle affermazioni presenti nella prosa iniziale,
in cui il poeta ci dava visione del suo modo di intendere e di fare poesia, i
versi di questa silloge coniugano in modo alto tradizione e modernità in una
sintesi di elementi e valori che procedono naturaliter, come genuino
sentire di chi questi valori ha maturato nei lunghi anni di studio e di
ricerca, ed elaborato con profonda raffinata sensibilità che investe tutto il
portato esperenziale della sua individualità umana, poetica e culturale.
Ci appare consono, pertanto, trovare nella raccolta, a fare bella mostra
di sé, versi che seguono lo schema fisso della tradizione, come i diversi sonetti,
finemente elaborati, che punteggiano e impreziosiscono il testo. E una corposa
presenza dell'endecasillabo, anche a prescindere da essi.
Altra peculiarità è il subentrare, e a volte la mescolanza, di livelli
linguistici che potrebbero sembrare eterogenei: quello di una lingua aulica,
colta e raffinata, e quella di una più dimessa, di matrice bucolico-agreste,
con terminologie che partono da un quotidiano che inerisce a quella specifica
realtà, verso una parlata che si assottiglia in idioletto come specchio di una
realtà in disuso, abbandonata e dismessa.
E questo scarto del linguaggio è, naturalmente, lo scarto stesso di una
realtà che sempre più si allontana al nostro sguardo. Lo scarto e
l'allontanamento di un mondo caro al poeta, e che il poeta torna a rivivere, e
a far rivivere con la nostalgia del suo cuore innamorato e devoto.
Una dissonanza che, al tempo stesso, convive e “consona” nell'unità
dell'anima che compendia e condensa ogni diversità e disparità in nuova e
unitaria acquisizione, in personale patrimonio di cultura e di vita.
Rossella Cerniglia
DI MICHELE MIANO
Nazario Pardini ha al suo
attivo molte raccolte di poesia. È un
personaggio, noto, da decenni nel campo della scrittura. Sulla sua produzione
hanno scritto i più qualificati critici
letterari. Alla sua poesia sono state applicate varie chiavi interpretative,
dalla motivazione esistenzialistica a quella psicanalitica alla religiosa a
quella naturalistica. Ad essa egli perviene in maniera quasi inconscia, o
meglio, sulla scorta di un cammino empirico, di sofferenze vissute e ben
radicate nel quotidiano.
Il suo pensiero non conosce
la freddezza dell’astrazione filosofica. È piuttosto un’analisi che scandaglia
gli abissi della coscienza, una sorta di speleologia dell’anima che procede per
constatazioni. Un narrare per sottrazione, incarnato in una lingua nuda e
spinosa, che mira allo svuotamento e alla esasperazione delle forme implicite
nella realtà. Un’essenzialità ascetica anima il lessico di Nazario Pardini,
quasi retaggio atavico della sua terra
di Toscana come nella lirica La
solitudine del mare: “Sono solo e l’inverno mi percuote / coi suoi venti
freddi e burrascosi” o nella lirica E
venne sera: “La luce crepitante dell’estate / invadeva la piana, delle
reste / il giallo profumato d’erba stanca.” O nella lirica Vis à vis con la sorte: “Sono troppi i ricordi. / D’altro lato / non
è che il vento li possa disperdere / come fossero foglie”.
Irrompono gioiose esplosioni
di eventi naturali… “Erano vive le stagioni / dei biondi girasoli” (È arrivato l’autunno), così
la sua poesia è percorsa da accecanti apparizioni che squarciano la
monocromia dell’angoscia in violenti chiaroscuri. È lo spazio per così dire
lirico di un percorso intellettuale non circoscrivibile in un orizzonte
destrutturante “Verranno giorni neri e dovrai scendere / dal limbo in cui accedesti
/ per riposare i sogni; la tua isola / sarà deserta senza gli abbandoni / che
ti resero uccello migratore.” (Verranno
giorni neri).
Sarebbe fuorviante definire
Pardini mistico dell’essenza, perché si verrebbe inevitabilmente ad intaccare quella razionalità
di pensiero e quella misura che caratterizzano il suo fare poesia. Eppure non
gli sfugge il senso della sproporzione essenziale dell’uomo, la macerazione
spirituale che deriva dalla consapevolezza di essere un frammento sospeso nel
vuoto del tempo ma anche di rappresentare qualcosa di unico grazie al pensiero.
La natura così ritorna e riecheggia spesso sovrana e con lei i vecchi
sopravvissuti di un tempo non alienato e non urbanizzato in cui “La luce
crepitante dell’estate / invadeva la piana, delle reste / il giallo profumato
d’erba stanca. / Sortivano i rumori dalle scaglie / di sterpaglie corrose.” (Venne sera).
Ritorna anche l’infanzia dei
ricordi come nella poesia In una
immensità che ti rapina: “Lasciatemi almeno le memorie / di questo sacro
fiume; il verde canto / delle acque moriture; il fluire / delle immagini fioche di stagioni / che si
affidavano a un guado indagatore / di sponde misteriose”, come il microcosmo di
valori che incarna, tenace nel suo perpetuarsi tra padre e figlio, la metafora
della speranza sempre presente nell’uomo. Si leggano i versi della struggente
poesia Disatteso: “Disatteso mi è
apparso questa notte / il campo di mio padre. Una vigna. / Sicuramente in
sogno. Lui che sfrasca / ed io che apro, di ritorno da scuola, / le braccia al
genitore”.
Ma sono la speranza e
l’amore i cardini della poesia di Nazario Pardini: infatti anche davanti allo
spettro della morte il poeta trova sempre l’urlo della rivincita. Egli vive in
ogni uomo e dell’uomo scruta la trasparente caducità e per questo il poeta
esalta le cose più semplici. Per lui è essenziale fermare il tempo ma anche
penetrare nella mobilità mentale dell’uomo per scoprirne i disagi e la parte
più creativa della sua odissea, per potere poi cogliere quegli aspetti che spesso
sfuggono anche all’osservazione più attenta. “Ti posso solo dire dell’inquieto
/ mio essere. Del suo bramare invano; / del suo microscopico restare / davanti
a un mondo che non ha ragione / di essere tanto immenso e così estraneo / al
pensiero di un uomo troppo umano.” (Non
chiedermi). Il messaggio della poesia deve contenere i valori più intimi
della vita e dell’esperienza umana. Per questo il poeta trascende con i propri
versi la realtà e nella meditazione e nella densità dei concetti egli vive la propria
odissea di uomo, di cronista della propria storia ma anche di quella degli
altri, che vede compagni di un viaggio senza ritorno. Proprio per questo
Pardini avverte nella sua libertà una simbologia che costruisce i caratteri
esteriori dell’essere, così soffocato da un dinamismo moderno senza precedenti.
Il suo non è un canto
illusorio, poiché sogno, realtà ed illusione si fondono con la sua identità
presente e pienamente raggiunta con il pensiero e con l’azione. Si legga la
lirica La poesia si scrive: “… non
pensare / alla miseria umana, al suo degrado, / fingi che quel momento sia per
sempre. / È l’unico sistema per fregare / lo scettro imperituro della sorte.”
La poesia di Pardini rivela
anche la preoccupazione per quanto della vita rimane, di ciò che egli ha
vissuto e sofferto nell’iter terreno e comprende che soltanto l’opera del
pensiero individuale può continuare a vivere dopo l’annullamento fisico.
Pardini enuclea con disinvoltura la bellezza della stessa creazione nella quale
s’immerge per raccoglierne i frutti della chiara odissea di uomo ma anche di
spirito libero. Meditazione, recupero, densità dei concetti, abilità evocativa
e psicologica del profondo sono le componenti essenziali della sua ispirazione,
specchio di un’anima non inquinata, dotata com’è della capacità di comprendere
e di cercare nell’uomo ciò che spesso sfugge alla maggior parte di chi affronta
una ricerca tesa a rilevare le problematiche esistenziali che in ogni tempo lo
hanno condizionato. Il recupero di questi valori dell’anima e del pensiero
affiorano nei suoi versi, e se vede nel passato qualcosa che non può essere
rivissuto e ne potenzia la carica trascendentale: il vissuto è qualcosa che non
va perduto e il suo valore resta immutato; si evidenzia in una densità di concetti
che il poeta riesce a farci rivivere sia metaforicamente che liricamente, in
una concezione in cui l’uomo nulla di nuovo ha da scoprire di sé se non il limite di sé stesso.
Ed è forse qui che il poeta
rispecchia la sua amarezza: avverte la sottile presenza non della morte fisica
ma dell’essenza dell’intelligenza umana che si perde nell’infinito cosmico, in
questo ritrova se stesso e l’amarezza di non poter creare, di non potere
sentire ed esprimere quella poesia del suo stesso pensiero che lo porta a vibrare
all’unisono con la totalità umana. “Ci sono cose molto più feconde / a riempire
il fondo della sacca: / il dolore di un figlio che ti lascia, / l’inquietudine
che provi nella vita, / la gioia per un mondo ritrovato, / il senso di una noia
che ti assedia, / lo smarrimento in cieli senza fine.” (L’ incendio dei papaveri, I).
Se la musicalità del verso e
il fluire delle immagini sono le componenti più significative, è necessario
aggiungere che sulla via della chiarificazione interiore e della conquista spirituale,
il poeta non è mai solo; va oltre la suggestione crepuscolare nonostante alcune
liriche appaiono il riflesso amaro della meditazione sull’esistenza,
soprattutto sulla morte, contro la quale alza la bandiera della stessa poesia
piena di vita e amore. E il tema del ricordo non è mai fine a se stesso ma è
strumento per accedere a una sorta di dominio ancestrale della terra, in una
componente solare. Il ricordo del padre e della madre diventano così
indicazione di un nuovo percorso da raggiungere: “… forse non era luce, / forse
non era / quella che io bramavo, / ma pur sempre la luce, quella chiara, /
quella di casa mia. / Chi dice che non
fosse / quella che io cercavo.” (Verso la
luce). La vera strada del ritorno, che è poi l’essenza pura del nostro
vivere.
Michele Miano
- Commento al volume di Nazario Pardini
- “ Cronaca di un soggiorno “
- di
- Carmelo Consoli
N. Pardini: Cronaca di un soggiorno,
The Writer Edizioni, 2018- Ed eccomi alle prese con un nuovo volume dell'amico caro e poeta Nazario Pardini.
- Occasione ghiotta per immergersi nuovamente nella parola poetica di un grande interprete della poesia contemporanea. Certamente Nazario Pardini è un maestro,un esempio luminoso di come la trasmutazione poetica possa rappresentare in versi incantevoli ed inimitabili la vita ed il suo mistero. “Cronaca di un soggiorno”potrebbe brevemente e semplicemente definirsi come un diario temporale di stupori, emozioni,canti, ritratti, riflessioni esistenziali, bucoliche memorie fissati per giorno, mese ed anno in lungo flashback e a cui attingere per accertarsi diquanto sia affascinate ed arcana l'esistenza degli uomini. Ho scritto “potrebbe” in quanto non è semplicemente questo che rappresenta l'opera presa in esame. Innanzi tutto osserviamo la sua introduzione. Una lezione di vita e poesia ai giovani e a tutti noi che introduce ad un proprio percorso esistenziale dove il poeta segna le tappe di un viaggio poetico ed umano. E poi camminando al suo fianco ritroviamo tutto il retroterra e la fioritura della trentennale poesia pardiniana; in ogni lirica c'è infatti un rimando alla sconfinata e luminosa sua poetica che nel tempo si è manifestata e che tanto ci ha creato emozioni.
- Ed è subito la lirica che apre e riporta il titolo del volume a svelare e racchiudere il senso dello stesso, ossia la meditazione sulla sua avventura vitale perigliosa e fantastica tra la natura e gli uomini come scrive : “Ora son qui che medito/ su quello che mi resta/ non ancora corroso dal mistero: un'altra vita, degna di riposo,/ che tengo stretta al seno:.../”
- Una meditazione in cui prevale una sorta di caldo intimismo e dove gli orizzonti travagliati,sconfinati e abbaglianti del suo vagare per terre,mari e cieli alla ricerca della sua amata isola si restringono assumendo tonalità decisamente più morbide, intime, confidenziali nel rievocare la sua vicenda umana. E' certamente uno sguardo più sereno e riflessivo a regolare la regia del suo pensiero, a fare resoconto memoriale ed esistenziale più disteso ma dove non certo diminuisce l'intensità della sua emozione di fronte alle visioni che affollano la sua mente.
- Ritroviamo in due distinte sezioni : “La mia isola e dintorni” e “Familiari” il poeta magistrale e l'uomo che da sempre conosciamo il quale apre alle riflessioni esistenziali sulle grandi questioni e sulla tragicità della vita intervallandole e mescolandole ad una lucida memoria della luoghi e dei fatti mitici della giovinezza e dove trovano anche spazi incantevoli pennellate dedicate a città,borghi, territori del cuore come : “ Pisa, Caprigliola, Metato, Lari “.Non si può che definirla una silloge splendida che ci collega alla mille strade percorse dal nostro autore attraverso le sue liriche e che ci conduce per mano alla sua isola finale: “ La mia isola” “/Dopo un lungo viaggio è là che io vivo/ la tanto sospirata verità.../” a cui fa seguito, in stretta correlazione d'ambiente e d'anima , l'altra stupenda poesia : “ Nausicaa sulle rive del Serchio”.
- Nella seconda parte del volume si avvicendano storie parentali con un florilegio di amati volti e care figure, commiste con la sacralità del suo territorio naturale in un caldo e affettuoso abbraccio di ricordi, interrogazioni, stupori in cui svettano le figure paterne e materne.
- Una seconda parte che culmina nel luminoso colloquio con il padre: “A colloquio con il padre. Il sogno”. E' dunque questa un'opera in cui l'instancabile navigatore, da sempre alla ricerca della bellezza dei luoghi e dei miti, si sofferma a fare riflessione sulle proprie contaminazioni vitali concedendosi una pausa meditativa come lezione di vita a sé stesso e ai suoi lettori; una lezione di poesia a cui non mancano le cromie e le fragranze di sempre, il linguaggio raffinato, la cultura classica con la sua profondità, la padronanza assoluta della vera parola poetica che ci conduce per mano alla ricerca della sua amata dimora e della speranza con una chiusa di splendide aperture: “ Nasceranno/nuovi virgulti a fremere ai libecci; / a popolare fronde; / a rimandare / riflessi verdeggianti di speranza”/ nell'ultima poesia : "Nel mio giardino d'oro" Carmelo Consoli
Recensione
di
Carla Baroni
a
Alla volta di leucade
Di certo sperderà questo settembre
i nostri corpi in seno alle conchiglie
insensibili ai flutti. E noi saremo
profumo di scogliera sulla baia
di flebili frangenti di memoria.
Questo libro di poesia di Nazario Pardini Alla volta di Leucade (Mauro Baroni editore, 1999) è stato amore a prima vista per il verseggiare fluido ed estremamente armonioso. L’autore concepisce la poesia come la concepisco io, ossia principalmente come musica. Per fare questo usa tutti gli artifici che la metrica impone: sinalefe, dialefe, dieresi, nonché l’uso di parole antiquate che, però, acquistano valenza nell’economia del verso per il differente numero di sillabe che la parola di uso comune avrebbe. Insomma se scrive spiro lo fa perché gli occorre un termine di due sillabe e non come la Merini per far vedere che conosce Dante o Manzoni. Mi fanno ridere tutti quei poeti, o sedicenti tali, quando in un testo, privo assolutamente di melodia, abbondano nell’apocope, altra figura che si rende necessaria solo per togliere la sillaba sovrabbondante. Pardini mescola arcaico e moderno come certi toscanesimi, cambia genere alle parole in un suggestivo linguaggio che si avvale principalmente di endecasillabi alternati a qualche emistichio. Nondimeno tutto ciò abbisogna di un lettore attento che sappia cogliere, appunto, l’intima musicalità del contesto. Albertazzi afferma che ci vuole almeno un anno per imparare come si legge l’endecasillabo ed io concordo con lui perché l’elisione, ad esempio, di due vocali non è ad libitum, ma legata esclusivamente agli accenti. Mi sono lasciata travolgere dalla parte musicale del testo – stilisticamente perfetto – in quanto sono pochissimi i poeti che, al giorno d’oggi, ne fanno la colonna portante delle loro liriche. Ma Pardini non è solo questo. La galoppante armonia si fonde con un susseguirsi di rappresentazioni di ciò che ci circonda, metafora di sentimenti e stati d’animo. L’intercambiabilità – o forse meglio la simbiosi – del linguaggio di ciò che afferisce alla sfera spirituale con quello di quanto è invece solamente esterno costituisce la maggiore peculiarità della poesia di questo autore che lo avvicina, a volte, al primo Luzi, quel Luzi che non avrebbe mai vinto il Premio Nobel perché la bellezza dei suoi versi è intraducibile nelle altre lingue. Poesia quindi complessa con rimandi sapienziali che, però, non ne appesantiscono i testi in alcuni dei quali Pardini finge addirittura di essere qualcuno dei più noti poeti della Grecia antica dando una personale interpretazione delle loro pulsioni. Ecco, quindi, il retroterra culturale che affiora carico della crosta leggendaria con cui i posteri hanno imprigionato simili personaggi. Tuttavia le liriche migliori sono, a mio parere, quelle in cui traspaiono i veri sentimenti dell’autore senza velature di copertura, senza la finzione di un altro ego. C’è quasi una sorta di pudore in lui nel descriversi, nel mettere a nudo la propria anima e pertanto tale compito viene affidato alla natura che lo circonda, questa natura spesso nostalgicamente dolente anche quando le immagini sembrano festose: Tornato è il tempo in cui rivedrò i greti / delle ferrate vie della Campania / tinti di luteo aroma di ginestre, / di fichi e di limoni… oppure Intanto il sole deponeva in fondo / all’orizzonte i tiepidi languori / di sopore solare. Sopra il chiaro, / nel punto in cui il mio fiume ormai si annulla / nell’insaziabile gorgo dei pelaghi, / giacevano rosate d’accidente / animelle e poiane… tanto per fare qualche esempio. Perché è in ultima analisi la natura l’amante segreta, quasi da quadernetto gotico, che l’autore ripropone in tutte le sue varianti, in tutti i suoi aspetti come può fare soltanto chi ne è profondamente innamorato. Il poeta ripercorre la propria esistenza con fatalistica rassegnazione ben consapevole dell’inutilità del rimpianto, ma conscio che nel suo dicembre steccolito gli ultimi verdi striminziti e vaghi gli esorcizzano il senso della morte. Nei versi di Pardini non c’è la stucchevole amarezza del “come eravamo” che costituisce il leit motiv dominante e ossessivo di certi poeti contemporanei, bensì la testimonianza di un’esperienza di vita che ha avuto i suoi frutti alcuni belli altri meno- ma tutti necessari nel puzzle del proprio io – e nella quale molto spesso il lettore potrà identificarsi. Ecco il carattere universale della poesia o meglio della vera poesia: la sensazione di appartenenza, di immedesimazione che infonde in chi ci si avventura. E allora perché Alla volta di Leucade la roccia bianca dalla quale, secondo la versione di Ovidio, si gettavano gli innamorati infelici? Non già per seguire l’esempio di Saffo e dimenticare ma, come Saffo, per non essere dimenticato. E Pardini ne ha tutto il diritto. (Carla Baroni, Ferrara 14 febbraio 2011)
Recensione
di
Umberto Vicaretti
a
Alla volta di Leucade
Carissimo Nazario,
che piacere sentirti e sapere che progetti il futuro; segno che la pensione, seppure ufficialmente (e meritatamente!) acquisita sul campo, può attendere…
Grazie del dono di Alla volta di Leucade, che non avevo, e che mi conferma nella grandissima stima che ho di te come poeta e come uomo, seppure maturata dalle poche e disorganiche, ma illuminanti, letture dei tuoi versi, e confortata dalle fugaci, eppure profonde, corrispondenze, nonché dagli occasionali, ma affettuosi e umanamente gratificanti incontri. Considera queste mie poche e modestissime note come segno della mia amicizia; meriti ben altre e ben più autorevoli analisi critiche alle tue produzioni liriche, ben degne dell’ammirazione e della stima di valenti “firme” della nostra critica letteraria. Ho letto con coinvolgimento e partecipazione la tua Leucade, dove nella prima parte, “Stagioni”, proponi una sorta di conto consuntivo, un inventario della memoria, un viaggio nel passato, rivissuto con la nostalgia delle cose buone della vita, di quando le “note stonate” degli zufoli “depredati a canne di golena /…/ andavano nell’aria / come spiriti liberi dal gioco / rischioso della vita” (Zufoli e fili d’erba). Era il tempo in cui “rifulgevano i sogni”, l’età in cui “raggi tardi e restii si staccarono / dal sole e differirono la notte” (Vaghezza). È, questo, un’emozionante rievocazione dell’ “età più bella”, senza però la leopardiana “lamentatio” per una Natura matrigna e spergiura, ma con la responsabile accettazione della vita e dell’avvicendarsi delle stagioni; non solo, e non tanto, di quelle climatiche e fisiche, quanto piuttosto di quelle che caratterizzano e segnano l’umana avventura. Si tratta di una consapevolezza allertata già da quando “dissestavamo i colli con rapine / di gemme incastonate sui declivi”, quei declivi che restano i luoghi indimenticati della memoria e in cui, “tra gli stecchi, /…/ si staglia l’ombra del nibbio”, che “scatta repentino / e fulmineo sul merlo disattento / in cuore al leccio”. Disarmonia fatale, questa, che incrina le certezze del sogno, per cui, smarriti, “si parlò di morte nell’ebbrezza / tenera di dolcezze tra i filari” (Che pensare). Eppure si doveva andare, per intraprendere quel “viaggio / che sempre ti promisi /…/ Era il viaggio di un’intera vita” (Vaghezza). La vita, dunque, come perenne viaggio. Il viaggio come partenza, fuga, ritorno, desiderio, ripartenza, approdo; ma anche il viaggio come insopprimibile impulso ad oltrepassare l’esperienza sensibile per proiettarsi in un altrove onirico e catartico, per dimenticare il quotidiano ed esorcizzare la morte: “… Volare / sopra la terra bigia, oltre la notte, / … / avanti che l’oscuro senza stelle / continuasse nero il suo silenzio” (Vaghezza). Ed è sempre il viaggio a legare, come un filo rosso, anche le altre parti del libro: La sera di Ulisse. Poemetti serali; Fuga da settembre; Sulle rive del Biondo e dello Xanto-Canti arcaici. Esse declinano le diverse fasi del viaggio, certificandone la valenza e il senso, individuando in Ulisse l’universale metafora della conoscenza e della sfida, il suo sempiterno partire, ma anche il suo sempiterno ritornare e, ancora, l’inesausto ripartire. Nell’opera sono molteplici i rimandi ai grandi spiriti della letteratura, così come i contesti e gli stilemi, che spesso, tra gli altri, riecheggiano, insieme a Leopardi, Foscolo, Pascoli, i grandi del Novecento, Montale e Quasimodo, ma anche D’Annunzio e Ungaretti, e Luzi (oltre che, beninteso, Dante e Virgilio, nonché gli amatissimi classici latini e greci). Fuga da settembre ci introduce dunque in un viaggio “da”, ma non si sa per “dove”. Certo, sarebbe meglio vivere nell’incoscienza degli uccelli (ed evocato, in Da un ramo dell’acacia, è chiaramente il “passero solitario”): “Tu non sogni! / Neppure sai riflettere: la vita / è morte differita giorno in giorno”; così come sarebbe certamente meglio vivere nell’innocente inconsapevolezza dei bambini, i quali “non pensano di certo né alla vita / futura, né agli affanni che verranno / nemmeno alla sorte” (Non pensano di certo). Ma diversa è la dimensione di chi avverte il tempo che chiama: “È qui con noi settembre. Chiude l’occhio / da prono girasole ad occidente / …/ Il tempo non ha tempo; si è fermata / per eterno la sfida dello scoglio / munito dello scudo contro il vento /…// Di certo sperderà questo settembre / i nostri corpi in seno alle conchiglie” (È qui con noi settembre). Ed è proprio la percezione della precarietà e dell’umana fragilità che spinge a ricercare non solo il senso e la direzione del vivere, ma spinge anche ad una sorta di redde rationem, ad un consuntivo della vita: “È questa l’ora / in cui tiriamo somme e meditiamo” (Come le foglie logore a settembre). E questa percezione si fa più urgente e acuta nel settembre dei nostri giorni: “Avvenne proprio là. Nel punto in cui / scorre il diletto fiume, (…) / … / quasi al termine del suo fluire” (Nel regno delle Eumenidi). È qui, nel settembre dei nostri giorni, che la percezione dell’umana fragilità si fa più acuta, e più urgente diventa l’esigenza di un consuntivo, con l’accettazione di un giudizio e con il consequenziale “affido” alle Erinni/Eumenidi, metafora immaginifica e visionaria di un dare e di un avere di esclusiva valenza etica e laica: “Ma non so se vale / di più restare immoti nella stasi / di un eterno sereno che provare / il dolce senso del dolore umano” (Fuga da settembre). Dunque, il dado è tratto; Ulisse si appresta di nuovo a partire, perché “È sempre aperta / la sfida tra l’eterno e me che cerco / con gli occhi indolenziti quella luce / che mi soverchia”. Proprio per questo irresistibile richiamo, “Ancora salperemo / oltre colonne (…) / d’impedimento ai sogni” (Il ritorno di Ulisse), questa volta per oltrepassare le colonne del mistero e dell’inconoscibile. Ma per compiere il salto “nell’oscuro senza stelle”, fortissimo è il richiamo dell’isola del sogno, indimenticato luogo della nostalgia e della memoria: Leucade. Lì sarebbe dolce ritornare per tentare l’estremo volo. Una diversione felice, una sorta di “scalo tecnico” propiziato da una sorte benigna nella terra della bellezza, alle sorgenti del canto, pura epifania della parola. Lì, con Alcmane e Saffo, e Anacreonte e Alceo e gli altri sarebbe bello chiudere il ciclo e dare un senso alla “fuga da settembre”. Alla volta di Leucade, dunque, dove il sogno è “nell’attimo superbo / di eternare la gioia dell’amore”, e dove “Nessuno pronuncerà di certo il verbo furono / per i miei versi”, perché “Moriranno gli eroi, le bellezze / di cortigiane effimere e procaci, / ma un cantico se eccelso volerà / oltre gli spazi frali degli umani” (Da Saffo a Anacreonte).
Fuggire da settembre, dunque, per intraprendere il viaggio alla volta dell’isola del desiderio, e lì compiere l’estremo atto: “Io ti lasciai e un salto nelle oniriche / acque di Leucade non mi concesse / morte né oblio” (Fuga da settembre). Un salto rigeneratore che, invece che certificare uno iato incolmabile tra la realtà e il sogno, prodigiosamente ristabilisce un continuum tra l’ombra e la luce (“E ti rivissi, vita”), dà scacco al silenzio e all’oblio, annuncia una nuova rinascenza.
Sul piano stilistico, notevoli risultano la ricchezza sontuosa del lessico, la padronanza della metrica, il ricorso privilegiato e dominante all’endecasillabo; quest’ultimo come, starei per dire, scelta di campo, rifiuto di ogni avanguardismo, moda, sperimentalismo, avventurismo. Un endecasillabo luminoso e fonicamente accattivante, armonioso e ampio, sostenuto da una naturale e mai artificiosa declinazione delle varie figure retoriche. La nobiltà di un linguaggio alto e aulico finisce per dare alla raccolta, paradossalmente, un crisma di rivoluzionaria modernità, se vi sappiamo individuare e “leggere” originalità e invenzione, purezza visionaria e inesausta forza creativa. (Umberto Vicaretti, Roma, 27 febbraio 2011)
Recensione
di
Sandro Angelucci
a
Alla volta di Leucade e a Canti d’amore
ULISSE E LA SUA ISOLA : LA PAROLA AVVOLGENTE E INNAMORATA
DI NAZARIO PARDINI
Nazario Pardini – poeta e scrittore di raffinata sensibilità nonché intellettuale onesto dalla lunga e sicura frequentazione letteraria – ci fa dono, graditissimo, di due raccolte in versi: Alla volta di Leucade e Canti d’amore che – crediamo – possano efficacemente compendiare l’intero e non certo esiguo spazio della sua poetica.
Abbiamo letto i libri con l’attenzione, razionale ed emotiva, che merita una scrittura genuina, avvolgente, priva di fronzoli qual’è quella del Nostro. E ci siamo resi conto che, nonostante la distanza temporale che le separa, le due opere sono legate da un invisibile filo conduttore che, pure, permette di stabilire dei nessi, di rinvenire gli specimina di questo canto. Così, seguendo l’ordine cronologico, ci siamo occupati, per primo, del testo la cui pubblicazione si colloca sul finire dell’ultimo millennio.
Alla volta di Leucade è un volume complesso ma non nel senso di una qualche complicatezza o difficoltà, tutt’altro, la sua fruizione è agevole, decisamente accessibile; la complessità è, qui, piuttosto, sinonimo di molteplicità. Ci spieghiamo: Pardini mostra – in queste pagine – d’essere in grado di spaziare senza mai venir meno ai presupposti, alle ragioni profonde della sua poetica, riuscendo a mettere in atto un trasferimento: la riproposizione dei temi a lui più cari sotto diverse angolazioni in modo tale che “l’afflato rurale – come sostiene Vittorio Vettori in sede di presentazione – travalic(hi) ogni limite di provincia, ricollegandosi. . ., nel segno catartico di quella solitudine che ha in sé la forza catartica della comunione, all’ideologia metafisica dell’Impero”. Il fatto stesso che l’opera si sviluppi distendendosi nelle sezioni che vanno dai Canti liguri, contenuti in Stagioni, ai Poemetti serali; dai Canti arcaici alla Fuga da Settembre è già una chiara conferma della buona disposizione dell’autore ad amplificare, quanto più sia possibile, il proprio respiro.
Ma di cosa si nutre questa inspirazione-espirazione? Cos’è che il poeta introduce dentro di sé per, poi, dare voce ed anima alle proprie sensazioni? “Un rapporto diretto e appassionato con l’ordine naturale è alla base della (sua) formazione, è sostanza delle sue radici paesano-campagnole” – afferma Floriano Romboli in una postfazione (sulla quale torneremo ancora) di rara bellezza ed efficacia –; l’inclinazione dello spirito ad una non celata malinconia dai toni tipicamente autunnali e, su tutto, “quel fascino seducente della memoria. . . che pervade l’intera raccolta e ne garantisce la compattezza strutturale” (di nuovo, dalla postfazione).
Sono, senza dubbio, questi gli elementi su cui si fonda la scrittura di Alla volta di Leucade; si pensi – e valgano d’esempio – ai musicalissimi versi de Lo stradone di scuola, lirica compresa in Fuga da Settembre e, forse, in assoluto tra le più belle: “Che lanciavamo sassi ti ricordi? / Erano così veloci che anche i falchi / restavano di stucco nel sentirli / sibilare nell’aria. Si sperdevano / e ancora non li ho visti ricadere. / Senz’altro hanno percorso un bel tragitto / se dura più del tempo di una vita. / . . . . / . . . Mi provo, / quando nessuno vede, ad impugnare / un cimelio di fionda. Da un tuo ciglio / miro dritto alle cime e scaglio il sasso, / ma guardo attorno e quasi mi vergogno / per come vola basso e poi ricade. . .”.
C’è, però, un aspetto molto importante da porre in evidenza che salva il recupero memoriale pardiniano dal rischio di crogiolarsi nell’inevitabile senso di perdita ad esso connesso. Ci stiamo riferendo a quanto è implicito nel titolo stesso: partire per raggiungere l’isola, quello scoglio da cui gettarsi in mare, dopo essere fuggito da Settembre, “mese addolorato”, non concede al Nostro né la morte né l’oblio “ma solo la ricchezza / d’immagini feconde rivissute / da un’anima al di sopra delle povere / storie del giorno. . .”. Ecco, allora, che il ricordo, il salto, il volo non è motivo di dispersione parziale o definitiva bensì di perpetuità: “. . . E ti rivissi vita, / con un sentire lieve e tanto amato / che in ogni fatto lieto o meno lieto, / ma scampato, vidi un superbo dono.”.
Se, dunque, da un lato la memoria può essere un valido aiuto quando prevale l’amarezza e la malinconia, dall’altro finisce ineluttabilmente col porre l’uomo di fronte agli eterni interrogativi correlati alla sua specifica condizione. Tanto intensamente il poeta avverte l’umana lacerazione da arrivare a chiedersi se valga “di più restare immoti nella stasi / di un eterno sereno che provare / il dolce senso del dolore umano”. E la risposta – ancora una volta – è quella della vita, quella del ritorno di Ulisse ad Itaca, quella delle sue sagge parole: “Se il mio destino vuole che ritorni / ai familiari usi ed ai barlumi / dell’isola agognata, porterò / con me più luminoso il cielo.”. Ma la sfida “è sempre aperta”: “come restare indifferenti – dice Floriano Romboli – all’impulso vitalistico che da tanti secoli l’Ulisse omerico e post-omerico ci trasmette?”. Non si può, non può sopirsi nell’anima “la voglia del viaggio” sia che questo equivalga a “. . . tornare / nuovi. O superbi spegnerci per via.”.
Ne siamo convinti: è l’ulissismo, in Pardini, a giocare il ruolo preponderante; ed è il medesimo spirito, la medesima sete di conoscenza a tessere il filo – di cui si parlava in apertura – per mezzo del quale è possibile riscontrare quella coerenza, quella continuità creativa che è poi la base del suo e di ogni autentico fare poesia. Già, il vero poeta è sempre fedele ai suoi principi ispiratori; certo, l’arte sua s’evolve, s’affina, matura ma mai gli farà rinnegare le sorgenti del canto. Dalla stessa polla sgorgano, quindi, come tanti rivi anche le liriche successive, raccolte sotto il titolo di Canti d’amore e, sebbene esplicito, ciò non toglie che il tema venga trattato – in funzione di quella capacità di spaziare di cui si è detto – con estremo riguardo, appunto, alle priorità, agli stimoli dettati dalle convinzioni più radicate e tenaci.
Ci sono molti passi che dimostrano la costante attenzione riservata all’incessante fluire della vita, e l’amore non può, come tutto, che esservi immerso: “Tanto vale (allora) abbandonarsi alla corrente, / ai flutti che trascinano / i nostri pensieri nel vuoto azzurro.”; tanto vale serbare intatto l’istante che “resta / all’anima aggrappato / ed alla pelle”, l’istante eterno che “né svanisce né muore” sul volto dell’amata “che incolto ancor più / pare divino.”. E’ così che il sentimento amoroso diventa parte integrante della poesia pardiniana, e acquista – a nostro modo di vedere – una valenza che lo eleva al di sopra della nobile, ma pur sempre misera e terrena, esperienza umana. E’, di nuovo, Ulisse, che torna dalla sua Penelope rinnovato e pronto a riprendere il mare, che è consapevole ora del vento che soffia sulle sue vele, a dire: “Ma io ti abbraccio / piccola donna amica dei miei sogni / . . . . / . . . Ed è reale. / Tutto quello nascosto / dalle crepe di un tempo indifferente / ritornerà vivace e colorito. / Io vincerò quel tempo. . .”.
Con queste premesse, “le tematiche erotico-amorose. . . non riguardano solo il femminile, ma il tutto: la natura, la religione, il mondo nella sua misteriosa complessità (v. nota critica di C. Lapusata). La natura, quella delle colline cosparse di uliveti e di vigneti, quella della sua terra pisana si rispecchia ovunque: è bellezza desiderata e amata, è l’immagine delle donne dallo “stampo etrusco” che “mischiano al sole e al cielo / aperto ai campi / volti bruniti / sui capelli smossi.”. I temi nostalgici, ma anche quelli primaverili e solari, che accompagnano le descrizioni naturali sono esemplari e denotano un innamoramento senza riserve, un vincolo di sangue con le albe e i tramonti che si susseguono, risvegliano e addormentano il paese natìo.
Ma – l’abbiamo detto – questa non è parola che si accontenta di restare dentro i confini; ama muoversi liberamente, ama universalizzarsi partendo e tornando al luogo d’origine, è luna piena “sui camini affocati” contro cui “si staglia l’ombra del nibbio” per lo scatto repentino “sul merlo disattento in cuore al leccio”, è l’immagine cara che “con la mano / deterger(à) ancora le camelie / asperse dal tatto verginale / d’iniziazione pudica alla vita.”.
E, a proposito di pudore, come non convenire con Aristide La Rocca che proprio nella discrezione trova quella qualità che conferisce al dettato di Pardini “una sorta di autonomia espressiva, di nobile idioma” che mentre “si fa ammirare si tiene a rispettosa distanza” dando voce ad un “tenero bisbiglio” percorso dalla memoria.
Quest’ultima considerazione ci proietta, quasi senza accorgercene, sul versante formale: siamo al cospetto (sia per l’uno che per l’altro volume) di un versificare elegantissimo: il ricorso al metro tradizionale, l’endecasillabo, non è mai manieristico ma sempre sostenuto dalla necessità che il canto sia il più equilibrato ed armonico possibile (“ciò che subito si avverte dalla lettura. . . è la grande musicalità che promana dai suoi versi”, v. nota critica di E. Andriuoli). Alla stessa esigenza rispondono le figure retoriche e, non di rado, l’uso dell’enjambement che contribuisce, a nostro avviso, in modo determinante, alla fluidità ed al felice dispiegarsi dell’elaborazione poetica.
Cos’altro aggiungere se non ringraziare l’autore per averci offerto l’opportunità d’ascoltare una voce, troppo spesso mistificata, che riconosciamo distintamente come l’unica, inconfondibile voce del vero. Saremo di parte, ma quando s’incontra un poeta come Pardini ci si sente più vivi e meno esposti ai soprusi di chi, ogni giorno, fa di tutto per offendere la poesia. (Sandro Angelucci, docente, poeta, scrittore, saggista e critico letterario, Rieti, 06/03/2011: Nazario Pardini. Alla volta di Leucade. Mauro Baroni Ed. Viareggio-Lucca. 1999. Pp.128. € 9,3– Canti d’amore. Book Sprint Ed. 2010. Pp.86. € 7,00.)
Recensione
di
Pasquale Balestriere
a
Alla volta di Leucade e Foglie di campo, aghi di pino, scaglie di mare
Nazario Pardini, poeta
È davvero un evento fortunato l’incontro con la poesia di Nazario Pardini, perché l’humanitas che la pervade e connota è di tale ampiezza e spessore da coinvolgere immediatamente il lettore in un’avventura che è nello stesso tempo percorso e ri-creazione dell’universo poetico prorompente dai versi di questo toscano colto, sensibile, generoso, ispirato.
Sono due le sillogi che mi hanno rivelato, attraverso una lettura attenta, piacevole e, perciò, partecipe, la dimensione artistica di Pardini: Foglie di campo, aghi di pino, scaglie di mare (L’Autore Libri Firenze, 1993, pp.70) e Alla volta di Leucade (Mauro Baroni Editore, Viareggio-Lucca, 1999, pp. 126, con prefazione di Vittorio Vettori e postfazione di Floriano Romboli). In modo certamente inconsueto si apre la prima silloge, introdotta da nove versi del carme 8 di Catullo, il famosissimo “Miser Catulle, desinas ineptire”, posti quasi come epigrafe dell’opera e pour cause, come vedremo immediatamente. Dopo un assaggio lievemente pennellato di quella natura che più avanti dilagherà, elemento fondante e necessario dell’ispirazione di Pardini, il lettore incontra la figura di Delia. Il nome riporta immediatamente al primus amor di Tibullo, la bionda lungochiomata Delia, che occupa totalmente il cuore del poeta latino e ben cinque elegie su nove del primo libro. Sicché, instaurando un gioco di rimbalzi più o meno allusivi, si può quanto meno intuire perché Pardini abbia aperto la sua silloge con la citazione catulliana, culminante nell’accorata, più che sdegnata, invettiva a Lesbia: siamo di fronte a tre figure femminili accomunate da una storia d’abbandono, nel senso che sono state esse a porre fine -in questa sede non ci importa come, quando, perché- ad una storia d’amore; e, conseguentemente, il dolore del distacco e dell’abbandono, non disgiunto da una volontà autoconsolatoria, offre materia di canto ai tre poeti. In particolare, Pardini dedica a Delia un polittico in nove quadri; ma questa immagine riappare più volte e permea di sé la sostanza poetica di altre, e numerose, liriche. Il motivo del ricordo e del rimpianto, che domina la raccolta, trova la sua collocazione più congeniale in un contesto naturale - elegiaco e insieme georgico- assiduo, ricco e vario, dove si stemperano sentimenti pungenti e palpiti violenti del cuore e dove si realizza e trova compimento un tipo di poesia interamente e circolarmente umano e quasi sensoriale; un tipo di poesia che erompe da pienezza di cuore e da tripudio d’affetti. Ma c’è di più. C’è la figura paterna che urge nel cuore e nei ricordi e che si manifesta in vari intensi momenti poetici (Mio padre in sanatorio, Le strade della mia borgata, Raggi fuggenti, ma soprattutto Gli occhi di mio figlio, dove il poeta magistralmente chiude in sé ed incarna la doppia condizione paterna e filiale). In Foglie di campo, aghi di pino, scaglie di mare, che è opera prima e che già dal titolo lascia ben intuire il milieu essenzialmente naturale che la sostanzia e la pervade, Nazario Pardini mostra di possedere gli strumenti del poeta: scrive in versi liberi, ma impiega con una certa frequenza l’endecasillabo e il settenario; ricorre a rime, assonanze, consonanze, allitterazioni, metafore, iterazioni con l’intento di sottolineare, anche attraverso scarti semantici, i momenti salienti del suo canto. Ma è nella splendida silloge Alla volta di Leucade che il poeta, con risoluta dolcezza, prende il lettore per mano e lo guida nel suo mondo, a sentirne l’estrema ricchezza di elementi fisici, così necessari nella sua dialettica creativa, e l’intensità dei sentimenti, la quale ben si coniuga con un nitore formale che rivela una lunga frequentazione di autori classici: greci (in particolare Omero e i lirici), latini ( soprattutto Lucrezio, Catullo, Virgilio, Orazio, gli elegiaci), francesi (tra gli altri Baudelaire, Verlaine, Rimbaud), italiani (Dante in primo luogo, poi Foscolo, Leopardi, fino a Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, Montale). Leucade, innanzitutto: l’isola delle bianche rocce, del salto di Saffo e della catartica soluzione degli amori impossibili. Non sono certo che qui, in qualche modo, Leucade richiami ai Dialoghi con Leucò di Pavese, come pur sostiene Vittorio Vettori nella prefazione . Mi pare piuttosto che il titolo ci riporti a un nome, Saffo, poetessa molto amata da Pardini per fatto umano e artistico, e a una condizione: il (ri)acquisto della serenità, intesa come affrancamento dal turbinio delle passioni (il “gran salto” liberava –come è noto– in un modo o nell’altro dalla sofferenza d’amore); ma soprattutto il titolo ci riporta a un mondo, quello classico, paradigma di bellezza, misura, armonia. In più il bianco (λευκóς -> λευκάς -> Λευκάς -άδος, Leucade), con tutta l’area semantica che a questo colore si richiama ( chiaro, brillante, splendente, limpido, candido, sereno), allude ad un processo di purificazione e di elevazione, ad una conquista quasi metafisica di sé, cui anche un moderno sacerdos musarum non può sottrarsi; o magari a un’ideale condizione da perseguire, se non da conseguire: quella di un terso e vivo equilibrio, in cui i fili del tempo si dipanano senza sussulti per una sottesa solida filosofia che aderisce saldamente alla vita e alle cose, pur nella consapevolezza della loro precarietà. Anche le scelte lessicali, che talvolta rimandano al parlato (querci, rame, ragia, moreccio, ecc.), cospirano a realizzare questa condizione di adesione al mondo esterno nel quale e con il quale Pardini snoda il suo percorso umano e poetico. E che ricchezza poetica, che spessore creativo in quest’opera densa e omogenea sotto il profilo dell’ispirazione! Le sezioni che la compongono (quattro: Stagioni -con la sottosezione Canti liguri -, La sera di Ulisse - Poemetti serali, Fuga da settembre, Sulle rive del Biondo e dello Xanto - Canti arcaici ) sono cementate dai temi di canto che percorrono la silloge in ogni direzione e dichiarano la vita, gli affetti e gli slanci del cuore. Ci troviamo di fronte a una poesia piena e matura, descrittiva e riflessiva, di assenze e di ritorni, di scoperte e di stupori, di ricordi e, talvolta, di rimpianti. Eppure la rievocazione non è mai fine a sé stessa: immergersi nel passato non solo consente al poeta di recuperare e rivivere esperienze e sensazioni, di aver consapevolezza del fluire delle cose, ma anche di indagare la singolarità, e quasi la fissità, dell’attimo, numero primo e realtà indivisibile della vita dell’uomo. Inoltre, la natura. Si tratta di una presenza sostanziale e dialettica nell’intero iter creativo del poeta di Arena Metato, che ad essa fa riferimento prima e più ancora che agli esseri umani; la natura come magna mater, compagna di viaggio, presenza vitale; come vigore, misura, bellezza; come maestra, esempio, monito. Natura a cui aderire come a realtà affascinante e necessaria, non annullandosi però, non naufragandoci, ma conservando coscienza di sé e della propria humanitas. Non c’è da meravigliarsi dunque che il cielo (o il mondo arboreo ) sia animato da colombi, passeri, rondini, falchi, tortore, aironi, cormorani, poiane, alcioni, usignoli, folaghe, tordi, beccacce, fringuelli, allodole, procellarie, nibbi, merli, gipeti, gabbiani, rondoni; né che i prati, i campi, i boschi esibiscano un’opulenza vegetale: pesco, alla rinfusa e a piene mani, gigli, ginestre, glicini, girasoli, biancospini, ninfee, equiseti, acacie, castagni, elci, rosmarino, mirto, timo, corbezzoli, ginepri, fichi, limoni, faggi, crescione, cipressi, pioppi, querce, peri, betulle... Vale la pena di fermarsi qui. Ma queste occorrenze naturalistiche non hanno assolutamente nulla di gratuito o scontato, perché ogni animale, ogni essenza arborea, arbustale o erbacea è, nella poesia di Pardini, strettamente funzionale al singolo momento creativo o ne è addirittura sostanza e fondamento; ed anche perché qui la natura è segno e metafora della vita nei suoi vari aspetti e sviluppi; e provoca (al)la poesia. Ma torniamo a Leucade, alla luminosità del sogno, alla dimora dello spirito, all’avvincente grazia e nitidezza del mondo classico rivissuto dal poeta con grande acutezza, padronanza e personalità, se convoca e coinvolge nel canto i grandi poeti dell’antichità, se dà loro voce per esprimersi, se affianca ad essi i classici moderni, se degli uni e degli altri recupera forme, stilemi, spunti, provocazioni poetiche insomma, per dare vita a testi squisitamente suoi, a versi che scuotono l’animo e comunicano sensazioni irripetibili. Con in più un pizzico di malinconia, soprattutto nella sezione Fuga da settembre, dove la poesia eponima (e finale) rappresenta, in linea con le altre, la triste dolcezza di questo mese tanto caro al poeta, forse perché racchiude i significati dell’autunno, di ogni autunno che -è opportuno ricordarlo- è anche la stagione della pienezza e della maturità. Eppure a me pare che soffermarsi solo su qualche lirica farebbe torto all’intera silloge. Alla volta di Leucade è bella tutta, appassiona e avvince in quanto prodotto letterario di assoluto rispetto e testimonianza di voce poetica sicura e verace, polimorfa e vibratile, essenziale e sofferta. Che è quella di Nazario Pardini. (Pasquale Balestriere, poeta, scrittore, e critico letterario, Barano d’Ischia, 07/ 05/2011)
Recensione
di
Carla Baroni
a
L’azzardo dei confini
Nazario Pardini
L’AZZARDO DEI CONFINI
Lasciavo che il mio animo volasse
libero fra le nubi o si mischiasse
per l’ampia piana…
In questo suo ultimo libro “L’azzardo dei confini” (Booksprint edizioni, 2011) Nazario Pardini mescola poesie recenti ad altre più datate senza, però, seguire un ordine cronologico. La silloge, quindi, non vuole avere le caratteristiche di un diario dove, a grandi linee, si possano vedere i mutamenti dell’uomo con il cambiare dell’età. Invece, a prima vista, il titolo potrebbe suggerire la voglia dell’autore di oltrepassare tutti i possibili limiti della poesia mescolando testi di un’ortodossia perfetta, quali i sonetti, ad altri in cui il verso libero non rispetta alcuna regola metrica in una sua personale ricerca di nuovi spazi innovativi. Tra i due estremi un’infinita gamma di variazioni prosodiche di suggestivo effetto musicale ci mostra l’indiscussa abilità del poeta nel giocare con le parole piegandole al suo volere e introducendo anche diversi neologismi. Comunque è sempre l’endecasillabo, anche se spezzato in vari modi, a far da base alla sua melodia. Tuttavia quell’azzardo dei confini penso abbia una diversa chiave di lettura decifrabile attraverso la lirica di copertina: Forse rincaserà/ l’anima mia in fuga negli abissi./ Ritornerà in prigione nel suo corpo,/ riprenderà i suoi occhi per mirare/ l’immensità del mare,/ per pensare di nuovo che la vita/ è quel fuscello breve che dimena/ in un’immensità che ti rapina. È l’anima, quindi, che sta azzardando tutti i confini dell’essere, un’anima in espansione come lo può essere quella di un poeta, e che infine, prima o poi, tornerà nel suo alveo naturale a fare i conti con la banale quotidianità della vita. Pardini ha una sua concezione particolare della poesia: qualsiasi argomento voglia trattare deve passare attraverso il tutto della memoria. Infatti la memoria non raffigura ma trasfigura: il ricordo diventa come una specie di duna su cui, con il tempo, altra sabbia si sedimenta. Mutandone i contorni e la forma. Così una stessa visione ha incidenza diversa da persona a persona. E a nuova vita/ ritorna il memoriale, si arricchisce/ di forma e di sostanza tanto che/ ben poco ha a che vedere col reale recita il poeta a conferma. È questo, quindi, il modo in cui l’anima riesce a travalicare il contingente ed a non essere schiava di esso. Anche quando l’autore sembra descrivere al presente qualche località a lui cara c’è sempre quella velatura che si sovrappone a tinteggiare di onirico il dettato. Va inoltre evidenziato il grande amore per la natura di Pardini che è lo specchio deformante su cui egli proietta i propri sentimenti, il tramite attraverso il quale si porge indirettamente al lettore per quella sorta d’innata pudicizia che lo trattiene dallo svelarsi completamente. E allora mi viene spontaneo azzardare: quale legame esiste tra anima e memoria se questa ci porta a privilegiare nel ricordo soltanto ciò che ha colpito l’anima? Esiste una connessione od una sovrapposizione? Forse la risposta ce la dà lo stesso Pardini con questi bellissimi versi: E spero solo che la luna in cielo/ porti a spasso del sole, col suo volto/ perlaceo e le sue chiome, dei frammenti/ di luce. Tanto spero di vedere:/ se privo di ricordi, alle colline/ nell’ora del ritorno il mio partire. (Carla Baroni, poetessa, scrittrice e critico letterario, Ferrara, 02/05/2011)
LA POESIA DI NAZARIO PARDINI
(ASPETTI
E MOTIVI DELLA POESIA
DI NAZARIO
PARDINI)
Io non so quale e quanta
valenza artistica possano avere le migliaia di premi letterari banditi ogni
anno in Italia né con quanta onestà, correttezza e competenza essi siano
condotti e realizzati. So però che essi sono un’occasione di conoscenza,
talvolta di frequentazione (anche se solo telefonica o più generalmente
telematica), più raramente di amicizia. È così che ho conosciuto Nazario
Pardini, come uomo e come poeta. Del tutto encomiabile nell’una e nell’altra
prospettiva. L’humanitas, nel senso
più ricco e profondo del termine, connota splendidamente la personalità e
l’opera di questo sapido toscano, colto e gentile, generoso e ispirato; e
perciò il lettore, cui non difettino cuore e sensibilità, può disporsi ad una
straordinaria avventura, ad un percorso poetico intensamente emotivo, risolto
in una dimensione di classica armonia e compostezza. Già nelle prime raccolte è
ben evidente quale sia per Pardini la realtà che, urgendo in lui, lo spinge
irresistibilmente al canto, reclamando voce e vita propria: è la pervasiva e
transeunte bellezza della vita, è la natura intesa come “bella d’erbe famiglia
e d’animali”, ma soprattutto come profonda essenza vitale, è il mondo degli
affetti familiari, è l’amore, è il mito della bellezza e del mondo antico. Già
nelle prime raccolte Pardini mostra di possedere gli strumenti del poeta:
scrive in versi liberi, ma impiega con una certa frequenza l’endecasillabo e il
settenario; ricorre a rime, assonanze, consonanze, allitterazioni, metafore,
iterazioni con l’intento di sottolineare, anche attraverso scarti semantici, i
momenti salienti del suo canto. E posso dire, ora che posseggo più dei tre
quarti delle pubblicazioni del poeta pisano, che la sua poesia ha sempre sicura
ed elevata dignità letteraria, accentuato spessore umano, capacità di penetrare
nel cuore e nella mente del lettore, suscitando affetti ed emozioni. Ma è nella
splendida silloge Alla volta di Lèucade
(Mauro Baroni Editore, Viareggio-Lucca, 1999, pp. 126, con prefazione di
Vittorio Vettori e postfazione di Floriano Romboli) che il poeta, con risoluta
dolcezza, prende il lettore per mano e lo guida nel suo mondo, a sentirne
l’estrema ricchezza di elementi fisici, così necessari nella sua dialettica
creativa, e l’intensità dei sentimenti, la quale ben si coniuga con un nitore
formale che rivela una lunga frequentazione di autori classici: greci (in
particolare Omero e i lirici), latini ( soprattutto Lucrezio, Catullo,
Virgilio, Orazio, gli elegiaci), francesi (tra gli altri Baudelaire, Verlaine,
Rimbaud), italiani (Dante in primo luogo, poi Foscolo, Leopardi, fino a
Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, Montale).
Lèucade, innanzitutto: l’isola delle bianche rocce, del salto di Saffo e della catartica soluzione degli amori impossibili. Non sono certo che qui, in qualche modo, Lèucade richiami ai Dialoghi con Leucò di Pavese, come pur sostiene Vittorio Vettori nella prefazione. Mi pare piuttosto che il titolo ci riporti a un nome, Saffo, poetessa molto amata da Pardini per fatto umano e artistico, e a una condizione: il ri-acquisto della serenità, intesa come affrancamento dal turbinio delle passioni (il “gran salto” liberava - come è noto - in un modo o nell’altro dalla sofferenza d’amore); ma soprattutto il titolo ci riporta a un mondo, quello classico, paradigma di bellezza, misura, armonia. In più il bianco (λευκóς -> λευκάς -> Λευκάς -άδος, Lèucade), con tutta l’area semantica che a questo colore si richiama ( chiaro, brillante, splendente, limpido, candido, sereno), allude ad un processo di purificazione e di elevazione, ad una conquista quasi metafisica di sé, cui anche un moderno sacerdos musarum non può sottrarsi; o magari a un’ideale condizione da perseguire, se non da conseguire: quella di un terso e vivo equilibrio, in cui i fili del tempo si dipanano senza sussulti per una sottesa solida filosofia che aderisce saldamente alla vita e alle cose, pur nella consapevolezza della loro precarietà. Anche le scelte lessicali, che talvolta rimandano al parlato (querci, rame, ragia, moreccio, ecc.), cospirano a realizzare questa condizione di adesione al mondo esterno nel quale e con il quale Pardini snoda il suo percorso umano e poetico. E che ricchezza poetica, che spessore creativo in quest’opera densa e omogenea sotto il profilo dell’ispirazione! Le sezioni che la compongono (quattro: Stagioni -con la sottosezione Canti liguri -, La sera di Ulisse - Poemetti serali, Fuga da settembre, Sulle rive del Biondo e dello Xanto - Canti arcaici ) sono cementate dai temi di canto che percorrono la silloge in ogni direzione e dichiarano la vita, gli affetti e gli slanci del cuore. Ci troviamo di fronte a una poesia piena e matura, descrittiva e riflessiva, di assenze e di ritorni, di scoperte e di stupori, di ricordi e, talvolta, di rimpianti. Eppure la rievocazione non è mai fine a sé stessa: immergersi nel passato non solo consente al poeta di recuperare e rivivere esperienze e sensazioni, di aver consapevolezza del fluire delle cose, ma anche di indagare la singolarità, e quasi la fissità, dell’attimo, numero primo e realtà indivisibile della vita dell’uomo. Inoltre, la natura. Si tratta di una presenza sostanziale e dialettica nell’intero iter creativo del poeta di Arena Metato, che ad essa fa riferimento prima e più ancóra che agli esseri umani; la natura come magna mater, compagna di viaggio, presenza vitale; come vigore, misura, bellezza; come maestra, esempio, monito. Natura a cui aderire come a realtà affascinante e necessaria, non annullandosi però, non naufragandoci, ma conservando coscienza di sé e della propria umanità. Non c’è da meravigliarsi dunque che il cielo (o il mondo arboreo ) sia animato da colombi, passeri, rondini, falchi, tortore, aironi, cormorani, poiane, alcioni, usignoli, folaghe, tordi, beccacce, fringuelli, allodole, procellarie, nibbi, merli, gipeti, gabbiani, rondoni; né che i prati, i campi, i boschi esibiscano un’opulenza vegetale: pésco, alla rinfusa e a piene mani, gigli, ginestre, glicini, girasoli, biancospini, ninfee, equiseti, acacie, castagni, elci, rosmarino, mirto, timo, corbezzoli, ginepri, fichi, limoni, faggi, crescione, cipressi, pioppi, querce, peri, betulle... Vale la pena di fermarsi qui. Ma queste occorrenze naturalistiche non hanno assolutamente nulla di gratuito o scontato, perché ogni animale, ogni essenza arborea, arbustale o erbacea è, nella poesia di Pardini, strettamente funzionale al singolo momento creativo o ne è addirittura sostanza e fondamento; ed anche perché qui la natura è segno e metafora della vita nei suoi vari aspetti e sviluppi; e provoca (al)la poesia. Ma torniamo a Lèucade, alla luminosità del sogno, alla dimora dello spirito, all’avvincente grazia e nitidezza del mondo classico rivissuto dal poeta con grande acutezza, padronanza e personalità, se convoca e coinvolge nel canto i grandi poeti dell’antichità, se dà loro voce per esprimersi, se affianca ad essi i classici moderni, se degli uni e degli altri recupera forme, stilemi, spunti, provocazioni poetiche insomma, per dare vita a testi squisitamente suoi, a versi che scuotono l’animo e comunicano sensazioni irripetibili. Con in più un pizzico di malinconia, soprattutto nella sezione Fuga da settembre, dove la poesia eponima (e finale) rappresenta, in linea con le altre, la triste dolcezza di questo mese tanto caro al poeta, forse perché racchiude i significati dell’autunno, di ogni autunno che - è opportuno ricordarlo - è anche la stagione della pienezza e della maturità. Eppure a me pare che soffermarsi solo su qualche lirica farebbe torto all’intera silloge. Alla volta di Lèucade è tutta interessante, appassiona e avvince in quanto prodotto letterario di assoluto rispetto e testimonianza di voce poetica sicura e verace, polimorfa e vibratile, essenziale e sofferta. Che è quella di Nazario Pardini (Pasquale Balestriere, poeta, critico letterario, Barano d’Ischia, 15/06/2012).
Lèucade, innanzitutto: l’isola delle bianche rocce, del salto di Saffo e della catartica soluzione degli amori impossibili. Non sono certo che qui, in qualche modo, Lèucade richiami ai Dialoghi con Leucò di Pavese, come pur sostiene Vittorio Vettori nella prefazione. Mi pare piuttosto che il titolo ci riporti a un nome, Saffo, poetessa molto amata da Pardini per fatto umano e artistico, e a una condizione: il ri-acquisto della serenità, intesa come affrancamento dal turbinio delle passioni (il “gran salto” liberava - come è noto - in un modo o nell’altro dalla sofferenza d’amore); ma soprattutto il titolo ci riporta a un mondo, quello classico, paradigma di bellezza, misura, armonia. In più il bianco (λευκóς -> λευκάς -> Λευκάς -άδος, Lèucade), con tutta l’area semantica che a questo colore si richiama ( chiaro, brillante, splendente, limpido, candido, sereno), allude ad un processo di purificazione e di elevazione, ad una conquista quasi metafisica di sé, cui anche un moderno sacerdos musarum non può sottrarsi; o magari a un’ideale condizione da perseguire, se non da conseguire: quella di un terso e vivo equilibrio, in cui i fili del tempo si dipanano senza sussulti per una sottesa solida filosofia che aderisce saldamente alla vita e alle cose, pur nella consapevolezza della loro precarietà. Anche le scelte lessicali, che talvolta rimandano al parlato (querci, rame, ragia, moreccio, ecc.), cospirano a realizzare questa condizione di adesione al mondo esterno nel quale e con il quale Pardini snoda il suo percorso umano e poetico. E che ricchezza poetica, che spessore creativo in quest’opera densa e omogenea sotto il profilo dell’ispirazione! Le sezioni che la compongono (quattro: Stagioni -con la sottosezione Canti liguri -, La sera di Ulisse - Poemetti serali, Fuga da settembre, Sulle rive del Biondo e dello Xanto - Canti arcaici ) sono cementate dai temi di canto che percorrono la silloge in ogni direzione e dichiarano la vita, gli affetti e gli slanci del cuore. Ci troviamo di fronte a una poesia piena e matura, descrittiva e riflessiva, di assenze e di ritorni, di scoperte e di stupori, di ricordi e, talvolta, di rimpianti. Eppure la rievocazione non è mai fine a sé stessa: immergersi nel passato non solo consente al poeta di recuperare e rivivere esperienze e sensazioni, di aver consapevolezza del fluire delle cose, ma anche di indagare la singolarità, e quasi la fissità, dell’attimo, numero primo e realtà indivisibile della vita dell’uomo. Inoltre, la natura. Si tratta di una presenza sostanziale e dialettica nell’intero iter creativo del poeta di Arena Metato, che ad essa fa riferimento prima e più ancóra che agli esseri umani; la natura come magna mater, compagna di viaggio, presenza vitale; come vigore, misura, bellezza; come maestra, esempio, monito. Natura a cui aderire come a realtà affascinante e necessaria, non annullandosi però, non naufragandoci, ma conservando coscienza di sé e della propria umanità. Non c’è da meravigliarsi dunque che il cielo (o il mondo arboreo ) sia animato da colombi, passeri, rondini, falchi, tortore, aironi, cormorani, poiane, alcioni, usignoli, folaghe, tordi, beccacce, fringuelli, allodole, procellarie, nibbi, merli, gipeti, gabbiani, rondoni; né che i prati, i campi, i boschi esibiscano un’opulenza vegetale: pésco, alla rinfusa e a piene mani, gigli, ginestre, glicini, girasoli, biancospini, ninfee, equiseti, acacie, castagni, elci, rosmarino, mirto, timo, corbezzoli, ginepri, fichi, limoni, faggi, crescione, cipressi, pioppi, querce, peri, betulle... Vale la pena di fermarsi qui. Ma queste occorrenze naturalistiche non hanno assolutamente nulla di gratuito o scontato, perché ogni animale, ogni essenza arborea, arbustale o erbacea è, nella poesia di Pardini, strettamente funzionale al singolo momento creativo o ne è addirittura sostanza e fondamento; ed anche perché qui la natura è segno e metafora della vita nei suoi vari aspetti e sviluppi; e provoca (al)la poesia. Ma torniamo a Lèucade, alla luminosità del sogno, alla dimora dello spirito, all’avvincente grazia e nitidezza del mondo classico rivissuto dal poeta con grande acutezza, padronanza e personalità, se convoca e coinvolge nel canto i grandi poeti dell’antichità, se dà loro voce per esprimersi, se affianca ad essi i classici moderni, se degli uni e degli altri recupera forme, stilemi, spunti, provocazioni poetiche insomma, per dare vita a testi squisitamente suoi, a versi che scuotono l’animo e comunicano sensazioni irripetibili. Con in più un pizzico di malinconia, soprattutto nella sezione Fuga da settembre, dove la poesia eponima (e finale) rappresenta, in linea con le altre, la triste dolcezza di questo mese tanto caro al poeta, forse perché racchiude i significati dell’autunno, di ogni autunno che - è opportuno ricordarlo - è anche la stagione della pienezza e della maturità. Eppure a me pare che soffermarsi solo su qualche lirica farebbe torto all’intera silloge. Alla volta di Lèucade è tutta interessante, appassiona e avvince in quanto prodotto letterario di assoluto rispetto e testimonianza di voce poetica sicura e verace, polimorfa e vibratile, essenziale e sofferta. Che è quella di Nazario Pardini (Pasquale Balestriere, poeta, critico letterario, Barano d’Ischia, 15/06/2012).
Sulla poetica di Nazario Pardini
Ho apprezzato molto e condivido
pienamente l’intervento critico di Pasquale Balestriere sulla poetica di
Nazazio Pardini: una disamina completa e profonda sull’aspetto stilistico,
formale e spirituale, scritta con autorevole competenza e, soprattutto, con humanitas riverberata in humanitas.
Ho avuto l’onore e la fortuna di
conoscere personalmente Nazario Pardini la primavera scorsa, ed è stata
immediata la percezione di comunicare, appunto, con un “toscano, colto e
gentile, generoso e ispirato”, che conosce bene la complessità della parola e
sa restituirne il dettato con il linguaggio dell’autentica poesia. Pardini
dipana la sua/nostra straordinaria avventura 'Alla volta di Lèucade'
alieno da insidie e pretenziose ideologie, in un 'percorso umano e poetico'
attento agli accadimenti del vivere e capace ancora di commuovere (Daniela
Quieti, scrittrice, giornalista).
Considerazioni
su
Nazario Pardini
Alla volta di Lèucade. Baroni Editore.
Viareggio. 1999
Quest’anno, quando la giuria del Premio
Letterario Nazionale “Mario Tobino”, organizzato dal Comune di Vezzano Ligure
(di cui anch’io ho fatto parte) ha dato il proprio giudizio sulle opere
pervenute alla sezione libro edito di poesie, si è trovata subito in piena
sintonia: Alla volta di Lèucade di
Nazario Pardini meritava l’alloro; infatti, si imponeva nettamente su tutti gli
altri. Chi ha fatto parte di qualche giuria letteraria di premi “puliti”
(quelli che non conoscono interferenze di interessi editoriali od altro) sa che
spesso, davanti ad opere che si equivalgono, diventa difficile dare un
giudizio, fare una graduatoria. Ebbene, quest’anno Alla volta di Lèucade ci ha notevolmente agevolato il compito e,
nondimeno, ha rappresentato per me una gradita opportunità insperata: mi ha
fatto conoscere personalmente Nazario Pardini. Invero, il suo nome mi era noto,
ma poco conoscevo delle sue opere e niente del suo blog. Soprattutto, non
conoscevo la sua generosità. Grazie a lui, alcune pagine della memoria, che mi
sono particolarmente care, hanno potuto uscire dal cassetto ed essere accolte
nel suo blog. Così, ho potuto ricordare alcuni amici poeti ormai scomparsi:
Giuseppe Sciarrone, Anna Maria De Ghisi, Sirio Guerrieri, Giovanni Petronilli,
ecc. Sì, grazie a Pardini, l’immagine di questi amici ha potuto rifiorire.
Tutto questo mi
ha fatto sentire un appagamento
interiore.
Ho letto con molta partecipazione quello
che Balestriere ha scritto di Alla volta
di Lèucade e di Pardini. Condivido quanto ha saputo esprimere con proprietà
e grazia. Conosco da molto tempo il poeta Balestriere; più volte è stato
premiato in concorsi della cui giuria facevo parte. Ora, posso dire, di
conoscerlo anche come “critico”. È altrettanto bravo come lo è nella poesia (Paolo
Bassani, poeta, scrittore, critico letterario).
Sulla poetica di Nazario Pardini
Caro Nazario, la tua poesia è come una partitura musicale in cui
spiccano note alte che sanno dosare un linguaggio memorico della migliore
qualità. Che dirti? Ineguagliabile, mi sembra il termine esatto. Mi ci vorrebbero
pagine e pagine per mostrarti "nero su bianco" che il tuo simbolismo
è palpabile, che la tua caratura è alta e possente, che possiedi dentro in interiore homine quella sigla
inconfondibile che è la poesia vera, quando essa è vigile, sincronica, attenta
alle ragioni del cuore, oltre che a quelle linguistiche e letterarie di alto
rango. Auguri di cuore, con stima e amicizia affettuosa (Ninnj Di Stefano Busà,
poetessa, scrittrice, critico letterario).
Sulla
poetica di Nazario Pardini
L'amico Pasquale è profondamente
penetrato nella tua poetica tanto da scendere sino alle fonti segrete della tua
creatività e illuminarle. Come non condividere con lui l'emozione della tua poesia
talmente permeata dalla bellezza della vita ed armoniosamente composta. Versi i
tuoi magistrali forgiati da una lunga frequentazione del mondo classico antico
e poi tra i grandi poeti della nostra contemporaneità che esprimono la navigata
esperienza del maestro, capace di utilizzare, al meglio, tutti gli strumenti
che il vero componimento poetico esige. Una voglia di canto la tua come solo
esclusivi poeti hanno, in cui si esaltano essenze vitali primarie, dalla
natura, alla famiglia, alla vita pienamente vissuta, tutte elevate a
dignità assoluta per cui si può parlare
di poetica in cui vince il mito della bellezza, talmente ben composta da creare
profonde emozioni in chi la legge. E così è Alla
volta di Lèucade dove è il mondo classico ad assurgere a simbolo di
armonia, bellezza, purificazione, elevazione spirituale. È evidente che c'è
nella tua memoriale creazione poetica un bisogno vitale di riappropriazione di
esperienze, sensazioni,valori tali da
colmare la differenza con la condizione precaria del vivere. Questo, certo
accade nella maggioranza dei poeti, ma nel tuo caso il confine tra passato e
presente sembra annullarsi in un continuo, ininterrotto respiro rigenerante. E
che dire del tuo pianeta “natura”! Non c'è che da rimanere estasiati essendo
esso contenitore affascinante di fragranze, presenze cromatiche, suoni e canti;
punto di riferimento vitale, edenico, per completare e arricchire la propria
umanità. Davvero una grande poesia la tua Nazario testimonianza di una
cristallina, sorprendente vocazione e di profonda cultura, specchio fedele di
una rara personalità, colta, gentile, umanissima (Carmelo Consoli, poeta,
scrittore, critico letterario).
Sulla
poetica di Nazario Pardini
Resto ammirato
dal magistrale intervento di Pasquale Balestriere sulla capacità poetica di
Nazario Pardini. Devo nascondere modestia per aggiungere una mia
considerazione. Mi vanto d’aver percorso molto mare, in una solitudine di
esseri limitata al coniugale, cercando ripari, e tracce di passato trascurate,
nelle baie dimenticate. Ho creduto nell’emozione di respirare il pensiero di
colui che, qualche millennio fa, mi ha preceduto con lo stesso sguardo, così
come nell’oscurità del mare al gran largo ho dialogato con l’infinito. Avrei
voluto tradurre in parole il grande vento che ho sentito dentro, ma sono poeta
solo per me stesso. Non posseggo, mi son detto, ricerca mentale che si adegui e
che trasmetta; dovrebbe navigare con me un poeta in grado di scoprire il mio
intimo attraverso il mio silenzio. Ho scoperto che non era necessario. Leggendo
i versi di Nazario Pardini ho trovato il Poeta che avrei voluto avere vicino,
che avrei voluto essere io stesso, lungo le emozioni che soprattutto il
Mediterraneo custodisce e riflette nel tempo. Poco a poco mi sono ritrovato io
il passeggero del Poeta lungo le coste delle Ioniche, lungo le rive della Caria
e della Licia, lungo le spiagge della mia angoscia... E lo ringrazio
nascondendogli la commozione (Brunello Gentile, scrittore).
Su
Nazario Pardini
Alla volta di Lèucade. Baroni
Editore. Viareggio. 1999
Interessante scoperta quella della
silloge di Nazario Pardini, Alla volta di
Lèucade. La formazione di Pardini è presente nei suoi versi - un ritmo
regolare e musicale prevalentemente di endecasillabi - dove i classici, dai
Greci fino ai nostri autori più importanti, offrono elementi di interpretazione
della vita, o vengono recuperati per analogia o per contrapposizione. La figura
di Ulisse si staglia sulle altre, nella sua incessante ricerca, in un ritorno
al passato che “non solo amore/ significa ma voglie e nostalgie/che trovano le
vie le più nascoste/ e avanti a noi si levano. La ciurma/è lì che attende”.
Pronto a tutto per “tornare nuovi. O superbi spegnerci per via”. Ma a questo
ardore giovanile si affianca una nuova è più profonda consapevolezza che
riporta verso casa: “Quello che scriverò, miei cari amici/ è il poema di Ulisse
al suo ritorno/ o una canzone di un piovoso giorno/d’autunno”. L’autunno è
infatti l’elemento trasversale della raccolta, carico di colori, di odori
muschiati, di suoni. Una stagione prediletta in cui Pardini si rispecchia: “È questa l’ora/ in
cui tiriamo somme e meditiamo/sulla vita passata”. Allora il passato emerge con tutta la sua forza,
fino a recuperare i giochi dell’infanzia lungo il Serchio e nei canneti, le
stanze modeste e dignitose e le premure della madre, ma anche la “canzone di
una giovane donna che mi penetra/ a quest’ora del giorno”. Settembre è una
stagione della vita, che regala un’illusione di tarda primavera, quando,
nonostante l’arco di tempo sia sempre più breve, “s’indora la foglia e si
arricchiscono/ le vene color sangue, che la vita/si fa tanto preziosa da sforare/pepite
d’oro prima di finire”. Allora i sogni del ragazzino che era “sempre
primo/colla bici coperta di fanghiglia/ e i gancetti alle balze”sembrano volare
più in alto: “Che lanciavamo sassi ti ricordi?... E pensare, ricordi, che
riuscivo/ a silurare il cielo colle pietre/convinto di bucare anche le nubi”.
La malinconia è trasversale insieme allo strisciare silenzioso del termine
della vita. E insieme un’ansia di afferrare “quel senso di un eterno che ci sfugge”, nel
mistero che oppone eterno e finito. Tributi a Dante, Foscolo, Leopardi, Montale
e i poeti liguri sono costanti, ma nei cicli eterni della natura che il poeta
osserva e ascolta nella sua campagna, torna la forza di Lucrezio nascosta nelle
cose.
Il Serchio amico, con i canneti e le cannelle, con i muggini o le
tinche sfuggevoli, le penombre e l’odore di marina che arriva nel vento dalla
foce, rimane simbolo di giovinezza e audacia, ma anche lo sfondo di un quadro
che si continua dipingere fino all’ultimo giorno, simbolo del tempo che scorre:
“Il Serchio a quanto pare/porta settembre sopra il lingueggiare/di tutte le mie
storie”. Pardini avvicina il registro aulico al linguaggio comune di carattere
gergale, con un contrasto che dà un
trasalimento lieve al lettore, e lascia come una sensazione di
luce-ombra. Accanto a “frale, pelago, ferale, adusto, spiro, onusto, murmure”
compaiono infatti “butti, buiore,
scancìo, steccolito, sbilenchi”, che evocano il parlato del paese,
quello che affiora all’improvviso in chi ha vissuto una parte della sua vita a
contatto con la cultura contadina, che viene in aiuto quando nessun altro
significante può avere la stessa forza e lo stesso colore. La ricerca del senso
del percorso, a consolazione della fragilità umana e della breve durata di ogni
vita terrena, sta nel foscoliano valore della poesia che rende eterni, che
compare in Da Saffo a Anacreonte: “Moriranno gli eroi, le
bellezze/di cortigiane effimere e procaci,/ma un cantico se eccelso volerà/oltre
gli spazi frali degli umani” (Marisa Cecchetti, poetessa, scrittrice, critico
letterario).
Su
Nazario Pardini
Si aggira nei boschi una fanciulla. Edizioni
ETS. Pisa. 2000
Si aggira nei
boschi una fanciulla. Lettura domenicale, senza interruzioni e distrazioni. Leggevo e
a un certo punto mi sono ritrovata “ad aspettare un vento per il volo”. Leggevo
e ho visto – sì, ho visto – “ancora Saffo sopra sponde”. E mentre la guardavo
la mente è corsa alle Vergini di Lesbo, a quel “respirano i piedi di gesso/ umidi
odori/ fra i raggi di luna"... “Il tuo giardino è oltre quel cancello…”:
piccoli incanti venati di mistero. Pronuncio a voce alta quel verso per
sentirne a pieno la densità e le allusioni che si porta dietro ( o che io
avverto come tali). Mi chiedo quali corde abbia mai toccato, visto che lo
recito più volte fino a farlo mio. Vado avanti, poi mi fermo e su un foglio
bianco copio con grafia accurata un altro, suggestivo verso, “mi sgomenta/ in
mezzo a tanto mare tanto nulla”. Mentre lo scrivevo, in quel verso ci cadevo
lentamente dentro, stavolta con sguardo-animo perso. Indolente, sono poi
riaffiorata tra le algide schiume in cerca di colori e di calore, sapendo già
dove trovarli: tra le pieghe di quel paese accoccolato, tra le croste rossicce
e le begonie. Evocazioni di cose passate ma ancora a me vicine. Un nome,
un’immagine lontana, un’emozione che non saprei descrivere. Contaminazioni
sensoriali? Le immagini a cui lei, caro prof. Pardini, riesce a dare vita
attraverso le parole, a me ricordano quella “facoltà quasi divina che intuisce
i rapporti intimi e segreti delle cose” di cui parlava Baudelaire. Nei prossimi
giorni/ore mi aspetto altre delizie, che poi le racconterò (Adriana Assini,
pittrice, scrittrice, critico letterario).
Su
Nazario Pardini
D’Autunno.
Edizioni ETS. Pisa.
2001
Ho
attraversato il suo Autunno, con
abiti comodi e senza ombrello. Beati voi Poeti che sapete incastonare in un
verso il racconto del vostro veleggiare nel tempo e nello spazio! Viaggi
solitari ma non di uomini soli. Viaggi densi di voci e volti cari. Il mare. Il
vino. La memoria. Delicata e potente l'immagine di quegli ulivi poggiati sul
mare. Drammaticamente efficaci quelle urla che escono dal petto dopo la
tempesta. Acqua profonda, acqua salata, che mentre dà la vita allude al suo
declino; acqua che "indifferente divora anche le rupi". Non è forse
nel mare che ogni sera sparisce il sole, per andare a scaldare il regno
nascosto, quello dei morti? E il vino vermiglio bevuto tra amici non riporta
all'ebbrezza che avvicina gli dèi ai suoi eletti? In quei calici avverto, come
scrisse qualcuno, tutta la "forza che vince il peso della terra e mette le
ali alla fantasia". Salutare la passeggiata tra i suoi filari, tra volti
in boccio e canti di colline... Leggo "ginestre" e una pennellata del
giallo più intenso si staglia all'orizzonte di quel giorno lontano che adesso
un po' m'appartiene. Guardo il colombo che riposa gli occhi sotto l'ala e sento,
con lui, la fatica del volo. Raccolgo la nostalgia di una vigna ormai sepolta e
penso che, per fortuna, non sempre il tempo cancella i canti e li riscrive.
Cosa sacra e grande è la Memoria, pronta a salvarci dal grigiore dell'oblio,
restituendoci - in lembi o in parti intere - un passato che è alito e carne
della nostra stessa vita. Ancora una volta mi ritrovo ad esserle grata, caro
prof. Pardini, per avermi offerto un posto in prima classe su quel treno che
trasporta le sue storie. Un cordialissimo e affettuosissimo saluto (Adriana
Assini, pittrice, scrittrice, critico letterario).
Su
Nazario Pardini
Alla volta di Lèucade. Baroni
Editore. Viareggio. 1999
L'ho conservato per ultimo. Lo avevo
sfogliato "a volo d'uccello" e ne avevo subito intravisto le cime. Alte,
altissime. Bisognava aspettare. Confesso che il sentimento di soggezione e
reverenza con cui ho affrontato "che dire dell'autunno" mi ha
accompagnata fino all'agape di vino e poesia. I canti - di Alcmane, Stesicoro,
Saffo, Alceo... - andrebbero scolpiti su candide stele per poi disseminarle in
angoli remoti delle isole più belle, come doni preziosi per viaggiatori
solitari e attenti. Allontanarsi su sentieri poco battuti, distanti dalla
calca, mentre - poco a poco - avanza un "fresco refolo" e il dolce
profumo della lavanda. E poi, d'incanto, ecco una colonna votiva spuntare dalla
terra rossa, all'ombra di un ulivo. Sul suo fusto in marmo pario, un saluto al
viandante: "se a me è cantare, lo farò stasera sullo splendido
fiume...". E così via. Fino alla prossima, stavolta sul ciglio del mare...
Ha mai pensato, caro prof. Pardini, di innalzare piccole stele nel suo
giardino, orto o frutteto? Sarebbe una vera delizia per gli amici che di tanto
in tanto si affacciano al suo tempio per un convivio, bevendo vino e cercando insieme
una melodia frigia per un canto struggente. Grazie per i suoi cadeaux e buon proseguimento di serata.
Un affettuoso saluto (Adriana Assini, pittrice, scrittrice, critico
letterario).
Motivazione
per
Scampoli serali
di un venditore di arazzi
The Writer Edizioni. Milano.
2012
La scansione lieve di versi,
capace di prendere una coloritura più elegiaca nella vena più naturalista,
manifesta intermittenze narrative laddove vengono a galla, dagli abissi del non
rivelato, quelle verità impronunciabili di pensieri diventati percorsi da
suggerire a chi decide di navigare nel mondo (Primo Premio sez. Poesia
naturalista “Premio Nazionale Leandro Polverini”, Città di Anzio, 25/11/2012).
Motivazione
per la silloge inedita
Colloquio
con il mare con la vita
In una
sinuosa linea melodica, sorretta da padronanza metrica, la raccolta di Nazario
Pardini Colloquio con il mare e con la
vita esprime tematiche esistenziali, senza retorica e con immagini
suggestive. È un abbraccio sincero, quello di Pardini, come sincera è la sua
poesia, tra il mare e Delia, in un'intesa di dolore condiviso e custodito per
sempre in questi versi (Commissione del “Premio Letterario Libero De Libero”, Fondi, 02/12/2012).
Motivazione
per
Premio alla carriera per alti meriti letterari, Portovenere
(SP)
A Nazario Pardini, poeta
dalla capacità straordinaria, magica di convertire il lettore in declamatore,
cantore prodigiosamente reso conscio dell’arricchimento che proviene dalla sua
acquisizione sonora effettiva e non solo immaginata, della molteplice
possibilità di condivisione delle emozioni, ansie, timori, estasi, sensazioni,
scoperte, riflessioni, meravigliosamente estrapolate dall’autore da un arco di
contesti dell’umana esperienza, spaziante dal mito alla quotidianità, dalla
felicità della consapevolezza allo smarrimento (che tuttavia non decade mai,
nell’inanità) dell’inconoscibile. Tale bellezza coinvolgente è anche il
risultato della struttura caratteristica, desueta tra i contemporanei, delle opere
di Pardini. Dove il tradizionale endecasillabo ha ruolo fondente nel trasporto
della musica creata da un lessico, variegato sapientemente, in funzione del
tema, delle circostanze, delle luci/ombre del momento dal raffinato/aulico al
popolare della sua terra Toscana. Concludendo: non rimane che concordare con
quanto è già stato autorevolmente detto e scritto dell’Autore. Resta indubbio
in Nazario Pardini che la parola scritta ha sempre avuto carattere di
melodiosità estatica, che suscita, nel periodo tramato d’echi ritornanti, un
movimento sinfonico che si raccoglie in una peculiarità espressiva, intenta a
determinare le sue immaginazioni, trasferendole sopra un piano di fissità
sublime (“Premio Letterario Portus
Lunae”, Portovenere, 27/12/2012).
Su
Nazario Pardini
Alla volta di Lèucade. Baroni
Editore. Viareggio. 1999
Caro
Professore, ho letto con vero interesse la Sua raccolta Alla volta di Lèucade riflettendo sulla Sua poesia. Mi sono posta
dalla parte del lettore come invita nella bella prefazione Vittorio Vettori. Mi
hanno subito attratta i forti incipit:
Che dire del’autunno; Quanti eravamo… Che
pensare! Oggi è d’incanto il cielo…. Un grande sogno vorrei fare… Avvenne
proprio là…
Poi
ho colto una passione smisurata, ardente per la Poesia, la grande Poesia
vissuta nel mito della Parola. É come se Lei si inoltrasse in un’avventura
senza tempo per far rinascere la Bellezza nella scrittura. Tuttavia sento, a
volte, il Suo originale pensiero ancorato a una veste ‘esteriore’ che blocca la
Sua musicalità interiore… come se vivesse una forma di soggezione (oltre che di
passione) nei confronti del passato. La Sua poesia, che è narrativa e tende
alla descrizione, perde così, a volte, d’intensità rivelando un esercizio
intellettuale di grande stile. La Sua originalissima invenzione personale
riesce poi a coniugare questo parlare alto con quello da Pisantropo, cioè con termini più popolari e correnti, così da
fondere le Sue due anime: quella di studioso idealista e quella di amante
dell’esperienza concreta della vita. Mi coinvolgono molto le Sue poesie più
essenziali come, per esempio, Le
speranze, La mia casa, Anche se scende languida, ove il contrasto tra la
dualità dei registri si attenua e così pure il contrasto dei suoni nel
fraseggio narrativo, espressione di dolorosa tensione intellettuale e
spirituale. Mi procurerò le altre più recenti raccolte per seguire il Suo viaggio poetico. Le mie impressioni sono
strettamente personali, legate al mio gusto e al mio sentire oltre che alla mia
vocazione all’essenzialità e alla semplicità espositiva: spero di non aver
deluso le Sue aspettative con queste riflessioni. Tengo molto alla Sua amicizia
(con i miei più cari saluti, Silvia Venuti, scrittrice, poetessa, 05/01/2013).
Su
Nazario Pardini
Alla volta di Lèucade. Baroni
Editore. Viareggio. 1999
Egregio Nazario, sto completando la
lettura di Alla volta di Lèucade e le
confermo che è un libro molto bello. La natura e la campagna (immagino
ambientata nella campagna Pisana) sono descritti in modo entusiasmante con una
grande attenzione ai particolari e ai significati della bellezza del mondo
visibile, andando, tuttavia, oltre le apparenze e penetrando nella profondità
dei sentimenti. La descrizione è atemporale o meglio al di fuori del tempo
quasi a divenire Mito e Simbolo del mondo agreste. Il recupero del ricordo
della giovinezza e degli amori adolescenziali sono struggenti e nostalgici alla
riscoperta di sensazioni conservate nel profondo dell'animo, risvegliate
secondo una logica quasi proustiana. Mi sono permesso di dare la preferenza
alle poesie Crepuscolo e Al Vento di Novembre. Spero che non la
disturbi il fatto che ho trovato una atmosfera parallela a quella dei romanzi
di Pavese stabilendo una connessione fra le Langhe e natura pisana (rinnovandole
i miei complimenti, Riccardo Minissi, scrittore, poeta, 05/01/2013).
Motivazione
per
Premio
Letterario “Tulliola/Renato Filippelli”,
Formia
A Nazario
Pardini è attribuito il secondo premio per la silloge Alla volta di Lèucade, prefazione di Vittorio Vettori, postfazione
di Floriano Romboli, Viareggio-Lucca, Mauro Baroni Editore, 1999. Il volume,
già nella distribuzione delle composizioni lungo assi che mettono a fronte contemporaneità
e classicità, segnala la sua proiezione verso il dialogo tra epoche, culture,
situazioni linguistiche e metriche non univoche, come a ribadire che la parola
in poesia si costituisce sulla cifra non della diacronicità, ma su quella di un
fascino che si ripropone avvolgentemente e irrefutabilmente con una sua cogenza
su uno sfondo di astoricità. Ne consegue una maniera di lavorare contenuti
semantici e moduli formali, che scommette più sullo stile e sulla struttura che
sulle sottolineature del nuovo, più sul sublime che sulle trasgressioni e sul plurilinguismo
(poeta Ugo Piscopo, Formia, 12/03/2013).
Su
Nazario
Pardini
Dicotomie. The Writer Edizioni. Milano. 2013
Completa ed importante opera
che si distingue per la sua voluminosa dimensione e per i contenuti selezionati
e validi. Un corpus poetico ricco, nelle sue varie sezioni: Dicotomie , Racconti in versi, D’amore di
terra e di mare, oltre alla nutrita selezione di Note critiche e Prefazioni e postfazioni. Come traspare dalle
pagine serrate questa ha singolari radici nel consenso, radicato in una
preparazione culturale degna di attenzione e di rispetto: un lungo percorso
esistenziale, che dal quotidiano, con linguaggio di impegno robusto, sfocia,
senza retorica, nei riflessi della conquista filosofica, in perenne
interrogativo della inquietudine. Non per richiami nostalgici, ma per richiami
di suoni, di voci, di vita, come traslazione della memoria, il disincanto e le
allegorie, il segno e la metafora, hanno la ferma sapienza del dettato, ricco
sempre del ritmo nuovo e privo dell’atto consolatorio. I paesaggi hanno il
raggio luminoso ed il profumo della semplicità, mentre i personaggi scorrono in
un arcano ordine naturale, svelato alla irresistibile sollecitazione esistenziale:
“Hai steso la tua mano/ sulle palme cadenti,/ gli esseri racchiusi/ dal tepore
di esistere/ hanno rannicchiato la loro vita/ nell’intimità della loro coscienza./
Poi hai ritirato la tua crosta di smalto/ ed hai lasciato essenze di pino più
acute/ sui calici avvolgenti il silenzio./ La fine ritorna sul mare/ che vede
uccelli errare per il cielo/ stanchi/ in attesa di potersi posare” (Tramonto). – Ottimo conoscitore del
gioco rapido del verso Pardini costruisce il disegno completo della sua visione
narrativa. Non va trascurata la lettura dei numerosissimi interventi critici
che arricchiscono il volume con abilità ed armonie varie (Antonio Spagnuolo, poeta,
critico letterario, saggista, 09/03/2013).
Su
Nazario Pardini
I
miti che verranno
Dalla silloge inedita I canti dell’assenza
Questa rivisitazione del mito, da parte
di Nazario, apre il cuore: voglio dire che il poeta eleva un canto che è un
inno alla vera speranza. Ma chiediamocelo: di cosa si nutre la sua aspirazione?
Si ciba, appunto, di nuove-remotissime divinità. E qui sta - a mio modo di
vedere - la grande valenza icastica di questa lirica, di questo moderno poema:
sta in ciò che percepisco come senso della ricreazione, del rinnovamento; dalle
radici però, dalle loro più profonde propaggini. Certo (concordo con
Balestriere): è la descrizione di una palingenesi quella che, alla fine, risulta;
una palingenesi rigeneratrice che - in quanto tale - deve, prima, ripulire,
mondare perché, "placati" da una Natura incontaminata, tornino gli dèi
a rivedersi nell'azzurro dei cieli e dei mari, nel verde dei boschi, nei canti
degli uccelli, nella fusione delle armi per l'acciaio della pace. Oh no, non è
l'Arcadia!: è la Terra come sarà, come forse è stata ad ogni sua rinascita,
come sono certi che sarà i poeti: quelli autentici, che aprono il cuore
all'uomo (Sandro Angelucci, 09/03/2013).
Considerazioni
su
Nazario Pardini
I
miti che verranno
Dalla silloge inedita I canti dell’assenza
Questo
prodotto poetico di Nazario Pardini affonda le sue radici in una forte
aspirazione a una realtà umana più nobile ed elevata, più degna e trasparente,
insomma in un desiderio di catarsi o di palingenesi. E, in quest'operazione, il
poeta convoca liricamente le divinità del mondo antico affinché contribuiscano,
ognuna per la propria parte, a creare un'età aurea, cioè una realtà più degna
di essere vissuta, con buoni governanti (Giove), senza guerre( le armi fuse di
Marte), con la rivalutazione della vita semplice dei campi e dei prodotti
naturali (Cerere), con la vita serena di animali e piante (Diana che protegge i
cerbiatti), con il mare calmo e terso a rispecchiare il cielo (Nettuno), con
puro e vero amore (Afrodite) e, infine, con la pace interiore (Irene) che
sovrintende ai rapporti tra gli individui e tra i popoli.
Aspirazione umanitaria – questa -
non vaga né velleitaria, perché reca dentro di sé lo stimolo al miglioramento
di animi e coscienze. C’è nel testo una dolorosa ed autentica esigenza di un
mondo migliore, rimossa finalmente la crassa rozzezza e la profonda corruzione
che pervade questa nostra realtà (Pasquale Balestriere, 09/03/2013).
Considerazioni
su
Nazario Pardini
Dicotomie. The Writer Editioni. Milano.
2013
In questa raccolta di poesie
dal titolo Dicotomie, pubblicata nel 2013, si scorge in modo ancóra
più pregnante un Nazario Pardini ispirato ed illuminato dalla nostalgia delle
cose elementari, quotidiane e semplici.
Credo
sia poeticamente redditizio, in certe ore del giorno o della notte, riportare a
nuova vita, sollecitando la memoria, questi oggetti oramai a riposo: ticchettìo
di forbici, ombrellini di carta, ruote di carri, che hanno percorso lunghe
distanze, falcino nelle mani di una madre che lavora, tramonti che lisciano i
campi; e aratri... aratri di una gioventù spersa vicino ad un albero antico in
cima a una collina:
Ci sarà' sempre
l'albero
l'albero di acacia
ad attendere un volo
di farfalla... (L'albero in cima
alla collina, pag. 25)
Questi
oggetti del passato, nella poesia di Pardini, evidenziano il rapporto tra
l'uomo e la terra e diventano la lezione più importante per il Nostro poeta.
Una lezione tratta dall'usura che le mani hanno inflitto alle cose, un
insegnamento che conserva un pathos capace di infondere quel fascino
umano o forse "umanizzante di sensibilità" che ancora ha valore nella
realtà di questo mondo.
Senza
cadere in un soliloquio morale, Nazario Pardini mette poi a confronto questa
realtà-verità coesa alla semplicità della vita contadina, con la
realtà-mistificata del rutilante benessere dei nostri giorni. Un benessere tra
persone che (si lanciano sguardi, le borse, i vestiti i paletot (Per strada - pag. 39))
transitano nel brusìo delle strade tra volti di gente che passa e quasi si
sfiora nelle "vasche" dei centri commerciali indifferente e
ammutolita; talvolta distratta, anche, dai fatti di violenza, perché, come dice
Pardini, sulla strada ancora c'e' guerra:
C'e'
guerra si ritorna;
e un
botto deflagrante irrompe attorno:
dei
ragazzi violentano la vita
per
qualcuno in dormiveglia con in mano
l'immagine
di un Cristo Salvatore (Sulla
strada c'e' guerra, pag. 33).
A questa condizione di apatia
relazionale che tende a scadere, se così si può dire, in una patologica deriva
di coloro che violentano (inconsciamente) la propria vita ed inconsapevolmente
anche quella di altri individui, il Nostro contrappone l’azione patriottica di
giovani ragazzi che, in passato, hanno combattuto una guerra per la libertà
della Patria:
Morirono
brandendo una bandiera,
venivano
dai luoghi piu' lontani,
lasciando
a casa mogli, e terre incolte...
le
loro tombe vogliono rispetto
le
loro tombe gridano e pretendono
di
non essere cumuli di polvere
contenitori
d'ossa senza nome (Per i
150 anni dell' Unita' d'Italia, pp. 31).
Il tema principale dell'intera
silloge, il leit-motiv, resta comunque il rapporto dell'autore con la
natura la cui bellezza inonda gli occhi di meraviglia, anche ai giorni nostri;
basta semplicemente vedere ed ascoltare la sua musica. La storia di Beppe ne
intona il canto con una vicenda umana, educata e cortese; Beppe non è diventato
un "cittadino"; è rimasto contadino e la sua semplicità equivale alla
gioia vitale che brilla sulla terra!
Amava
quella terra. La campagna
lo
riempiva di gioia. Era la vita.
Quand'era
solo in mezzo ai suoi raccolti
non
chiedeva di piu'. La mattina
indossava
i suoi stracci e al primo sole
prendeva
lo stradone per i campi.
L'accompagnava
un'alba d'erba nuova
che
usciva in fondo al monte a discoprire
la
vastità del cielo. Sprigionava
il
nascere fecondo della vita
collo
sfrecciare d'ali già veloci
al
primo accenno di luci, e diffondeva
il
sentore dei campi che si sposava al vento (Beppe, pag. 87).
Queste sono poesie della
memoria; poesie ispirate dai ricordi di un tempo vissuto a contatto con
l'innocenza di chi ha lavorato nei campi. Poesie che offrono idilliaci scenari
di una vita paesana guadagnata con la fatica di un onesto lavoro. Una passione
che non ha bisogno di atti sconci per cogliere tutto il piacere dell’esistere.
E il
Nostro riesce a seguire queste vicende zeppe d'umanità, trasferendole nel ciclo
inesorabile delle stagioni, con metafore che s'innescano e si susseguono in
colori e suoni della propria esperienza e con intonazioni di rara bellezza:
Se
questo mio autunno vorrà
attenderò'
sia fertile il terriccio
che
nutre la mia anima. Su quello
innesterò
di nuovo i semi sparsi
e
ritrovati. Credo che cresceranno
e
torneranno in fretta fusti snelli,
a
un'aria un po' più' mite.
Spero
solo in un albero folto ed affollato
di
freschi giovanili, proprio la',
sotto
quei freschi,
voglio
tornare a vivere (Ora
e' il tempo – pag. 57).
Nella seconda sezione di Dicotomie dal titolo D'amore di terra
e di mare (anni 1980-1990), si conferma l'idea iniziale di un cliche'
che aggiunge ai luoghi della memoria intime meditazioni e confidenze:
Delia
e i tuoi sorrisi,
Delia
le vesti bianche,
Delia
i tuoi occhi cielo
e la
pelle chiara
e la
paura vergine,
mia
Delia,
quando
correvi sola.
Vibravano
le cime nell' azzurro.
T'accompagnava
un canto,
su
per un manto verde,
dove
si perde ancora il tuo sorriso,
ed
il mio viso a stento,
ritrova
bianche perle
ai
bordi della vita (A
Delia - pag. 94).
Nella distrazione del
quotidiano, il dolore e la solitudine (una solitudine assordante) emergono dal
profondo; e visioni, forse, dettate dalla disillusione, si rivelano in: siamo sperduti nel cielo su un corpo senza luce... (Solitudine, pag.
120). Un dolore che allude alla morte ed attinge dal dubbio nichilista (tanto
caro ai poeti esistenzialisti) l'immanente concretezza della nostra nullità.
Dolore in dicotomia con la forza inquieta del mare, con i suoi moti perenni e le
onde sfuggenti dei giorni. Giorni finiti ed abbandonati (forse feriti), come
dice il Nostro, sul grembo della sera. Ma il grembo della sera è come
una madre; la sua presenza rigeneratrice e protettrice reagisce colla luce del
mattino. Questa luce può essere sogno, utopia, o amore che s’invola ancóra con
le sue ali? A dircelo è sempre il poeta che offre a quell'alba l'incantesimo
del chiarore; e la sua voce... diventa poesia:
Il
mare
annulla
la morsa della notte
e
l'alba nasce
là
dove pasce il cielo,
là
dove il gelo non arriva mai (L'alba, pag. 139).
Alla fine del testo un nutrito
apparato di note critiche. Sono davvero tante le citazioni che fanno da cornice
alla silloge in una vera trasposizione antologica-digitale, perché, come tutti
sanno, Nazario Pardini è anche un blogger. E il suo blog, Alla Volta di Lèucade,
accoglie e propone notizie letterarie e qualificate opere di autori; e
serve, anche, da "stimolo" per chi, oggi... ancóra crede... nell'arte
della poesia e nella sua saggezza d'impegno civile! (Miriam Luigia Binda, 07/03/2013).
Su
Nazario
Pardini
Dicotomie. The Writer Edizioni. Milano. 2013
Si può dire che ormai Nazario
Pardini si presenta come uno dei poeti di grande e notevole spessore del
secondo Novecento italiano. Ciò che colpisce di primo acchito è la sua capacità
espressiva rigorosamente sintetica che ha conservato, delle prime opere, la
schiettezza e l’incanto stilistico, oltre che l’efficacia di una fervida creatività
e fantasia. La sua poesia è profonda, illuminata, incisiva con un nitore e una
fluidità eccezionali. Si tratta davvero di un libro diverso, insolito e
stupefacente, il suo Dicotomie perché
fuori dagli schemi, nonché diverso anche dai suoi precedenti. Dunque, ritengo sia l’opera della piena
maturità, il clou della sua attività
poetica, incardinata nel senso della vita di cui ha percorso ogni tratto di
strada, ogni sentiero impervio, ogni segmento vitale e ogni morte del passato,
tra interiore ed esteriore, tra sacro e profano. Il poeta è perfettamente in
sintonia con quell’idea di “poesia onesta” di sabiana memoria, una parola che
non sia artefatta, arzigogolata e non si compiaccia del proprio potere magico
che pure ha a iosa, ma che aderisca alla vita, all’idea di onestà del
linguaggio, in una prospettiva storica e umana che ne contenga principi
spontanei e linearità, visione della realtà e condivisione con gli altri. In
questo libro Nazario Pardini raggiunge la perfezione senza nulla perdere in
termini di fascino, d’eleganza della scrittura. Il poeta possiede il carisma
come strumento di suggestione poetica, vi si evincono precisione d’immagini,
testi memorabili e folgoranti. Sufficienti pochi versi per capire come l’autore
sappia coniugare alla perfezione tutti i capitoli della sua storia con estrema
semplicità, con sofferta e matura sensibilità emozionale, consegnandoci
spaccati di vita e di memoria inossidabili. La poesia di Nazario Pardini è
intessuta di nostalgia, si respira in abbondanza una diffusa serenità, in
atmosfere calde e suggestive:
…
non profumano più quei bocci bianchi;
ci
sono uccelli a branchi
che
roteano largamente sui detriti
dell’ingordigia
umana.
L’accento viene posto con
lucidità, ma anche con tenero distacco, con sensazioni e pensieri che si
avvalgono di un linguismo chiaro, nitido, semplice, raffinato che possiede la
grande capacità di testimoniare sul piano letterario un livello che salta
all’occhio, per la grande compostezza del modulo espressivo, la trasparenza e
la levigatezza del verso. Segno di grande maturità e autentica vocazione, voce
limpida che sa giungere direttamente al cuore del lettore:
Facemmo un ombrello di carta e la sera
ci avvicinò con l’aria
seviziata dai guizzi del tramonto.
Restammo assieme a lungo
sotto il battito
di quella volta fragile.
Poi il silenzio
di me che non sapevo il giorno,
di te che ti affidavi a sera
delle parole al volo,
ci cullò quasi vestito
dei fremiti del mare.
Andare, andare era il tuo sogno.
Al semaforo un emigrante lavavetri
cercava tra i colori delle case
un qualcosa che portasse al suo paese.
Anche il pensiero poetante illuminato
dalla luce spirituale è un tratto distintivo di Nazario Pardini: i toni
epico-lirici sono pervasi da una tensione orfica e di un trasfondere di
coscienza che si evince e si individua come autentico e metamorfico coacervo di
storia, che indaga il tempo e gli eventi, l’umanità e la divinità
dell’universale che non si limitano a descrivere momenti solo alti, ma va al di
là, oltre la ferita umana, oltre la fatica esistenziale per rivendicare un po’
d’infinito, quantomeno, la sensibilità di un “perdono” a qualche nota stonata,
a qualche rievocazione di silenzio trafitto, che evidenzia e mette in luce il
pianto e il dolore universali, tra i riconoscibili segni di questo ottimo
poeta. Insomma un libro che c’è, è presente, si fa riconoscere, raggiunge note
alte, armonizzandosi alla coscienza planetaria. Si presenta carismatico col
segno preminente della pietas, tra
gli aneliti estremi del perdono che si configura come immagine di un simbolismo
misterico assoluto che pare redimere e del quale tutti ne costruiamo la
spiritualità e i sentimenti, umanizzandone solitudini e assenze e aprendo il
cuore alla bellezza del creato. Superlativi ad es. questi versi in memoria
della madre:
Non di rado,
alla sera, il tramonto si gonfiava
per toccare coi suoi colori d’oro
la mota di quei solchi. E mia madre
si stupiva davanti a quei colori,
davanti a quella volta iridescente.
Con il falcino in mano, e il volto stanco,
ammirava, stupita,
quei giochi del tramonto sopra il campo.
La straordinarietà della poesia di
Pardini consiste nel voler sottrarre la bellezza della natura, del sogno, del
mito agli annichilenti artigli del tempo, alle incidenze delle scoloriture e
recuperarle alla vita, limitandone l’entropia e la corruzione, prolungando fin
dove possibile le accensioni sublimi delle sue cromature, dei suoi riverberi,
fermandone le note essenziali in atmosfera d’anima, con la struggenza
ineluttabile e tragica della partecipazione, attraverso il sortilegio del
ricordo o di una parola intensa e metafisica che possa limitare i danni della
sua autodistruzione nei correlativi analogici oggettivi di eliotiana memoria
(Ninnj Di Stefano Busà, scrittrice, poetessa, critico letterario, 15/04/2013).
Su
Nazario Pardini
Dicotomie. The
Writer Edizioni. Milano. 2013
Nel profondo
coinvolgimento emotivo e nel piacere intellettuale che la lettura dei versi di
Nazario Pardini raccolti nel volume “Dicotomie”
mi ha procurato, desidero aggiungere, alle tante prestigiose note critiche, le
mie amichevoli parole a commento. Il dettato poetico disvela uno spirito
vibrante di passione, dolore, sentimento. L’Autore attinge dall’unica fonte in
grado di far sgorgare il vero canto: il cuore. La dedica in esergo “A mio padre e a mia madre che hanno immolato
la loro vita sull’altare dell’amore” permea tutto il volume di sublime pietas, incancellabili memorie,
speranze, umana civiltà e inciviltà che, pur fra le stridenti ambiguità
contemporanee, restano incancellabili nell’anima. Una Musa, quella di Pardini,
che freme, soffre, sboccia nei giardini del reale per decollare verso arditi
approdi dove convertire, forse, in gaudio le lacrime.
Non
saprei dire quale dei componimenti sia il migliore: tutti possiedono una nobile
orma di purezza, schietta ispirazione, liricità, raffinato labor limae, impronta che sanno dare alla proprie opere soltanto i
grandi scrittori e gli spiriti capaci di risalire dal crudo materialismo verso
gli alti cieli degli ideali. E che siano ricordi di guerra sulla strada, in trincea,
miti oppure fragranti giornate di luce in una rinascente campagna, o ancora
piane azzannate vicino al mare, ombrelli di carta, barche di fuscello salpate
da “coste opposte” verso il sogno di
una “terra di pane e lavoro”,
tuttavia un “raggio scampato alla sera”
non si piegherà “agli artigli dell’ora”.
Sono immagini che sottendono inquietudini e raccontano
l’ansia del proprio e dell’altrui diverso destino con densa spiritualità, libertà
ed eroica meditazione: solitario privilegio dei poeti, semmai “in uno spazio vasto in mezzo ai platani”
di una campagna profumata di terra e mare “tra il chiarore di lame/ che vanno all’infinito”
e respirano “aria d’eterno”.
La
caducità dell’essere nel dualismo del “cemento
che guasta la collina” fra i “detriti
dell’ingordigia umana” e “quei giochi
del tramonto sopra il campo” s’incarna nella materialità di parole dense di
pathos, raffinatezza intellettuale ed
esperienza etica.
Il poeta
condivide luci e ombre dell’umana sorte e dei suoi misteri nel vasto universo
senza mai perdere la percezione di un originario, incontaminato stupore.
Se,
come afferma Eraclito, “l'armonia delle cose sta proprio nel perenne mutamento
generato dal polemos tra gli opposti, così le Dicotomie di Nazario Pardini celebrano la meraviglia di un'empatia
emotiva che illumina ogni opacità del cuore. E nell’intimo tormento di un
consapevole tragitto terreno, quando più forte si fa il bisogno di confortarsi
dai colpi improvvisi dell’esistenza e di proteggersi dal freddo delle bare, “in qualche luogo… l’alba nasce… là dove il
gelo non arriva mai” (Daniela Quieti, scrittrice, giornalista, critico
letterario, 10/04/2013).
Su
Nel regno delle Eumenidi
da Alla volta di Lèucade.
Baroni Editore. Viareggio. 1999
Nel testo Nel regno delle Eumenidi, tratto dal
libro Alla volta di Lèucade, mi
appare un Pardini "classico"; è sicuramente il più mitico e, per me,
il più complesso. Questo Pardini immerso nella profondità "leucadiana"
usa un simbolismo della forma mitologica che si manifesta in specifiche
immagini psichiche e si narra nell'anima (quindi un linguaggio che non può
essere distorto dalla sovrapposizione di quello concettuale). Questo Pardini
del mito usa gli universali dell'immaginazione e degli archetipi!!! Quindi cosa
dire di piu'... posso solo intuire queste forme e seguire, come posso, il suo
viaggio.
Tu lo conosci vero? Ogni tanto fugge dalla mitologica Lèucade e fa qualche giretto al lago,
nelle campagne e sulle montagne della Lunigiana, va a fare la spesa con l'ipad,
ascolta la musica, anche quella pop, frequenta convegni e premi mondani, e
poi... viaaaaaa ritorna nei suoi luoghi cari, al tempio di Lèucade (Miriam Luigia
Binda, poetessa, artista figurativa, saggista, 22/04/2013).
Su
Nel regno delle Eumenidi
da Alla volta di Lèucade.
Baroni Editore. Viareggio. 1999
In questa classica
composizione (Fra mito e poesia), il
mito appare nella sua essenza eterna (eterna, per cui sempre attuale), al di là
delle contingenze geografico-storiche che sembrerebbero legarlo a tempi e a
luoghi del passato. In realtà, non c'è nulla di più presente del mito: quello
sorgivo ed autentico, non quello favolistico e ripetitivo. Lo comprovano queste
Erinni, giustiziere terrifiche, capaci di trasformarsi in dolcissime Eumenidi
non appena l'uomo riesca ad evocare e a comprendere la gentile sete di
giustizia e d'amore da cui sono animate. Dedico all'amico Nazario questi versi,
tratti dalla poesia che s'intitola L'ombra,
dal mio Ver sacrum:
I mostri che si svegliano
nell'ombra
con ghigni rabbiosi ed ululati
e stridore sinistro di catene
sono angeli ribelli all'oblio,
bambini imbavagliati e
allontanati
che vorrebbero giocare con noi (Franco Campegiani, scrittore, poeta, saggista, 22/04/2013).
A proposito di Adriade…
da
Nazario Pardini
Si aggirava nei boschi una
fanciulla. Edizioni ETS. Pisa. 2000
(Vieni a parlarmi, Adriade dei querci,
esci da quegli incavi che nascondono
la tua vergine e superba nudità)
Driade è
la Ninfa dei boschi, la ninfa della terra, una figure della mitologia greca, espressione della forza
rigogliosa della Natura. Eterna e sfuggente. Parlarne poeticamente potrebbe
essere inteso come operazione culturale nostalgica o invito a una intrigante
visione filosofica- ecologica. Ma il poemetto Adriade di N. Pardini è altra cosa. Pur nella felicità e facilità
della lettura è un testo veramente complesso; si muove con raffinate eleganti
immagini di sapore mitologico sul piano estetico culturale e si innesta nella
storia di cui la sua cultura è permeata ; penetra così nella misteriosa vicenda
umana per individuarne il senso, il significato eterno. Suggerisce, evocandolo
con l’andamento musicale della favola, l’incanto della natura primigenia, fuori
dalla storia, che vive per sé, di vita propria, in un tempo fuori dal tempo,
nell’immagine della ninfa perfetta e senza mutevolezza, il volto tinto appena di rosa, illuminata dal
sole bianco, mentre i fiori d’aprile riflettono la luce impalpabile di
perla e d’argento. Immobili eppur perfetti: è il mondo dell’Arcadia, l’Eden
sognato come potevano farlo i nostri grandi Umanisti. È la perfezione senza il
tempo, senza l’uomo, la Natura non contaminata dalla Cultura. Nel paesaggio
immoto fa irruzione l’Eros, la
storia. È bello il giovinetto, vivo, forte, ricco e splendente, mai veduto
prima, vitale e in comunicazione con gli esseri naturali che al suo sguardo ed
al suo dire, affascinati ed ebbri, vivevano nuova vita. Latte e miele a
nutrimento: il paese della felicità così contaminante e travolgente che la
bella Adriade tutta rosa nella sua perfezione ne viene rapita e la vita
vigorosa si diffonde dal suo corpo immortale alla natura, la quale obbedisce
partecipe al suo giovane sospiro, che si perde in quello del giovinetto felice.
È Poesia. E il suo pallore si fece di rubino. Fremito e ricerca traboccante di
sentimento da condividere. La favola si dilata, si rinnova, si colora, vive e
diventa storia. I colori dell’amore travolgente cambiarono quelli rosati della
perfezione e divennero gioia e passione dirompente, distruttiva. Eros scopre la potenza del suo istinto,
la passione immemore di calma, l’ansia del possesso, il sangue senza risparmio.
I fiori portatori di poesia frementi inorridiscono: la natura viene vinta dalla
forza, dall’umana storia: l’eterna storia di ingordigia sfrenata, legata al
tempo e allo spazio. E col tempo il divenire si fa sempre più imperfetto. La
vecchiaia triste allontanò l’eden primigenio.
L’autunno sconosciuto devastò l’armonia e lasciò i rami nudi e piangenti.
Questa non è più la storia della bella giovane innocente Adriade. È storia
umana gravida di pianto. “Poesia” suggestiva, elegante e colta e riflessione
filosofica alimentano il bel poemetto. Canto lirico davvero felice (Maria
Grazia Ferraris, scrittrice, poetessa, critico letterario: “A proposito di Adriade…”,
06/05/2013).
Adriade
(ovvero una fanciulla di nome Natura)
(Vieni a parlarmi, Adriade dei querci,
esci da quegli incavi che nascondono
la tua vergine e superba nudità)
Si aggirava nei boschi una fanciulla
dai capelli disciolti sopra un
volto
tinto appena di rosa. Non aveva
colore il cielo né toni mutevoli
in quel tempo. Albeggiava sempre uguale.
Dall’alba al suo calare, sempre;
all’ora del meriggio e della sera.
Fendeva con gli steli color
luce
le primule, i tarassachi e le viole
un sole bianco che erano di perla.
Persino argentei i frutti, i tigli e i
pini.
Ma apparve poi nel bosco
un fanciullo splendente
di bellezza e
fattezze
quali avrebbe poi vedute il Partenone.
Essere nuovo là. Mai prima apparso
nei ricami madreperla della
flora.
Sedeva sulle rupi,
cavalcava puledri,
parlava con le piante,
con le bacche degli ebbi e con i pesci,
incantati dagli sguardi e dal suo dire.
Solo il latte dell’aria e il cereo miele,
che il sole gocciolava con i
raggi,
gli nutrivano il corpo. La fanciulla
dal volto rosa (l’unico colore)
restò rapita da suo sguardo giovane;
lei divina ventilava il respiro
tra le fronde e sopra le acque. E i butti
nuovi
germogliavano ai tocchi delle mani e dei sospiri.
Pura le sfioravano
lunghi capelli i glutei, le caviglie
ed il docile dorso; e la sua bocca
effondeva la linfa necessaria
per nutrire le vene di quel regno.
Ma lei mirava i crini, i gesti e i passi
del vergine fanciullo e col pensiero
seguiva i movimenti del suo corpo.
Ascoltava le frasi che diceva sopra i petali
e poesia erano i fremiti al cuore della ninfa.
Il suo pallore si fece di rubino.
Il cielo traboccò sui declivi e sui boschi.
L’argento restò vivo a tremolare
con la luna nel mare, perché
mai
luce nera vincesse sopra i chiari.
Non brillò più da solo:
il sentimento ch’ella provò
finì dentro le arterie dell’aria e della terra
ed i colori d’amore si distesero ovunque.
Ma fu tristezza e una pazzia nefanda
vinse la gentilezza dell’Adone;
distrusse piante, ruppe ogni bellezza.
Fu spinto a profanare
quelle immense ricchezze.
Dai bei luoghi in cui visse felice
carpì senza risparmio i beni.
Uccise e devastò. Recise e tormentò.
E con le lame arrivò fino alle arterie
della pallida ninfa. Il caldo
sangue
si sparse tra le piante, sopra i germi,
nei rivoli, sui greti, sopra i monti,
sui roveti; appassirono le rose.
I gerani lasciarono le mani sopra l’erba.
Non ebbe più purezza né la terra né l’aria.
E giunti alla stagione che recise le vene,
i suoni e i sentimenti di tristezza
restarono a invecchiare. E ad ogni autunno
le spoglie venate di sangue
cominciano a fremere in cielo
e cadono al suolo.
Lasciano nudi i rami.
Il loro pianto
cessa soltanto al tempo in cui la ninfa
s’innamorò di Adone e nuova gemma,
lasciando nelle arterie il rosso
sangue.
Su
Nazario Pardini
Adriade
da
Si aggirava
nei boschi una fanciulla. Edizioni
ETS. Pisa. 2000
Driade, la fanciulla che si
chiama Natura, è in fondo l’equivalente dell’Eva edenica, ben diversa dall’Eva
uscita dal Giardino, dove lei viveva con Adamo in armonia. Identica cosa può
dirsi di Eros, il “fanciullo
splendente” di cui parla Pardini: un essere di pace, signore e custode
dell’Eden, secondo il Genesi, capace di parlare “con le piante/ con le bacche
degli ebbi e con i pesci” (così Pardini). Un essere, dunque, questo fanciullo,
ben diverso dal feroce distruttore in cui si trasforma una volta espulso dal
Giardino. Dice il Genesi che nel Paradiso terrestre Adamo ed Eva si amano
liberamente senza accorgersi di essere nudi. Nel venire meno di questa
innocenza, nel nascere ossia della morbosa cupidigia, consiste la fine della
comunione edenica e l’inizio della dannazione umana. A ben guardare, pertanto,
l’opposizione di cui ci informa Pardini, in questo poemetto che definire
mitologico sarebbe assai riduttivo, si consuma tra Natura e Cultura, anziché
tra Maschile e Femminile, come sarebbe banale e facile argomentare.
Con esatto vaglio critico Miriam
Binda ricorda che Evelyn Pickering (De Morgan), autrice del dipinto posto nel
blog a mo’ di illustrazione del poemetto citato, va storicamente inquadrata
nella poetica dei Preraffaelliti: in quel Simbolismo
mitologico, ossia, e in quel Primitivismo,
che costituisce l’antefatto del vuoto metafisico dechirichiano, ma ancor prima
del nulla funereo bockliniano. In realtà, l’intera gamma delle poetiche
contemporanee che si rifanno al Simbolismo
(Baudelaire in prima fila) resta legata al tema nichilistico, in quanto
considera i simboli totalmente sepolti nell’universo mentale umano, senza
sospettare che quello stesso universo possa essere aperto al più grande mistero
dell’essere universale, accessibile solo per vie simboliche. Intendo dire che
nell’universo dell’uomo non esiste soltanto la realtà della maledizione
storico-culturale, fatta di contrapposizioni brutali (nella fattispecie il
maschile e il femminile in lotta radicale tra di loro), ma anche il ricordo di
una realtà precedente – per l’appunto edenica – in cui il contrasto è fonte di
indicibile armonia. Ed è a tale realtà, sempre riconquistabile e a portata di
mano, che a me sembra faccia riferimento il felice poemetto pardiniano, con
quella tensione verso l’armonia che è anche un caposaldo di una vetusta
filosofia orientale: il Taoismo, con
lo stretto interscambio dello Yin e dello Yang fra di loro (Franco Campegiani,
filosofo, poeta, saggista, 06/05/2013)
Su
Nazario Pardini
Adriade
da
Si aggirava
nei boschi una fanciulla. Edizioni
ETS. Pisa. 2000
Evelyn
Pickering nel 1887 sposò un artista-ceramista
William De Morgan dal quale prese il nome d'arte (Evelyn De Morgan). Tra le sue
più famose opere: Driade (o Adriade), SOS (contro le inquietudini della guer-
ra), Flora, La speranza nella prigione della disperazione.
L'immagine del bellissimo quadro, esposto sul blog - Alla Volta di Leucade - rappresenta
Driade, la Ninfa dei boschi o fata della terra. Il bellissimo poemetto del
poeta Pardini, che accompagna il quadro di Evelyn, intona il tema della brevità
e la precarietà dell'umana vita ma con intonazioni che fanno appello alla
sapienza di Amore capace di far nascere e rinascere/nuove gemme nel rosso sangue/. Con questa poesia si coglie immediatamente
una specie di ammonimento: a non amare ciò che è il nostro male, a non
aspirarvi e a non affliggere l'animo con un'angoscia non necessaria che
tormenta e distrugge la bellezza della terra. Con l'inizio della guerra
anglo-boera, e più tardi nella prima guerra mondiale nel 1914, Evelyn De Morgan
usava la sua arte per esprimere i timori della violenza e della carestia. Un
dipinto significativo è SOS nel quale
l'artista esprime un messaggio decisivo contro la guerra grazie anche alle sue
credenze storiche e mitologiche. Si vede infatti nel quadro una figura angelica
sopra uno strapiombo acuminato da rocce vigorose in mezzo all'oceano,
minacciata da draghi mitologici e divoratori. In genere, per questa autrice, la
figura rigeneratrice ed evocatrice d'ottimismo e pace è quasi sempre
rappresentata dalla donna o fanciulla. Tra le frasi più famose di Evelyn figura
sicuramente quella che scrisse da ragazzina sul suo diario: "All'inizio di
ogni anno dico 'farò qualcosa' e alla fine non ho fatto nulla. L'arte è eterna,
ma la vita è breve ". Questa dichiarazione illustra le tematiche della sua
vita adulta e la carriera di un'artista molto originale e pre-raffaelita - morì
il 2 maggio del 1919; la sua produzione fu esemplare e molto
proficua, anche per l'uso del colore abbondante e ispirato ai colori naturali
degli elementi fisici - aria, fuoco, acqua, terra (Miriam Luigia Binda, poetessa, artista
figurativa, saggista, 04/05/2013).
Su
Nazario Pardini
Adriade
da
Si aggirava
nei boschi una fanciulla. Edizioni
ETS. Pisa. 2000
L'intuizione di "Adriade" fa del poeta Pardini un fiore all'occhiello della Poesia alta contemporanea. Vi è dentro disseminata e composita da un alone di mistero inscindibile la morfologica attesa dell'uomo escatologico. Un senso di smarrimento cosmico, un panismo eccelso entro i quali sono bene inquadrati i bisogni dell'uomo moderno, in bilico tra l'incanto edenico dell'anima e la materia corrosiva dell'assenteismo e del nichilismo contemporanei. Un testo, quello di Pardini, che da solo centra valori universali, ed è compiutamente risolto come un'opera completa... Complimenti vivissimi (Ninnj Di Stefano Busà, poetessa, saggista e critico letterario, 07/07/2013).
Le "Dicotomie" poetiche di Nazario Pardini
Dicotomie. The Writer Editioni. Milano. 2013
Perché questo titolo così particolare per un libro di poesie? Particolare e
perentorio, aggiungerei, diverso certamente dalla maggior parte delle
pubblicazioni poetiche, per le quali l'autore generalmente usa come titolo una
delle poesie della raccolta, magari quella più significativa, per lui, o quella
che più delle altre racchiude in sé il progetto comunicativo dell'intero libro.
Ed è giusto, perché il titolo di un libro, che sia esso un romanzo, un saggio,
una raccolta di poesie o altro lavoro scritto, deve in qualche modo richiamare
l'attenzione sul contenuto, ne deve essere il faro attraente e non disperdente,
ne deve essere il nocciolo, il nucleo, come il protone centrale dà significato
e identità all'atomo e alla materia.
Dicotomie, dunque, è un titolo che fa eccezione, pur nella sua eccellenza
ed eleganza verbale. Non è il titolo di una delle poesie inclusa nel libro, ma
è comunque vero che il lettore attento (e amante della poesia, di una poesia
niente affatto superficiale e blanda, bensì di una poesia di alto spessore
qualitativo, sia per contenuti che per modalità espressive...) saprà
individuare nel lungo e interessante filo poetico che l'autore, Nazario
Pardini, tesse, i nodi, le coincidenze, i rimandi e le fondamenta comuni che
uniscono una poesia all'altra. C'è infatti un cemento sostanziale di fondo, in
questo libro, e parlo naturalmente della sezione dedicata alle poesie (il
libro, come vedremo, è arricchito da altre sezioni letterarie), che riesce a
tenere insieme gli impeti quasi deflagranti di un dire poetico a 360 gradi,
come suol dirsi, e che accolgono le esigenze proprie del poeta a voler
considerare il tutto osservato e osservabile anche se separato e lontano
vicendevolmente nel tempo e nello spazio. Da qui le dicotomie di Nazario
Pardini, che non vogliono esprimere, secondo me, delle nette e categoriche
divisioni o visioni del mondo in due parti opposte, una positiva (bene) e una
negativa (male), bensì vogliono essere delle continue "oscillazioni"
tra due o più poli di idee e contenuti, che nell'insieme si integrano e si
completano:
Ora è il cemento che guasta la collina
e di gran corsa
l'odore di benzina. Su quel colle
non profumano più quei bocci bianchi;
ci sono uccelli a branchi
che roteano largamente sui detriti
dell'ingordigia umana (da: "L'albero
in cima alla collina", p. 25).
È solo un esempio, questo brano, e ne possiamo trovare tantissimi altri, di
come già all'interno dei testi sia possibile trovare alternanze dicotomiche che
separano, in questo caso, la natura (l'albero in cima alla collina, gli uccelli
a branchi) dall'opera disgregante dell'uomo (l'odore di benzina, l'ingordigia
umana).
Si avverte dunque una continua tensione, nei testi "dicotomici"
di Nazario Pardini, uno stiramento, una elongazione, se è lecito usare questo
termine tecnico, che tuttavia mantiene intatto il corpo poetico di ciascuna
lirica, non provoca sfilacciamenti estremi o mancanze improvvise di territorio
poetico. La poesia di Nazario Pardini è infatti un dire circolante e continuo
tra quei "poli" referenziali di cui accennavo più sopra: la memoria e
i ricordi, ad esempio:
Si faceva la guerra di trincea
nel fango delle veglie o al solleone...
C'è un sorriso
sul volto della Storia ed il destino
gioca con noi e cambia il suo cammino (da "La trincea",
p. 30);
e poi l'umanità:
... Allora esisto. Esisto veramente.
E questa è vera gioia. Quel che provo
è il potere dei sensi che traducono
il bello delle cose in sentimenti,
anche se vani, prova della vita (da "La prova della vita",
p. 58);
e poi ancora la natura:
Mi trovo qui davanti alla tua piana
frammentata da scaglie ed azzannata
da becchi di uccelli voraci
ed insaziabili. Mare! Mio mare!... (da "Colloquio con il
mare", p. 61);
e ancora:
Pinete,
sempreverdi alcòve
di contorno al mare;
il profumo acuto
del pino e del moreccio
si fanno più forti in autunno... (da "Pinete",
p. 113).
In questa circolarità di temi (che denota una profonda sensibilità umana e
sociale da parte dell'Autore, anche e soprattutto nei confronti del mondo
abitato e della natura, nel trattare con esiti poetici davvero alti la summa delle
sensazioni, delle immagini, degli stati d'animo, delle riflessioni, degli
slanci di rammarico ma anche di gioia, che troviamo disseminati in tutto il
percorso lirico del libro), Nazario Pardini propone al lettore il suo progetto
poetico, che è completo, che è originale, che è valido sotto tutti gli aspetti
e modalità che fanno di un libro di poesie qualunque un ottimo libro di poesie,
riferimento importante in questa piazza poetica attuale, dove il qualunquismo
letterario la fa purtroppo da padrone.
Il linguaggio poetico di Nazario Pardini è molto interessante: è lirico, è
diretto, a volte è colloquiale, un colloquio che è essenzialmente rivolto a se
stesso, quasi un voler accentuare nelle domande che egli si pone, nelle
riflessioni sulla vita e sulla morte, il mistero che non può esere risolto
umanamente, ma soltanto in un confronto diretto con Dio:
Ti ho posto la questione tante volte!
Questa mia vita,
questa mia vita mia che cosa è mai?...
Io la vorrei da Te, dall'Alto Cielo
la conferma che esisto per davvero (da "Esisto?",
p. 42).
Il libro è complesso, tipograficamente
gradevole e ben strutturato. Impreziosito dall'ottima e puntuale prefazione di
Sandro Angelucci, è diviso in tre "scomparti" o sezioni poetiche:
"Dicotomie", "Racconti in versi", e "D'amore di terra e di mare" (in cui
sono raccolte le liriche dal 1980 al 1990). Vi è poi una lunga ed esauriente
sezione del libro, alla fine, dove sono riportate le tantissime "Note
critiche", prefazioni e commenti vari sulla poetica del nostro Autore.
Tutto ciò fa risaltare ancora di più il prezioso messaggio poetico di Nazario
Pardini, il quale si colloca certamente tra gli autori di poesia, e non solo,
più validi e significativi dell'attuale panorama letterario nazionale (Giuseppe
Vetromile, poeta, saggista, critico letterario, 22/05/2013).
Motivazione
per
Premio Letterario Scriviamo insieme, Roma
Emerge, da questa
raccolta di versi, tutto il mondo poetico dell'Autore: dalla descrizione
attenta dei paesaggi della natura, sentita come legame prezioso e indissolubile
all'analisi di quei "paesaggi esistenziali" in bilico tra sofferenza
e speranza, memoria del passato e prospettiva di un avvenire spesso incerto e
problematico. La padronanza stilistica ed il lessico elaborato rendono il suo
verseggiare aulico, ricco di simbologie e di raffinatezze (Commissione del “Premio
Letterario Scriviamo insieme”, Roma,
per Scampoli serali di un venditore di
arazzi. The Writer Editioni. Milano. 2012. Pp. 224, Roma, 18/05/2013).
Motivazione
per
Premio Letterario Città di Abano Terme. Abano Terme
Scampoli, Pardini definisce le liriche della
raccolta con la quale ha preso parte al Premio; e lo fa quasi a sottolineare
che si tratta di ritagli di tessuto che un umile artigiano della parola non
solo non sottovaluta ma espone al mercato rionale con la speranza che gli
amanti del bello si fermino ad ammirarli. Incassare l’entusiasmo di chi guarda
e ascolta con rapimento quelle armonie: questo si aspetta, e questo ottiene
quando la fiera finisce e si chiude l’ultima pagina del libro.
L’opera si divide in tre sezioni: Il fatto di nascere umani,
Giorno dopo giorno e Poesie ritrovate; una successione voluta, un gioco al
ribasso – lasciateci dire – perché si colga, al termine, l’essenzialità
francescana del vivere e il fatto che “nascere umani - come lui stesso sostiene – consiste nel
miracolo dell’anima”.
Nazario Pardini, poeta di raffinata sensibilità. Intellettuale
onesto dalla lunga e sicura frequentazione letteraria nonché instancabile divulgatore
culturale aperto ai nuovi mezzi di comunicazione, non ama mettersi in mostra,
preferisce schivare le apparenze e concentrare ogni suo sforzo sull’espressione
poetica.
Se oggi, dunque, lo chiamiamo alle luci della ribalta è
perché i riflettori, illuminando la delicata naturalezza con la quale la sua
mano passa sull’ordito di questi arazzi, rendano omaggio all’armonia di un
canto che ricorre all’endecasillabo, all’enjambement
e ad altre figure retoriche quali innate demistificanti corde vocali. Per
onorare una vita intera dedicata alla poesia, alla letteratura con la
competenza del Professore ma anche – certi che apprezzerà – con l’autenticità
dell’uomo di campagna, siamo estremamente lieti di conferirgli un
riconoscimento che è segno della stima nostra più limpida e profonda (Sandro
Angelucci per il “Premio Letterario Città di Abano Terme” su Scampoli serali di un venditore di arazzi.
The Writer Editioni. Milano. 2012. Abano Terme, 25/05/2013).
Su
Nazario Pardini
Recensione a Maria
Rizzi: Anime graffiate
Edizioni Corpo 12. Castelnuovo Scrivia.
2013
Da par suo,
Nazario Pardini, ha letto Anime
graffiate, di Maria Rizzi con il totale coinvolgimento dell'uomo morale in
primis, al quale, sempre, in ogni sua disamina, fa riferimento il letterato.
L'assunto (per me imprescindibile) che lo scrittore, per essere davvero tale,
non vada mai scisso dall'uomo, trova nel commento recensivo al romanzo la più
sicura ed ampia conferma. Altrimenti come si arriverebbe a scrivere: "I
dialoghi... chiedono immedesimazione...Ti dicono 'Questi ragazzi sono tuoi ragazzi...
Hai parlato con loro, condiviso. Non ti sembra vero? È così! Si sono persi
questi giovani...". E la lealtà verso di loro e verso se stesso: "Tu
non hai colpa?", si domanda; e si risponde: "Adducevi le loro carenze
scolastiche alla mancanza di volontà. Tutto lì." Già: eccolo l'uomo vero,
colui che intende il profondo messaggio di cui queste pagine si fanno promotrici:
"l'esortazione a credere - come dice lui stesso - ai valori della vita, ad
amare nonostante tutto: nonostante il potere, il tradimento affettivo, i danni
recati dagli agi del cosiddetto benessere. La Rizzi non "se la sente di
moralizzare" - sostiene - e bene fa, aggiungo, perché il suo J'accuse non potrebbe essere tanto
efficace se le acque trasparenti del fiume della sua scrittura non facessero
"trapelare dal fondo tanto pantano". Maria, è innegabile, scrive con
grande passione e a scopo catartico ma Nazario - ed a lui mi associo - le ha
dimostrato che solo una grande penna è in grado di trasmettere a chiunque un
senso così alto di sofferenza ed al contempo di liberazione dal dolore (Sandro
Angelucci, 07/06/2013).
Considerazioni sulla poetica di Nazario Pardini
Nazario
carissimo, ho passato una settimana di fuoco, perché tutte le associazioni
culturali vogliono concludere i programmi prima della fine del mese.
Quindi conferenze, presentazioni, dibattiti che mi hanno occupata e stancata.
Ma se non ho potuto scriverti ho visto da tempo il tuo blog con tutte le
notizie su di me. Mi ha commosso il pezzo sulla mia Pia. E mi ha esaltata e
inorgoglita la tua nota critica. Inutile dire che hai colto nel segno, hai
capito benissimo quello che volevo dire e mi fa piacere che l'abbia condiviso.
Poe parlava di una impostazione matematica della sua poesia. Il nostro cervello
è uno solo, e quindi è vano fare distinzioni settaristiche delle sue
manifestazioni. La poesia non è la romantica ispirazione ottocentesca, ma
impegno, fatica, lavoro, sacrificio, applicazione, letture, ricerche.
La tua
sensibilità è dimostrata dai meravigliosi libri che mi hai mandati. La tua
poesia è a ampio respiro, scandaglia nel profondo il motivo portante e lo
sviluppa, anche, in imprevisti svolgimenti. La musicalità del testo, che supera
il timbro della metrica, coinvolge il lettore e lo introduce
delicatamente nelle segrete cose. Elemento portante è l'interesse
alla natura che si amplia nell'amore alla vita in tutte le sue manifestazioni.
E la "tecnica", nel senso positivo del termine, è dissolta
nella originalità della scrittura, nella validità inventiva, nella
ricchezza dell'invenzione. Mi permetto di dire che ci sono dei punti di
contatto fra le nostre produzioni poetiche.
Ho anche ritrovato spesso il nome di
Vittorio Vettori, che mi è stato sempre generoso amico. Poiché sei laureato in Letteratura Francese,
ti allego una mia poesia che forse ti potrà interessare.
Che dire ancora? È mezzanotte e quindi
buonanotte ( non più buonasera). E grazie, grazie sincero e grato per la tua
affettuosa benevolenza (Liana De Luca, poetessa, saggista, Torino, 09/06/2013).
Su
Nazario Pardini
Luglio
da
Il fatto
di esistere. Lineacultura. Milano. 1996
Luglio
E mi giunge acuto il canto
di stridenti cicale
portato da brezze di sale
lente, affannate di calura
giù per la radura lucente;
mi trai nel solito stradone
tra spalliere bruciate,
contornate d’acre fragranza di grano,
e ancora i convolvoli agresti,
i sesami, i papaveri
sparsi dintorno:
gocce di sangue disciolte
sui fulvi vestiari
o di latte
da mammella divina cadute;
dondolìo di vespe
sulla tua fronte
tumida di sudore
sulle ore di una pigra clessidra.
Mi attendo paziente
uno spento languore
di fiori essiccati sulle reste
del tuo letale calore.
Poesia
fortemente impregnata di panismo cosmico, si avverte quasi l'afrore del grano,
il frinire di cicale tra le stoppie... una realtà che vive nel poeta come fonte
d'ispirazione e di florilegi d'inaudita potenza e valenza, perché Pardini sa
esprimere la sua calda vena terragna come nessun'altro, ha ristagni di luce la
sua parola, come la luna quando fa capolino tra gli alberi e risplende in tutta
la sua intensità planetaria. Bellissima poesia, complimenti vivissimi (Ninnj Di
Stefano Busà, poetessa, scrittrice, critico letterario, 13/07/2013).
Su
Nazario Pardini
Luglio
da
Il fatto
di esistere. Lineacultura. Milano. 1996
Sembra
incredibile che nel cuore della (in)cultura globalizzata e megalopolitana dei
tempi attuali possa esistere qualcuno, come Nazario Pardini, così
sanguignamente e visceralmente immerso nei ritmi della natura, negli abbracci
esaltanti e poderosi della Terra Madre. Non si tratta di una visione bucolica,
di una pastorelleria agreste o di un arcadico ozio letterario. No, qui c’è il
figlio della terra che rinasce nel proprio cordone ombelicale. C’è l’uomo di
sempre, l’uomo antico e l’uomo nuovo, capace di risvegliarsi, dopo tanto
torpore, nelle proprie più autentiche radici spirituali. Concordo con la Busà:
questa è una poesia “d’inaudita potenza e valenza”. Ed è veramente una poesia
nuova. Complimenti, Nazario
(Franco Campegiani,
filosofo, poeta, saggista, 13/07/2013)
Su
Nazario Pardini
Luglio
da
Il fatto
di esistere. Lineacultura. Milano. 1996
Questa lirica
(perché di liricità si deve ed è importante dire quando si leggono poesie
così), questa lirica - dicevo - è prettamente pardiniana. Lo è perché tutto,
ogni lemma riconduce al sentimento naturale - e dunque armonico -
dell'esistenza. Vorrei (se mi è concesso un suggerimento) si fermasse
l'attenzione sul verbo che esprime l'azione, il fare, la poiesi dell'uomo, ma, non di meno, quella della stessa natura. Mi
riferisco a quel "mi trai", segno - per me - di una forza
irresistibile, che trascina, appunto, lungo un cammino dove le "gocce di
sangue" dei papaveri si mescolano al "latte" caduto da
"mammella divina", rallentando l'artificioso attivismo come una
goccia di sudore che, lenta, scende sulla fronte. E cosa si aspetta il poeta?
Uno struggimento del cuore: "spento" - certo - ma non come si
potrebbe pensare: il "letale calore" - a mio parere s'intende - è
tale perché vince ogni resistenza immergendo l'anima nell'estate, facendola
"essiccare" come i fiori che, anche loro, attendono
quello stesso
"languore". Non aggiungo altro: è Luglio che ha parlato; a Luglio,
Pardini ha dato voce e respiro (Sandro Angelucci, poeta, saggista, critico
letterario, 15/07/2013).
Prefazione
a
Nazario Pardini: I simboli del mito
XXIII EDIZIONE
PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE
CITTÀ DI POMEZIA 2013
“I
simboli del mito”, si
tratta qui dell’ennesima raccolta di versi del poeta Pardini, (vincitore del “Premio
Pomezia”), che espone un lavoro di bulino, una scansione ritmica perfetta,
esperita su una poeticità sostanziale, fisiognomica, in grado di dare al
lettore il solito impianto classico, nel quale e attraverso il quale,
s’insinuano le immagini verbali e i tratti storico/simbolisti di una distensiva
scrittura.
Qui è
il mito ad essere inteso nella tessitura filosofica del poeta, che ne fa quasi
una colloquiale accensione di stati d’animo, redatti in un’orchestrazione
compositiva di particolare ispirazione.
Una
sollecitazione metrico/sintattica che è preminente e dominante nel docente
scrittore e poeta Nazario Pardini.
Vi si
riscontrano ancóra, come nel tempo passato, (ho stilato altre prefazioni sulla
sua poesia), le caratteristiche precipue della sua oggettivazione poetica, il
suo reticolato linguistico, la sua naturale vocazione a far riemergere dai
primordi della storia le figure mitiche rappresentative della classicità, come
ad es. Ifigenia e poi Semele, Giove, Dioniso, Apollo, Edipo, Saffo, Calipso
etc. Mettono in risalto la sua tendenza a scrivere versi con un corpo e
un’anima, ma sempre con intensità espressiva da terzo millennio, seppure i
miti, le simbologie inneggino al passato, gli esiti felicemente raggiunti
appartengono alla postmodernità senza fregole, senza falsificazioni, senza
orpelli, né eccessi di stampo “modernistico d’assalto” come avviene in molti
autori contemporanei che respingono <tout court> la classicità del
passato senza proporre modelli nuovi, solo per il gusto di respingere l’antico.
II
lato preminentemente fantastico è scandito con un’intensa sollecitazione
mnemorica, vi appare intenso il dettato lessicale per sensibilità e stile e si
prefigura il risultato compiutamente raggiunto, attraverso stilemi e sinergie
di varia natura. Si evincono con nitore: la forma, l’equilibrio, la misura, la
partecipazione alla ragione morale di una poesia contemporanea, pure se ne
indica le carenze dell’uomo moderno, la sua incapacità a rendersi partecipe di
quel mito, di quell’antico, che restano in disuso.
Così
termini come l’Ade, i nostri morti, i viventi prendono forma in una cornice
foscoliana di affetti e di ricordi, s’incontrano i trapassati in un
andirivieni osmotico di anime vaganti:
Escono dai marmi freddi
sulla loro terra
e tra l’odore di cera
e il fumo della notte,
tra l’esalare di rose,
di gigli ed orchidee,
parlano di affetti e di
ricordi
ai bordi dei sepolcri;
li puoi vedere:
ecco mio padre con mia madre
ed ecco mio fratello
che sorridente
per l’agognato arrivo
vola di gioia (pag.19).
Costantemente alta resta
la sua parola, sorretta da una profonda cultura e da una religiosità cosmica,
appassionata, incentrata su temi universali, sorprendentemente in simbiosi tra
solennità neoclassica e modernismo:
Restano
le anime
fino a notte fonda,
non odi parole di spiriti,
ma vedi l’aria che vibra,
l’aria che tocca le fronde,
le lievi foglie
alle soglie dei sepolcri (pag. 19).
Poesia colta intessuta di
dolente esperienza (trentennale), rivisitata in chiave “pensosa”. Ricordiamo
che Aldo Capasso si era fatto promotore
e interprete di un Realismo lirico
che aveva contagiato la metà del Novecento letterario.
Pardini ne è un emulo molto disciplinato e onesto. Il suo
verso si orienta alla rivisitazione del passato senza celebrazione, è quel che
si dice una forma lirica che si può definire classico-moderna, sempre disposta
a farsi suggestionare da immagini limpide, reperti chiari e musicalmente ben
orchestrati, ben proporzionati all’impianto stilistico, scevro da ismi di mestiere, e tanto meno da
ermetismi pseudointellettuali e devianti.
Pardini
predilige la suggestione che si apre alle vene, alla coscienza, al pensiero e
in quest’aprirsi a raggiera con tutte le note che compongono il dettato,
registra vibrazioni, enunciazioni, pronunciamenti emozionali.
Il seme germinale pardiniano si tuffa nel mondo felice
della giovinezza, predilige i toni aulici della maturità, si fa saggezza che
allevia dalla sofferenza. Il suo tessuto lirico è talmente incarnato al motivo
etico e simbolista, agli ideali di un genere letterario classico che ne risulta
un fervore catartico per tutti gli emblemi della Storia, i miti, le ascendenze,
le libertà dell’uomo “novus”. Sfilano superbe le sue pagine naturalistiche,
poiché come pochi sa interpretare gli echi terragni, i miti, la rassegnata
tristezza che coglie di sorpresa gli atteggiamenti vani dell’uomo, il suo
involucro fragile e l’indecifrabile mistero della terra. È dotato il poeta di
spiccato barlume di coscienza nei riguardi del mondo, della frattura tra cielo
e terra, che ogni sua opera s’impregna del declino inevitabile del
“guerriero”stanco, la lotta è ìmpari, il fine metafisico spesso irraggiungibile,
e allora, si lascia andare per lidi di speranza il poeta e, coglie la catarsi
fenomenica, ontologica della specie, in un empito di amore universale, di
lirismo alto, ma senza celebrazioni enfatiche, con la capacità di provare
stupore per le cose del passato. E i versi si snodano in atmosfere profonde di
abbandono, di desiderio di pace, di sentimenti “buoni”. Certo in certi tratti
la scrittura non è agevole, occorre essere iniziati alla poesia, perché il
dettato è in buona parte nutrito di una cultura alta, feconda di spunti che
sedimentano in un territorio di scavo che non è di tutti e per tutti i gusti,
ma la poesia c’è, è poderosa, salda, possente, matura, orientata ad orizzonti
che a volte disorientano per la perizia e il lessico consumato e smaliziato. Un
linguismo che non perde mai di vista l’insieme, si ferma alle stazioni giuste
per non perdere coincidenze con altre destinazioni, con altri riti, sempre
vigile agli oscuramenti, alle frane e alle rovine umane.
Il tono non è mai sapienziale, ma dotto, tutt’altro che
enfatico, perché la grandiosità del poeta sta nell’etica di pensiero, in unità
di fondo tra verità e dubbio, tra chiaro e scuro, tra la vita e la morte.
Infine, la meditazione intensa e la magìa surreale, la vitalità e l’autenticità
delle emozioni che si avvalgono di calzanti e pertinenti similitudini sono testimonianza
di questo notevole poeta (Ninnj Di Stefano Busà, poetessa, saggista, critico
letterario, Milano, 19 luglio 2013).
Su
Nazario Pardini
A colloquio con il padre. Il sogno
da
Paesi da sempre. Chegai
Editore. Firenze. 1999
Che
forza evocativa ha la poesia! Che bellezza la forza pacata e pacificata
dell’Autore che sa parlare con chi non c’è più!
Sogniamo!
E tutto sarà vero: tu mi parli ed io ti corrispondo. Manca una magia estrema…
Mi
ricorda la capacità unica di memoria (per lui mai pacificata) del grande V. Sereni.:
Con non altri che te
è il colloquio.
… E qui t’aspetto….
“Sappi – disse ieri lasciandomi qualcuno –
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici
a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e
verrà
come di là dal valico un
ritorno d’estate….”
Poesia racconto, sogno
pregno di quotidianità e suggestioni liriche quello di N. Pardini: di relazioni
affettive vive, consolidate nel tempo, incontro colloquiale, emozionante, che
apre a vertigini di sentimenti autentici, di affetti che si stemperano, si
nascondono nella serenità della distanza, nella forza della lontananza.
Un eco si fa strada alla soglia della mia memoria
emozionata, verso un‘affinità elettiva che viene dal cuore, mi stupisce, mi
cattura: è quella della voce del grande
Virgilio, là nel VI canto dell’Eneide, dove Enea incontra il vecchio padre, in
una dimensione di semplicità, dolcezza e
tenerezza senza tempo e senza mediazioni, cercata, sognata oltre che vissuta,
che pur si confronta con la realtà: la distanza tra il vissuto e il ricordo che
non muore.
O
sogno o realtà che importa, padre, io ti
rivedo, bello, fra quei marmi così
lucidi,…
Un rapporto d’amore
rinnovato che si realizza in modo nuovo in età matura.
In A colloquio con
il padre emerge la fedeltà di una vita fedele a se stessa e alle proprie
scelte affettive, - questo ci guadagna il ricordo, la conferma, in se stessi, della misura del
padre.
Si stabilisce nella rievocazione,
nel ricordo un circolo di relazione e comunicazione che è di identificazione.
Ricordo intenso, natura trepidante, terra e cielo, incontro e lavoro, pudore,
emozione e quotidianità … :
vegliare
una nottata tra i sentori d’erbale umore estivo,… sul piano dei fulvi girasoli… realtà più di un reale che non arriva a
tanto…
E la
tovaglia sui crini di gramigna. Che bel pane! Tu stacchi i pomodori e li
zuppiamo in picchiata nel sale…
Ai
bordi del sogno più avvincente: dove la realtà è più vera. La voce più dolce e
profonda.
…
Vienmi vicino, parlami, tenerezza,
-
dico voltandomi a una
vita
fino a ieri a me prossima
oggi
così lontana - scaccia
da
me questo spino molesto,
la
memoria:
non
si sfama mai…
Non
dubitare - m'investe della sua
forza il mare -
parleranno…(V. Sereni).
(Maria Grazia Ferraris, scrittrice, poetessa, critico letterario, 09/08/2013).
A colloquio con il padre. Il sogno
Baluginò il suo volto. Che lucore!
Era simile il cielo a quei mattini
in cui andavamo ad erpicare
il profumo di terra. Era mio padre.
Mi prese per la mano trepidante
e mi portò
a mirare i suoi spazi. Io non sapevo,
nella nuova coscienza, ch’era morto.
Mi apparve certamente perché stessi
sereno. Stava insieme - in un salone
immenso e somigliante vagamente
a quelli riportati negli affreschi
dei rinascenti artisti pontifici -
con persone serafiche. Una peluria
gli fluitava cadente ed abbondante
sugli omeri. Brillavano i suoi occhi
di un’altra dimensione. Stranamente
il soffitto sforava aperto un cielo
di luce biancicante: “Vorrei tanto
rivedere con gli occhi di un terreno
i nostri monti simili a puledri
rincorrersi tra i lecci ed i castagni
rutilanti ai tramonti. Vorrei tanto
trascorrere con te un tempo, pur breve,
per le cose del giorno e anche di più
vegliare una nottata tra i sentori
d’erbale umore estivo. Per esempio
nel campo dei covoni.” “Che ti prende?
Perché non puoi? Domattina farò
ch’io possa liberarmi dagli impegni
e andremo insieme,
tutto un giorno sul Serchio e poi sul
piano
dei fulvi girasoli. Anch’io lo sento
questo bisogno in anima di vivere
di nuovo sprazzi e guazzi giovanili”.
“Guarda, figliolo, ch’io ti sono in sogno.
Quello che vivi è fumo ed io son qui
vicino solamente con lo spirito,
non col corpo. Son morto. Ti ricordi
quella brutta giornata di febbraio?
Io spiravo e tenevo la tua mano
nella mia tremolante. Dentro il cavo
ho sempre il tuo calore”. “Come faccio
a sapere che è tale?” “Puoi provare!”
“L’unico mezzo è quello di destarmi
per saperlo. Perché dovrei distruggere
l’occasione di un sogno veritiero.
Di un sogno che è realtà più di un reale
che non arriva a tanto. Che momento!
O sogno o realtà che importa, padre,
io ti rivedo, bello, fra quei marmi
così lucidi, vasti senza dubbio
ben di più degli scrimoli a cui noi
eravamo abituati. Con gli amici
a dissertare sui concetti
astrusi
dei misteri del cielo e della terra.
Così importante mai ti vidi padre.
Che piacere.” “Figliolo tu hai ragione.
È rara l’occasione che in un sogno
si sappia di sognare e che per questo
si viva ben più a fondo un segmento
coscienti di un prosieguo del reale.
Sogniamo! E tutto sarà vero: tu
mi parli ed io ti corrispondo. Manca
una magia estrema. è in mio potere.
Ricostruirò quel tempo del passato,
e forse il più felice,
di quando dodicenne tu passavi
(tornando di città schivo e scorbutico)
all’ora di mangiare dalla vigna”.
“Rivedo tutto! Che magia! Sono
laggiù sotto il mio pioppo a rovistare
nella borsa del pranzo. Ecco ti chiamo.
Tu accorri trepidante poi mi abbracci.
Tre cose sulla scuola. E la tovaglia
sui crini di gramigna. Che bel pane!
Tu stacchi i pomodori e li zuppiamo
in picchiata nel sale”. “Vedi bene
come si mischia a volte col reale
l’immaginario”. “Sì! Però per me
questo momento dice che tu esisti.
In quanto alla tua morte non ricordo;
perché dovrei svegliarmi?
Continuiamo a vivere così.
Nella magia di un sogno. Per domani,
quando torno da scuola, nella borsa
voglio trovare - diglielo a mia madre -
il pane fritto. Sai quanto mi piace!”.
Su
Nazario Pardini
A colloquio con il padre. Il sogno
da
Paesi da sempre. Chegai
Editore. Firenze. 1999
"Io non
sapevo,/ nella nuova coscienza, ch'era morto": è contenuta in questo
lacerto - a mio modo di vedere - la chiave di lettura di una lirica (un
colloquio) che travalica l'onirico per approdare ad una dimensione
inedita ma
esistente, concretamente esistente.
Ma perché
"distruggere", perdere un'occasione unica e, forse, irripetibile come
questa, destarsi per sapere? Sapere cosa, e per quale ragione poi? Qui non c'è
posto per il raziocinio, ce n'è - infinito - per la poesia, per la vita e il
suo mistero: "Sogniamo - allora - E tutto sarà vero...".
Queste parole paterne non provengono dal genitore del poeta: sono la voce di un tempo immortale che continua a vivere dentro di lui ("questo momento - e soltanto questo momento - dice che tu esisti").
Cosa fa, dunque, Nazario? Rifiuta di svegliarsi, edifica anziché abbattere il muro: un muro che, invece di dividere, permette di salire più in alto possibile, lassù dove la vista è più ampia e accoglie nel suo abbraccio i ricordi tuffandoli, come quei pomodori appena colti, "in picchiata nel sale". E tutto acquista sapore, e si dimentica la morte, e si aspetta una fetta di "pane fritto" per il domani (Sandro Angelucci, 12/08/2013)
Queste parole paterne non provengono dal genitore del poeta: sono la voce di un tempo immortale che continua a vivere dentro di lui ("questo momento - e soltanto questo momento - dice che tu esisti").
Cosa fa, dunque, Nazario? Rifiuta di svegliarsi, edifica anziché abbattere il muro: un muro che, invece di dividere, permette di salire più in alto possibile, lassù dove la vista è più ampia e accoglie nel suo abbraccio i ricordi tuffandoli, come quei pomodori appena colti, "in picchiata nel sale". E tutto acquista sapore, e si dimentica la morte, e si aspetta una fetta di "pane fritto" per il domani (Sandro Angelucci, 12/08/2013)
Su
Nazario Pardini
A colloquio con il padre. Il sogno
da
Paesi da sempre. Chegai
Editore. Firenze. 1999
Molti, ne sono certo,
leggendo questi versi struggenti, penseranno che Nazario Pardini si sia voluto
cullare in una dolce speranza, in un sogno assurdo e meraviglioso, ben sapendo
che trattasi di zuccherosa illusione. Io certamente non so che cosa sia passato
nella testa dell’esimio poeta e professore, ma non posso fare a meno di
adirarmi di fronte al pregiudizio di chi esclude a priori il mistero e
comodamente pensa di poter ritagliare una mattonella nell’immenso mosaico,
sostenendo che quella, e non altra, è la vita reale. E invece non c’è nulla di
più sfuggente del reale, legato con fili invisibili, ma robustissimi, al Tutto
che noi non conosciamo. Non lo conosciamo, certamente, ma, santo dio, in esso e
di esso viviamo! È una questione di equilibrio, a parer mio. E l’equilibrio è
sempre bilanciamento di pesi contrastanti. Un conto è il dualismo conflittuale
e schizofrenico, un altro la dualità fonte di armonia. Se c’è il nero, c’è il
bianco; se c’è il giorno, c’è la notte; se c’è l’inverno, c’è l’estate, e via
dicendo. Se c’è la materia, c’è lo spirito; se c’è la vita mortale, c’è la vita
immortale. È anche una questione di logica, in definitiva, e non soltanto di
fede. Sempre che la logica stia nel principio di contraddizione, come sopra
specificato, anziché in quello di non-contraddizione, che vorrebbe catturare la
complessità del vivente entro risibili formule unilaterali. Ma è soprattutto,
indubbiamente, questione di fede. Non fede nella Befana, bensì nell’equilibrio,
nella serenità, come dice Pardini a proposito del babbo: “Mi apparve certamente
perché stessi/ sereno”. Ovviamente si è liberi di credere o non credere
nell’equilibrio, ma se non si crede si deve onestamente ammettere di essere
degli squilibrati (Franco Campegiani, 14/08/2013).
Su
Nazario Pardini
A colloquio con il padre. Il sogno
da
Paesi da sempre. Chegai
Editore. Firenze. 1999
La memoria è
intatta, in questo testo a colloquio col padre! Vi è dentro tutto: la
commozione, il sogno, il rammarico di non poter più colloquiare col padre, ma
anche la commozione di percepirlo soltanto con i sensi metafisici. Una grande
apertura verso il mondo dei defunti che permea di grandezza e di orgoglio il
sereno rinnovellare, come se l'anima fosse ancora lì, presente dentro la bianca
materia dell'immortalità che rivitalizza il ricordo dentro un dualismo che
sempre consente un prezioso afflato materico e insieme spirituale. Quella di
Nazario Pardini non è attesa disperante di illusioni, è certezza che dentro di
noi nasce, vive; e si rinnova la speranza di un equilibrio ontologico che non
ci annulla del tutto, ma ci fa partecipi di un piano superiore che solo la fede
può sfiorare... Il mistero persiste, ma vi è dentro questi versi l'apertura al
trascendente che si fa "altra" forma di vita, pietas, speranza,
complessa eppur portentosa materia dell'essere (si fa per dire), ma di un
essere tendenzialmente vòlto verso l'alto, verso un sogno immortale di vita oltre
noi... Nazario Pardini in questo testo esemplare ci insegna a guardare oltre la
barriera della materica nullificazione verso un eterno destino che rappresenti
per noi, e al di là di noi, lo scenario aurorale di un credo
superiore,
sempre in crescendo che ci salva (Ninnj Di Stefano Busà 17/08/2013).
Su
Prefazione
a
Umberto Vicaretti: Inventario di settembre
Edizioni ETS. Pisa. 2014
Nazario carissimo,
leggo le tue parole di sole per i
miei versetti di campagna e divento piccolo piccolo per l’iperbolica tessitura
di smisurati orizzonti. Il tuo magnificat per la mia
silloge mi annichilisce (quasi una sorta di preventivo contrappasso),
consapevole come sono del mio limite e della mia assoluta relatività. Lo so che
tu adesso starai replicando le tue… controdeduzioni, e che magari starai
perfino smadonnando; e io ti capisco anche, perché penso alla tua inossidabile
buona fede, alla tua cristallina onestà intellettuale. Ma tutto ciò, caro
Nazario (ovvero la mia “resistenza” alla tua “santificazione”), non intacca, se
non di straforo, la felicità che mi procurano le tue parole, la tua limpida e
alta narrazione delle mie (diciamo così) “gesta” poetiche. Ora tu mi dirai: ma
se la mia “narrazione” è così limpida come tu dici, perché tanta
“resistenza”?... La risposta, amico mio grande, è tutta nella (per usare una
delle tue visionarie allegorie semantiche) perfetta “dicotomia” generata dalla
querelle: la mia silloge e la tua prefazione appartengono a due piani diversi:
da una parte c’è il mio poièin, dall’altra c’è la tua sapientia
cordis, ovvero quella saggezza e quella umanità che “trasfigura” (un
po’ come nella citazione della bellissima affermazione di T.S. Eliot) e, per
così dire, “sdogana” anche i prodotti più umili dell’uomo. Ecco, Nazario,
proprio così: la saggezza e la vicinanza con cui accogli grandi e piccoli (quorum
ego!) spiriti sono proprie delle anime elette; di quelle, cioè, che per qualche
insondabile mistero hanno l’imprimatur della grazia e presuppongono
uno spirito e una humanitas materia
soluti, ovvero non contaminati dalle scorie del personalismo e dell’individualismo.
Ti sono grato e debitore: infatti, contrariamente a quanto affermava Salvatore
Quasimodo nella sua indimenticabile e struggente “Lettera alla Madre” (“…//
non sono triste nel Nord: non sono / in pace con me, ma non aspetto / perdono
da nessuno, molti mi devono lacrime / da uomo a uomo”), io mi
sento, invece, debitore nei confronti di tanti, e a tanti dovrei anche chiedere
perdono, nel senso che, come fermamente ritengo, molto da tanti ho ricevuto, ma
non credo di avere restituito altrettanto. E tra i miei più grandi creditori
devo certamente annoverare l’amico Nazario, mio ardito mentore e fedele (e
unico!...) Grande (E)lettore, mio amorevole Buon Samaritano e mio Nobel privato
(per il prestigioso riconoscimento di
Stoccolma il Dante Maffia può attendere!...).
Cosa altro dire della tua prefazione? Oltre quello che ho detto, non ho parole.
Quando avrò parlato della pubblicazione con Stefano Sodi, potremo tornare
sull’argomento, ma solo "tecnicamente". Come ti ho già accennato,
infatti, vorrei aggiungere alla silloge qualche altra composizione tratta
da La Terra irraggiungibile, in modo da ottenere una
pubblicazione di una certa consistenza. Per questo, credo che sarà necessario
un piccolo “restyling” della tua prefazione, non certo per rivederla sotto
l’aspetto formale e contenutistico, ma solo per integrarla e completarla
(dovrai purtroppo fare gli straordinari!...). Ho letto e riletto, ieri sera, il
tuo preziosissimo dono. Ma il mio pc mi segnalava che il sito era
momentaneamente inagibile: ecco perché ricevi la mia mail solo adesso. Tra
qualche ora devo partire, con Maria, per Alberona, dove ci tratterremo fino a
lunedì, ospiti dell’organizzazione. Speravo di poter incontrare Giorgio Bàrberi
Squarotti, Presidente di Giuria, ma da lì mi dicono che non sarà presente.
Vorrà dire che gli scriverò.
Caro
Nazario, non ti ho telefonato in questo periodo per lasciarti in pace a
riposare e a rigenerarti, ma tu, da inguaribile discolo, non ti sei risparmiato
neppure in vacanza. Avremo però modo di sentirci molto presto (prima o poi
dovrai denunciarmi per stalking…).
Scrivevo in una mia composizione giovanile (“Ma noi ti aspetteremo”), dedicata alle vittime del terrorismo: "Anche se non ci addormentammo / nella stessa stanza, / anche se non ci svegliò / il bacio della stessa bocca, / ora devo chiamarti marti fratello"…
Scrivevo in una mia composizione giovanile (“Ma noi ti aspetteremo”), dedicata alle vittime del terrorismo: "Anche se non ci addormentammo / nella stessa stanza, / anche se non ci svegliò / il bacio della stessa bocca, / ora devo chiamarti marti fratello"…
Un abbraccio grande da tuo (brother,
frère, hermano, brude, broeder, frade…) fratello Umberto (Umberto
Vicaretti, Luco dei Marsi, 24/08/2013).
Postfazione e motivazione
a
Nazario Pardini: I simboli del mito
XXIII EDIZIONE
PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE
CITTÀ DI POMEZIA 2013
Nazario Pardini non
rispolvera figure mitologiche - come Ifigenia (“Mori i capelli/sulle bionde
guance”), Bacco, Giove, Semele, Edipo, Ulisse eccetera; ma anche storiche,
come Giovanna D’Arco - solo per il gusto della classicità, o per amore tout court verso il passato; egli le
innesta al nostro tempo ed è nel sorpassare “la Storia” che consiste la
sua vera novità, nello stimolarci, attraverso vicende e personaggi, a non
arrenderci alle difficoltà e accendendo in noi “il desiderio/di sfidare il
destino”.
Le parole dei morti “ai
bordi dei sepolcri” non sono un soliloquio scaturito da nostalgia
transeunte e fine a se stessa, ma la necessità che gli “affetti”
continuino a lievitare il vivere collettivo, siano, cioè, un medicamento
all’aridità e alla troppo spinta individualità dell’uomo moderno.
La suggestione
dell’opera deriva dalla miscela di mito e di modernità, ma anche dallo stile,
dal linguaggio, dal verso quasi sempre chiaro, privo di retorica e di affettata
solennità. Tutto è piano nella poesia di Pardini e il suo colloquio familiare
ci conquista e ci fa accettare anche qualche oscurità, mitigata comunque dal
ritmo, dal naturale pentagramma e da una Natura - purtroppo sempre meno “acerba”
ai nostri giorni - presente ora nel dare risalto al dramma (il “cielo rosso”
del sacrificio di Ifigenia), ora nel sottolineare l’arcano (lo stridere delle
cicale, il saltare del rospo, il volare della libellula nel rilassante flautare
del pastore), ora, infine, nel ricordarci semplicemente il rinascere della vita
attraverso il verdeggiare delle “foglie nuove”.
I simboli del mito, allora, anche per contenuto è opera
impostata più sull’oggi che sul tempo delle leggende e delle favole belle,
perché Pardini, risalendo dal passato, canta la stagione che anche ai nostri
giorni ingentilisce gli aspri “stecchi”; il lauro; il fiume; le “rocce
dal volto rossiccio/e levigato”, che sfidano il tempo e sono testimoni di
tante vicende; il Meridione d’Italia che ancora strega con le sue vestigia e il
contrastante “sapor di zagare e limoni”. Un’opera affabulante, insomma,
e solare (Domenico Defelice, poeta, saggista, critico letterario, direttore
della rivista “POMEZIA-NOTIZIE, Pomezia, 01/09/2013).
Su
Nazario Pardini
A colloquio con il padre. Il sogno
da
Paesi da sempre. Chegai
Editore. Firenze. 1999
Quasi un poemetto, per lunghezza e
intensità espressive, un canto suggestivo e trepidante quello che ci porge
Nazario Pardini evocando alla memoria il padre, (scomparso) che si rimodula al
ricordo con un frammisto d’immagini che ne svegliano la magia e la dolcezza di
un sogno:
Che lucore!
Era
simile il cielo a quei mattini
in
cui andavamo ad erpicare
il profumo di terra. Era mio padre.
Un amarcord fortissimo per intensità e pathos. Guizzi giovanili ritornano
alla mente quasi ad invadere gli spazi sottostanti del pensiero e della
fantasia con un intenso e persistente aroma di terra, di pane fritto, di
sentori erbali, di aromi estivi.
Vi è l’anima che riposa
in quegli anfratti perduti del sogno giovanile a rinnovare ipotesi di esistenza
“oltre” vi sono sprazzi di luce, d’intuizione fortissima, quasi palpabile in
atmosfere e momenti indelebili che affollano e sovrastano - l’altra dimensione - quella “onirica” in cui tutto è ovattato e,
combaciano alla perfezione la vita e la morte.
L’afflato è fortissimo, quasi “si
apre un cielo di luce biancicante” un processo che si aggiudica lo stupore
del primo mattino, in una fittissima rete di minuzie, di dettagli, di “fulvi
girasoli” che solo le anime consanguinee conoscono. Ecco, vorrei soffermarmi su
questo legame di sangue che costituisce il punto fermo di Pardini, un
atteggiamento che la poesia risuscita nel suo farsi più umana ed efficace
l’assonanza tra sangue e carne, tra realtà e sogno. Vi sono elegie semantiche
che non passano inosservate, vi è la visione nostalgica di una vita in
transito, ma non perduta del tutto.
In questo dialogo col
padre, Pardini mostra tutta la sua umanità con la gioia del “fanciullino” di pascoliana memoria. Una
poesia bellissima, struggente che andrebbe portata nelle scuole e studiata come
si conviene ai testi del Pascoli o di altri autori del passato (Ninnj Di Stefano
Busà: poetessa, saggista, scrittrice, critico letterario, Milano, 09/09/2013).
Su
Nazario Pardini
Non
chiedermi perché
da
Dicotomie. The Writer Edizioni. Milano. 2013
Cari lettori,
cari utenti del blog, dire "bellezza"
nei riguardi di questo testo è poco...Vi è una ricchezza superiore, un'energia
che fissa l'occhio impressionistico dove riposano valenze di pensieri,
espressioni e cifre stilistiche inimitabili, attraverso di esse il poeta riesce
a cogliere inimmaginabili trasalimenti, emozioni, suggestioni, visioni che
rivelano lo stile e il contenuto: entrambi di ottima valenza e di peculiare
vocazione. Il tono sempre alto conferma vaghezze semantiche di grande spessore
ed equilibrio. La cifra metaforica nella poesia di Pardini raggiunge sempre
l'esito felice di un lirismo modellato e forgiato a crepuscolari venature, a
immagini spesso paniche, in cui il modulo linguistico mostra rigore e dolcezza,
in egual dose. Raramente capita di leggere poesia che sa dare emozioni,
disvelando sentimenti e smarrimenti come nei versi di questo autore.
Io resto
ammirata e meravigliata dalla composita sinergia che avverto nei suoi versi che
sanno dare sfolgoranti messaggi e splendere così intensamente di luce propria
(Ninnj Di Stefano Busà, sul blog Alla
volta di Lèucade, 19/09/2013).
Non chiedermi perché
Non
chiedermi perché sono venuto
a
trovarti di nuovo. Sarà forse
perché
qualcosa provo
ancóra
dentro me.
Sai!,
non è molto che pensavo
all’ultimo
saluto. Ti ricordi?
Era
sul mare, il cielo cinerino
di
un settembre un po’ stanco accompagnava
un
melanconico addio. Eppure
io
non credevo che un lungo patrimonio
potesse
rivelarsi così fragile
come
la bruma pallida d’autunno.
Il
cielo si rompeva ad occidente
e
il sole grosso e fervido, alla sera
di
quel giorno impossibile, tingeva
il
tuo volto diverso. Mi ero sperso.
Non
ritrovavo più la strada amica,
la
strada di una vita. Sono qui.
Non
chiedermi perché. Sono venuto!
Ho
ancora dentro l’anima
il
sole di una sera,
il
mare quasi calmo, un volto stanco,
e
una bàttima lenta a misurare
un
tempo troppo pigro per chi soffre.
Sarà
forse l’amore. Chi lo sa.
Eppure
c’è qualcosa che ha guidato
quest’animo
rigonfio di ricordi
tra
i fiordi del passato. Ma non chiedermi
di
più. Accetta un mio saluto. E vado.
Davanti
a me c’è un guado,
un
guado che riporta
quest’uomo
ormai attempato
all’altra
sponda.
Recensione
a
Maria Grazia Ferraris: Aprile di fiori
Montedit Edizioni. Melegnano (MI). 2013
(silloge
dedicata al blog Alla volta di Lèucade
blog)
Un’avventura che il poeta definisce:
“C’est un rêve: il vaut bien le vivre”
M’affascina
la natura, - è poesia, -
-
un dio vi spira, - dolce e lusingante.
Ma
lotta è in me, ché esser non vorrei
d’un
inevitabile nevrotico idillio
l’ingenua
autrice: spingermi vorrei
al
di là dell’idillio…, per attingere
dal
drammatico nostro quotidiano
la
chiave del vivere insensato… (Poesia).
È qui la poetica di Maria
Grazia Ferraris, in questa sua fusione coi colori e le forme floreali di cui
Natura ci fa dono. Ma non si vuole fermare assolutamente ad un semplice
ritratto dillico-elegiaco; vuole andare oltre; da lì prendere spunto per
cercare armonie, musicalità perdute, che cedono il passo al sogno: “come di
sirena il canto/ fascinoso s’abbatte smemorato/ sullo scoglio arido della
vita”; vuole dire di sé, del suo essere, dei suoi pensieri, delle sue memorie,
delle sue contrarietà verso un mondo che sembra perdersi e fare di tutto per
rendere un deserto il suo cammino: “Dimentica le tue guerre che producono solo/
deserto: il deserto che tu chiami pace./ Accarezza questa natura, che consola”
(Pace).
Plaquette di 36 poesie interamente dedicata alla Natura,
ai fiori, alle sue più preziose perle, inanellate l’una con l’altra da un
filo lucente in una collana di attraente rarità: un luminoso filo che si
fa leit motiv della silloge: l’amore
per il verso che sboccia in sepali, in petali, in corolle tanto vicini, nella
loro varietà e nel loro rapporto terra-cielo, al dipanarsi delle vicissitudini
umane. E tutto scorre in maniera duttile e morbida, gentile e graziosa, silente
e graffiante, ma pur sempre limpida come l’acqua di un ruscello che rimanda il
brillio dei candidi sassi dai fondali. Sì, l’autrice fa trasparire i delicati
abbrivi della sua più profonda interiorità, cristallizzandoli in profumi,
colori, in ossimorici azzardi, anche, ora primaverili, ora autunnali, ora
spavaldi, ora fugaci, ora ferali a significare la bellezza, la precarietà, il
mistero e il dolore dell’esistere. E c’è in tutta la diegesi dell’opera quella
tematica confidenziale, quella filosofia di tensione orfica, volte a sottrarre
la bellezza agli annichilenti artigli del tempo. Ma il tempo c’è con il suo
fagocitare senza requie, con la sua sottrazione del bello e del brutto; e la
Nostra è cosciente della sua rapacità che si manifesta in una dicotomica
visione fra il polemos degli opposti
di sapore eracliteo. Polemos che
condiziona, d’altronde, il succedersi dell’umano procedere, se il fulgore di
tali perle, il loro gioco aereo di parole alate, il loro profumo inebriante, la
loro gioia bambina, il loro caparbio fiorire, se lo stravagante brillare dei
loro colori si sfrontano con il misterioso e inquietante elevarsi dei pinnacoli
gotici dei cipressi; o se si sfrontano con lo “Stupore oscillante tra il
drammatico/ e il grottesco, ilare e liberatorio,/ l’hortus poetico di fiori
daliliani”, o con l’urlo muto alla morte della dalia, che tanto sanno di via crucis, di ultimazione e di redde rationem. Ossimorica dualità del tempus fugit. E la parola segue attenta
e puntigliosa, colle sue espansioni, col suo rattenersi, o col suo combinarsi
di perspicua sapidità disvelatrice, la sicurezza del ductus poetico. Una parola che denota un’assidua frequentazione
dell’ars dicendi. E la Natura non è
certo trattata come gioco a se stante, o come arcadico ozio letterario, ma
vive, umanamente vive, fino a invadere gli spazi sottostanti del pensiero. Sì,
si ravviva di memorialità, di stupefazione, di slanci emotivi che si traducono
in una vis creativa di grande impatto
esistenziale. Dacché la Nostra non si limita a descrivere, a rappresentare, ma
fa sentire continuamente la sua presenza accanto al mutare dei giorni e dei
luoghi, delle immagini ora giovanili, ora superbe, ora dimesse che richiamano i
segmenti di una storia. E tutto evidenzia una grande scientia florum di timbro lucreziano - tibi suavis daedala tellus summittit flores - ma anche e
soprattutto una capacità versificatoria di un simbolismo lirico da idillio
leopardiano: ardore allusivo di metafore con giochi sapidi di allegorie. E c’è
la dalia “fra i vibranti seducenti gelsomini” con il suo urlo muto. E ci sono i
Papaveri a Micene:
Papaveri
dalle grandi corolle rosse,
dal
cuore nero, urlanti nel vento che li culla.
Rosso:
il colore del dio della vendetta.
Micene
ancora sanguina al ricordo.
Papaveri
rossi, rossi… di sangue! (Papaveri
a Micene).
Le Ninfee:
Ninfea
bellissima, di fredda perfezione,
tutta
superficie, senza radici vere,
bianca
e immobile, casta e algida,
fiore
di acqua, giglio di morte:
la
metafora sei di tante vite di donne,
belle
e inutili, egoisticamente perfette,
senza
radici (Ninfee),
in cui la Ferraris non
disdice un appunto a questo esibizionismo fatto solo d’immagine in tempi di
disvalori.
Ed è superbo, poi, perderci in giardini segreti,
incantati di magnolie lucide, carnose, morbide e levigate debordanti dai
cancelli chiusi che richiamano la bellezza, il mistero, il sogno, la felicità e
ri/conducono ad antiche primavere; ad alcòve verso cui la Nostra tenta una fuga
di edenico riposo, pur con il rammarico di occasioni sprecate:
…
le ultime interrogazioni, poi l’estate adolescente.
Più
sognato che realmente e felicemente vissuto.
La
felicità era in quel risveglio, in quello stupore,
in
quell’attesa di non so che… Non lo sapevo
e
il ricordo ingenuo ha un retrogusto amaro,
quello
delle giovani occasioni sprecate (La
magnolia).
Perché si sa che la
memoria riporta a galla, anche ingigantite dal tempo, immagini tanto forti che
gridano la loro esistenza per ritornare a vivere.
Ma è nelle sei pièces di Le stagioni delle viole che la Ferraris riesce a raggiungere note
di tale intensità lirica da tradire quel tale Krònos che tutto pretenderebbe di
distruggere. Un canto che la poetessa affida alla pagina con intenti da dolci
illusioni foscoliane. Chiede persino aiuto ai grandi poeti del passato, ricorre
ai loro versi più incisivi per prenderne spunto e per dimostrare quanto valga
la bellezza per la memoria umana; per il sogno; per la vita. E non è certo
sfoggio di sapere, ma indice del grande spessore culturale della Nostra. Una
cultura, che, decantata nel suo animo, torna a vita verniciata di un sentire
fresco e rinnovato. Un mélange di poesia, mito, natura e ricordi che,
sapientemente fusi fra di loro, offre una resa lirica corposa di significativi
richiami fonico-allusivi: la favola di Zeus e la violetta (“fece spuntare tra
l’erba piccoli fiori dolci e profumati”), la commozione di quei racconti
ri/vissuti (“Il primo amore della mia vita”), l’incanto della Disputatio di Bonvesin della Riva (“il
fascino della bellezza quieta del piccolo fiore”), o quello del paesaggio
fiorentino primaverile del Poliziano. È il gioco delle immagini che lascia
indenni, accovacciate nell’anima, quelle gioie che tornano più lucide nei
nostri autunni. E il tutto narrato senza pesare, in maniera sciolta e en passant, come quando si confessa in
poesia un nostro qualsiasi naturale sentimento: “O violae… molles et violae,
Veneris munuscula nostrae…/ quae vos, quae genuit tellus?”. Oh i suoi petali di
velluto! “Vos semper amabo”. Anche il
latino stesso assume una connotazione sentimentale fresca e pura, di acqua
sorgiva carsica che talvolta scende nel sottosuolo, talvolta scorre in
superficie, fluisce limpida e soprattutto toglie sete. E non si può di certo
soprassedere a quel “mazzolin di rose e di viole” di memoria leopardiana: la
felicità dell’attesa. La grandezza della semplicità nel poeta dei poeti:
…
leggevo presa, e mi dimenticavo che la poesia
sola
può legare fantasticamente insieme
rose
e viole, nella fantasiosa suggestione
poetica
dell’idillio…
Il
dì di festa: domani di rose e di viole… (Le stagioni delle viole, 4).
Sì, nei giardini da
sogno, dove brillano petali e piante lussureggianti, debordanti fuori dai
cancelli che li recingono, in quei giardini possono crescere anche fiori che
mascherano colla loro bellezza veleni mortali; come nella vita. Ma in questo
giardino la Ferraris sventola amore, ed è esso che prevale sul tutto. Amore per
il mondo, per l’esistere, per questa avventura che il poeta definisce “C’est un rêve: il vaut bien le vivre”.
Amore per questa arte sempre-verde e per la natura che la ispira. Ed è a lei
che affida il suo caldo grido perché faccia eco e risuoni senza tempo nei cuori
degli uomini:
…
Pace è questa natura trepida e luminosa,
sollecita
fantasia, ballo di colori brillanti,
il
sorriso della vita che si ridesta (Pace).
(Nazario Pardini, blogger, 10/10/2013).
Su
Nazario
Pardini: I simboli del mito
(1°
premio Città di Pomezia 2013)
Edizioni
Il Croco - Pomezia-Noitizie. Pomezia. 2013
Le figure, che appaiono luminose in
questi versi, sono elegantemente tratteggiate per un rincorrersi di colori e
sussurri, intagliate nella musicalità del verso breve, che armoniosamente
incide nella pagina. Nazario Pardini affonda nel mito con una vocazione unica e
ben precisa, ricca di quel bagaglio culturale che lo distingue, e attraverso il
ritmo rilegge la storia di alcune figure mitiche, richiamando suoni e prodigi
del mistero. Le vibrazioni sorprendono fra le vellutate ondulazioni che
intagliano riflessi e suggestioni: il ritorno di Ulisse, tra i nuovi lidi e le
avventure prodigiose, i segreti di rocce possenti, i giganti nel riverbero dei
raggi di luna, le immagini ombrate di Saffo, di Edipo, di Dioniso, un Olimpo
superbo dal tocco immortale. Penetra in questi testi una luce che potrebbe
essere salvifica, una energia che muove il sacro fuoco dell’innocenza, per una
limpida e cristallina realtà - fantasia, raccontata con perizia di lessico e
matura vigilanza di scrittura (Antonio Spagnuolo, poeta, scrittore, saggista,
critico letterario, 16/10/2013).
Poesia dedicata
a
Nazario Pardini: I simboli del mito
(1°
premio Città di Pomezia 2013)
Edizioni
Il Croco - Pomezia-Noitizie. Pomezia. 2013
Miti
di ieri
avventure
di oggi
cantano
le tue parole;
e
sempre odo musica,
vedo
cieli,
acqua
che scorre
e
silenzi che sprofondano
tra
il finire e il cominciare.
La
tua storia, la mia,
quella
dei viandanti di allora
camminano
insieme,
portano
sogni nelle mani,
attendono
che il vento
soffi
e tutto spenga (Gianni
Rescigno, poeta, scrittore, S. Maria di Castellabate, 18/10/2013).
Sulla poetica di Nazario Pardini
Lirismo dall'inconfutabile pathos estetizzante, quello di Nazario
Pardini, che indugia su tutti i tasselli del mosaico della vita. La sua ars inveniendi dipinge idealmente tutti
i moti del cuore, per poi vergarli in un linguaggio epigrafico e sobrio che
subito si insinua e permea i meandri dell'animo umano. Il Poeta è magistrale
nel far vibrare, emergere e veicolare suggestioni e pulsioni. I suoi versi sono
una brezza che respira armoniosa, senza confini, senza catene. Le sue poesie
intense e fluenti sono euritmica estasi, percorso verso la propria omeostasi
esistenziale che non trascurano, nondimeno, speculazioni struggenti e nostalgie
per tutto ciò che si è eclissato tra le metafisiche pieghe del tempo. Nazario
Pardini è Poeta di sublime magistero lirico, sovente intriso di valori etici
che affascinano il lettore, trasportandolo in un universo di auliche ed
incisive emozioni (Mauro Montacchiesi, poeta, critico letterario, scrittore,
saggista, 25/10/2013).
Su
Nazario
Pardini: I simboli del mito
(1°
premio Città di Pomezia 2013)
Edizioni
Il Croco - Pomezia-Noitizie. Pomezia. 2013
Parlare
di mitologia attraverso l'atto, di per sé mitologico e creativo, di Nazario
Pardini, poeta, saggista, nonché animatore del
blog Alla Volta di Lèucade, quotidianamente
presente per proporre nuove notizie culturali
ai suoi lettori, esposte con dedizione e commentate sul web, non è un'impresa
facile, soprattutto per una persona come me, che, pur seguendo la poesia da
diversi anni, non ha intima dimestichezza con l'antico culto mitologico
contemplato con il vezzo della conoscenza, azzardata - al limite di quei
confini estetici - più volte percorsi coraggiosamente dal nostro poeta.
Nelle sue molteplici esplorazioni
linguistiche, infatti, il Nostro si muove abilmente all'interno dei meandri di
una catarsi espressiva intrisa di riferimenti riconducibili alla cultura
classica. Egli dimostra di fare buon uso sia dei formalismi, sia delle parole
misurate con la contemporaneità. Come giustamente commenta la poetessa Ninnj Di
Stefano Busà, nella prefazione, non si può negare l'alto livello di formazione
culturale del nostro autore:
Vi si riscontrano ancora,… le caratteristiche
precipue della sua oggettivazione poetica, il suo reticolato linguistico, la
sua naturale vocazione a far riemergere dai primordi della storia le figure
mitiche rappresentative della classicità, come ad esempio, Ifigenia e poi
Semele, Giove, Dioniso, Apollo, Edipo, Saffo, Calipso ecc. Mettono in risalto
la sua tendenza a scrivere versi con un corpo e un'anima, ma sempre con
intensità espressiva da terzo millennio; seppure i miti, le simbologie
inneggino al passato, gli esiti felicemente raggiunti appartengono alla
post-modernità senza fregole, senza falsificazioni, senza orpelli, né eccessi
di stampo "modernistico d'assalto" come avviene in molti autori
contemporanei che respingono "tout court" la classicità del passato
senza proporre modelli nuovi, solo per il gusto di respingere l'antico (tratto da Il CROCO - I simboli del mito. I quaderni
letterari di Pomezia Notizie - Prefazione a cura di N. Di Stefano Busà,
pag. 2).
Nei suoi versi, Nazario Pardini,
dimostra di usare e piegare la parola; la trasforma a seconda della sua
sensibilità, della sua capacità di seguire i ritmi e i tempi delle emozioni,
delle sofferenze, dei suoi desideri e della sua immaginazione. La sua opera
diventa quindi un messaggio che si trasmette vivacemente con il ritmo della
parola mediata dalle figure mitologiche; in questo caso, addirittura, la sua
poetica descrive il simbolo che attraversa il simulacro delle suggestioni
estetiche, nella forma vivida del racconto epico. Prende corpo la sua verità
ma, non per questo dobbiamo illuderci di diventare come gli dèi, perché come sostiene
il nostro poeta, ogni uomo è osservato con indifferenza forse per via dei
superbi occhi che vorrebbero guardare il cielo, senza scorgere in basso gli
errori:
Non sperare perdono,
solo lo scherno
proviene dall'alto (...)
Indifferenti ci guardano gli dèi
e invano gli porgiamo gli occhi,
quando tocchi superbi
ci rapiscono l'animo;
cova l'eterno sopra sassi e marmi,
sopra statue immortali
tra flebili luci di passi di luna (tratto da: Indifferenti ci guardano gli dèi - I SIM -
BOLI DEL MITO - pag. 8).
Nella
poesia dedicata a Giovanna D'Arco, emerge questo soliloquio interiore,
intimamente connesso al limite (se pur eroico) della condizione umana.
Specialmente in questa poesia, Nazario Pardini tratta il tema del sacrificio ed
immagina Giovanna d'Arco a Domnery, nella casa della fanciulla che fu capace di
affrontare, con forza spirituale, gli
eserciti invasori:
Quanti anni
che bruciò questa ragazza!
Restano quattro mura
un po' a dispetto
che vanno oltre gli eroi,
sorpassano la Storia
e vincono la vita (tratto da: A Domnery sui Vosgi - I SIMBOLI DEL MITO - pag.
12).
Se la letteratura nobilita l'oggetto del desiderio
e l'affranca all'agonismo militante di una identificazione proiettiva, c'e' da
chiedersi se in queste poesie dedicate ai simboli del mito, l'eroina, il sogno,
il desiderio diventino oggetto privilegiato di una nitida manifestazione di
fede nei confronti di un Paradiso perduto; inteso anche come - mondo idilliaco
- dell'Arcadia. Nei canti epici della
nostra storia civile e culturale si manifesta coraggiosamente (come già scrissi in merito alla silloge Dicotomie - di Nazario Pardini ) una coincidenza storica con le forme impalpabili della bellezza; perviene
dall'interiorità e dalle metafore che il nostro poeta utilizza nei colori e nei
suoni della sua poetica. Si fanno sentimento le sue parole e, non dipendono
unicamente dalla forbita costruzione letteraria cinta di aulico
"alloro" e mi riferisco alla poesia dal titolo Al
lauro:
Oltre la terra la virtù che serbo
al tuo potere vada e che gli umani
salvi dall'ira siano dei cieli (tratto da - I SIMBOLI DEL MITO - pag. 26).
Ad
inventare costruzioni poetiche non è quindi solo l'abilità linguistica e
letteraria, è soprattutto l'intima sua
ricerca che si avvia nella profondità di
reminiscenze risanate da quei valori mitologici che ben si riconciliano con la
memoria dei padri. Sì, i nostri padri che ritornano manifestamente e
metaforicamente nelle parole di Nazario Pardini - sui margini dei sepolcri - e
ci parlano di onestà e di affetti sinceri:
Escono dai marmi freddi
sulla loro terra
e tra l'odore di cera
e il fumo della notte,
tra l'esalare di rose,
di gigli ed orchidee,
parlano di affetti e di ricordi
ai bordi dei sepolcri;
li puoi vedere:
ecco mio padre con mia madre
ed ecco mio fratello
che sorridente
per l'agognato arrivo
vola di gioia (tratto da - Oltre quel muro - I SIMBOLI
DEL MITO - pag. 20).
Con
queste parole, concludo, dicendo che tra le braccia di Nazario Pardini
sopravvive il tepore di una poesia che non ha senso se perde l'incanto
dell'ultimo dono che la rappresenta. Questo dono è sopratutto l'affetto di chi
condivide il nostro bene che si manifesta nel "mito" fulgente....
della sua bellezza.
e ti rivivo...
è l'ultimo dono che mi resta
tra i simboli dei miti
che uniti noi ascoltammo
fulgenti di bellezza (tratto da - L'ultimo dono - I SIMBOLI DEL MITO - pag.
28). [Miriam Luigia Binda, 25 ottobre 2013].
Motivazione
per la poesia edita
L’azzardo
dei confini (dal
libro eponimo)
Con l’opera: L’azzardo dei confini premiato con medaglia d’argento, diploma
d’onore e con il quadro di Corrado Alderucci “poesia di impronta montaliana.
Una sorta di parafrasi di quel capolavoro che è “I limoni”. Ma non c’è plagio, anzi vive di autonomia propria e ci
offre immagini davvero sorprendenti. La ricerca della verità ha come territorio
non l’allegria dei giardini in fiore, ma l’anonimato della brughiera. La posta
in palio è alta, la eterna, massima, aspirazione dell’uomo, trovare i confini
incerti fra l’immanente e il trascendente, insomma il ponte verso l’altrove.
Perché Dio gioca a nascondersi? Lo stallo qui non è superato dalla solarità
dell’agrume, ma dallo stesso sole, la speranza che l’altrove si manifesti anche
per premiare la nostra inquieta, testarda ricerca” (Premio “Arti Letterarie Città di Torino”, Torino, 26/10/2013).