Un estratto dal romanzo "De Bello Parthico"; il primo degli episodi che si svolgono presso l'isola di Lèukade (la nostra isola)
di Maurizio Donte
XVIII
La battaglia degli stretti di Leukade
I
“Eccoli! Stanno arrivando. Li vedi?”
I due uomini erano sdraiati pancia a terra
tra i fitti arbusti che coprivano il declivio della collina, primo avamposto
della ripida dorsale montuosa che copriva da nord a sud l'isola di Leukade.
Sotto di loro un lungo tombolo sabbioso, coperto di cespugli di salicornia,
partiva dall'isola in direzione della vicina costa dell'Ellade, separando le
acque blu dello Ionio dalla laguna interna, di un bel colore smeraldino, su cui
affacciava il piccolo villaggio di pescatori che dava il nome all'isola.
Da qui partiva il canale che, scendendo
verso sud, andava ad aprirsi nell'ampio golfo di Meganissi.
La flotta era apparsa all'orizzonte nel
pomeriggio, avanzando lentamente a colpi di remo: non c'era vento, l'aria
immobile sfumava a destra la costa ellenica e la città di Atium,
all'imboccatura del profondo golfo d'Ambracia.
Al declinare del sole tutte le navi erano
in rada presso il cordone di sabbia.
“Che ne pensi?”
Didimios si voltò verso Eraclio, si
stiracchiò per riprendersi dalla lunga immobilità, poi rispose:
“Ormai è chiaro: si sono radunati qui
sotto, al riparo, visto che il mare si sta alzando, e domani mattina tutta la
flotta si infilerà nel canale, del resto era ovvio, è la via più breve.”
“Esattamente come pensava Sesto Pompeo.”
Didimios annuì.
“E finiranno così nella trappola che gli
abbiamo preparato.”
“Già. Pompeo è un grande stratega sul
mare.”
“E' stata una fortuna averlo incontrato
nel canale di Sicilia.”
“Una fortuna per i nostri capi: si sono
subito intesi col pirata.”
“Hanno tutti dei buoni motivi per avercela
con Cesare.”
“Pompeo per via del padre.”
“E di suo fratello maggiore, caduto a
Munda, non lo dimenticare.”
“E' vero.”
I due si rimisero in piedi, tenendosi al
coperto degli alberi, mentre arretravano in direzione del luogo dove avevano
legato le cavalcature.
“Bene, direi che possiamo rientrare, non
perdiamo più tempo.”
“Sei sicuro che non sia meglio che uno di
noi resti qui a sorvegliare?”
Disse Eraclio.
“Direi di no, dove vuoi che vadano?”
“Ma sì, hai ragione, andiamo allora.”
Si avviarono nel fitto del bosco,
slegarono i cavalli e si avviarono lentamente sul ripido sentiero che tagliava
il fianco sinistro della collina. Quando raggiunsero il terreno sgombro dagli
alberi, dettero di sprone.
I cavalli volavano sul bordo dell'alta
scogliera di bianco calcare, orlata da cespugli di stentati pini marittimi,
sotto i quali nidificavano immense colonie di gabbiani.
Corsero a lungo in direzione del piccolo
villaggio di pescatori dove era ad attenderli la scialuppa della trireme da cui
erano sbarcati. Alla svolta del punto in cui lo strapiombo cominciava a
declinare verso il
villaggio, il cavallo di Eraclio inciampò
in un ramo basso.
“Oh! Merda!”
Il cavaliere tentò di trattenere l'animale
per le briglie, ma si trovò presto a mal partito, il cavallo si era avvicinato
troppo all'orlo dello strapiombo e nitrì, impennandosi, folle di terrore. Si
era imbizzarrito.
Didimios tirò le redini e fermò il suo
cavallo.
“Cerca di tenerlo!”
Urlò al suo compagno.
“Morte e dannazione, non ci riesco!”
Gridò l'altro di rimando, mentre tentava
in tutti i modi di calmare la bestia terrorizzata. Ma non ci fu niente da fare,
il cavallo, ormai reso pazzo dalla paura, disarcionò Eraclio ed entrambi
volarono di sotto.
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Il pesante corpo dell'animale colpì, nella
caduta, un punto della falesia evidentemente già indebolito dall'erosione
eolica.
La frana che si staccò fu di dimensioni
spaventose: l'intero blocco si abbatté come una mannaia sulla spiaggia sottostante,
con un immenso rombo di tuono.
Didimios rimase impietrito, i capelli irti
sulla testa.
“Eraclio!”- mormorò tra sé.- “O, dei,
questa non ci voleva!”
Scese da cavallo e si avviò verso il bordo
della scarpata.
Il silenzio, interrotto solo dal suono del
rotolare di qualche piccola pietra e una densa nube di polvere, fu tutto quello
che gli si presentò.
Con estrema circospezione e timore si
sporse oltre il bordo e guardò di sotto.
Il macigno di dimensioni colossali era
ormai piantato nella sabbia sottostante, tutt'intorno le onde provocate dal
crollo, convulse, andavano e venivano.
Il corpo straziato del cavallo era una
macchia scura sul candido arenile, in cielo i gabbiani spaventati gridavano,
volando via. Di Eraclio nessuna traccia.
“Eraclio!” Chiamò, con ben poche speranze.
Con sua immensa sorpresa sentì in risposta
una voce angosciata.
“Sono qui. Aiutami!”.
Guardò in basso e stentò a credere a
quello che vide. Eraclio penzolava nell'abisso appeso con una mano ad una
grossa radice di pino marittimo, che la frana aveva messo allo scoperto.
“Aiutami!” Ripeté.“Non so quanto tempo
riuscirò ancora a resistere, scivolo!”
Didimios si sporse per quanto poté e tese
la mano, tenendosi con l'altra al robusto tronco di un contorto cespuglio.
“Prendila!”
Eraclio con uno sforzo disperato si dette
lo slancio e con la mano libera riuscì a prendere la mano tesa dell'amico. Le
loro dita si serrarono convulsamente.
“Ci sei!”
L'erculeo Trace tirò a sé con tutta la
forza di cui era capace: i suoi enormi bicipiti si gonfiarono allo spasimo,
nello sforzo tremendo a cui li stava sottoponendo. Grosse gocce di sudore gli
colavano negli
occhi, facendoli bruciare. Eraclio, per
conto suo, era riuscito a far presa sulla roccia con i piedi e così facendo
agevolò lo sforzo del compagno che, alla fine, riuscì a trarlo in salvo.
Giacquero esausti sull'erba per alcuni minuti, rifiatando: Eraclio era scosso
da un tremito irrefrenabile, i denti gli sbattevano come in un forte accesso
febbrile. Sentiva le fauci secche e dette qualche colpo di tosse.
Con gli occhi sbarrati per lo spavento, si
mise a sedere e contemplò l'abisso nel quale, per poco, aveva rischiato di
scomparire per sempre.
“Ho bisogno di bere qualcosa di
forte!”Disse.
Didimios si alzò e andò vicino al suo
cavallo, slegò la fiasca dalla sella e gliela diede.
“Bevi.” Eraclio bevette una lunga sorsata
di vino schietto, si deterse la bocca con il dorso della mano, sospirò. Poi
bevve di nuovo. Scosse la testa, come a scacciare i cattivi pensieri.
“Non ho mai avuto così tanta paura, in
vita mia, nemmeno prima dei ludi, nell'arena.”
“Te la senti di andare? Dobbiamo
sbrigarci.”
“Andiamo!” Il Trace salì in sella, poi si
rivolse all'amico:
“Monta dietro di me.”
Eraclio si alzò, barcollando, salì e si
misero in movimento, tenendosi prudentemente a maggiore distanza dall'orlo del
burrone, discesero fino alla spiaggia e in breve raggiunsero il villaggio: un
povero agglomerato di capanne e casupole in parte di pietra con i tetti coperti
di paglia, tra di esse erano appese ad asciugare le reti da pesca. Poco
distanti, alcune piccole barche erano abbandonate sull'arenile. Degli abitanti
nessuna traccia. La presenza al largo di Skorpios e Sparti, due isolette quasi
gemelle poste in mezzo al golfo, della minacciosa flotta di Sesto Pompeo aveva
convinto quella povera gente a sgombrare il più rapidamente possibile e a
rifugiarsi nell'interno dell'isola.
Solo un piccolo gruppo di pirati era
seduto vicino al mare, di guardia ad una agile scialuppa. Uno di loro si alzò
dal piccolo fuocherello, presso il quale erano gli avanzi di un pasto frugale,
e venne loro incontro ridendo.
“Cosa avete combinato voi due? Volevate
far crollare l'isola? Eraclio, devi essertela vista assai brutta!”
“Lasciamo perdere.” Rispose Eraclio,
torcendo la bocca. “ Non fosse stato per lui... A proposito grazie, Didimios!”
Disse, scendendo da cavallo.
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Il Trace fece un cenno col capo, smontò e
con una pacca sul sedere del cavallo lo lasciò libero.
“Ci sono novità?”
“Si, sono arrivati. Domani cominceranno
l'attraversamento dello stretto.”
“Sicuro?”
“Certamente, stavano radunando tutte le
navi presso l'imboccatura...”
“Allora la vendetta per Sesto Pompeo è
vicina, andiamo ad avvertirlo!”
“Voi!”chiamò. “Mettete in acqua la barca.”
I pirati si affrettarono a spingere via dalla
spiaggia l'imbarcazione, entrarono nell'acqua, poi vi montarono in tutta fretta
e, data mano ai remi, iniziarono a vogare verso le navi che pigramente dondolavano
alla fonda, presso le isole di fronte a loro.
II
Erano sfilati in una lunga e monotona vogata
durata tutto il giorno. Dopo le due isole di Paxos e Antipaxos era stato tutto
mare aperto con lontano a sinistra la bassa costa dove, presso il porto di
Atium,
si apriva la stretta imboccatura del golfo
di Ambracia.
Con il venir meno della luce scorsero
davanti a loro la mole abbagliante delle scogliere settentrionali di Leukade,
nel loro biancore calcareo tinto ora di un soffuso rosa tramonto. In alto la
vegetazione selvaggia trionfava, mentre alla base della bastionata rocciosa un
lungo tombolo sabbioso, coperto di erbe alofile e bassi cespugli stenti, si
protendeva verso il continente, a tal punto vicino da non distinguersene.
Mercurio era a prora del Tritone e sforzava lo sguardo a mano a mano che la
distanza diminuiva.
“Ma dov'è il canale?” Disse, rivolgendosi
al comandante.
Livio gli indicò un punto, a malapena
distinguibile, dove il tombolo accennava impercettibilmente ad abbassarsi.
“Si deve girare là. Scapolato quell'ultima
lingua di sabbia si entra nella laguna interna: da lì, sulla destra si vede
subito il villaggio di Leukade, con il suo piccolo porto. Il canale vero e
proprio comincia più a sud. E' ben segnalato per via dei bassifondi.”
“Mmmh. E' proprio un imbuto! Non sarebbe
meglio girare tutti intorno all'isola?”
“Sarebbe pericoloso, senti? Il vento si
sta alzando ora. Il mare potrebbe ingrossarsi e le navi grandi sarebbero molto
in difficoltà; non dimenticare che le onerarie trasportano i legionari, i
cavalli, le macchine belliche e le scorte di cibo. La perdita di una sola di
queste sarebbe un grave danno.”
“Sì. Hai ragione. Atteniamoci agli ordini
di Caio Didio: è la cosa migliore da fare.”
Il vento stava effettivamente rinforzando
e il mare, fino allora propizio, stava gonfiandosi. Entrarono nelle acque più
riparate della baia e diedero fondo.
Le ancore, grossi massi bucati trattenuti
da vigorose gomene, furono gettate in acqua.
Le navi, messe così al guinzaglio, si
orientarono assecondando la corrente, con le prue verso il mare aperto.
“Un'ottima posizione per ripartire subito,
ce ne fosse stato il bisogno.”
Stava considerando Mercurio, quando una
manata gli si abbatté veementemente sulla schiena, accompagnata da una
fragorosa risata.
“E allora, conquistatore di barbare! Cosa
racconti?”
Mercurio si girò, paonazzo in viso.
“Furio, accidenti a te, a momenti mi fai
sputare i polmoni!"
“Ma dai! Per uno come te, che si fa
travolgere da vino e donne e ne esce vincitore e con bottino al seguito, cosa
vuoi che sia! E che bottino...!fiuu!”.
Commentò appoggiandosi alla murata e
contemplando la nuova schiava del suo amico.
“Devi davvero essere rimasto simpatico a
Cleopatra, se ha pensato di regalarti un tale sollievo per lo...
spirito... ah, ah, ah!”
Concluse, infischiandosene
dell'occhiataccia di Mercurio.
“Povera ragazza, non si troverà molto bene
su una nave come questa, c'è poco spazio... per una donna poi!”
“Certo che sei ben strano, amico mio,
ma... ai tuoi tempi, cosa fate con le donne?Le guardate e basta? Il Fato ti ha
regalato una puledra così: divertiti, per Bacco!”
In quel momento Fryda alzò gli occhi verso
il suo padrone: nel suo sguardo difficilmente decifrabile, pareva brillare una
scintilla di riconoscenza.
Per la prima volta, da tanto tempo,
qualcuno l'aveva difesa. E quel qualcuno si era poi dimostrato umano, comprensivo,
attento alle sue esigenze, per quanto possibile, nelle ristrettezze di una nave
militare.
Mercurio le si avvicinò, lei si alzò dal
rotolo di gomene dov'era seduta, era alta, snella, con un sorriso luminoso e
triste allo stesso tempo.
“Hai bisogno di qualcosa, signore?” Disse.
“Ne hai più bisogno tu, credo. Cercherò,
in qualche modo, di tirarti fuori dalla spedizione: non è posto per donne,
questo.”
Bisbigliò Mercurio.
“Il mio posto è dov'è il padrone!”
Mercurio sorrise, scuotendo il capo.
Guardò lontano, a occidente, il sole tramontava per l'ennesima volta,
indifferente alle umane vicende: il cielo dapprima splendente d'oro, sfumò
rapidamente nel rosso, poi scurì, mentre il disco incandescente svaniva
progressivamente sull'orlo dell'orizzonte.
Presto fu notte.
Un refolo di vento lo investì ed un
brivido lo fece trasalire: strinse a sé la donna, la sentì morbida sotto le sue
mani, ma fu come se quasi commettesse un sacrilegio: foschi pensieri gli si
agitarono nel petto, a
volte si sentiva come se fosse l'unico
uomo vivo in un mondo di morti! Era una sensazione terribile che non gli
concedeva tregua: tanto per dirne una... quella donna avrebbe potuto essere una
sua antenata, per quel che ne sapeva... cosa stava facendo, allora? Eppure la
vita pulsava attorno a lui: tutto gli appariva così normale... Aspirò il forte
odore salmastro e si quietò. Non poteva farci nulla: quello, ora, era davvero
il suo mondo e almeno finora, come non unica consolazione, era sul mare, che
aveva sempre amato così tanto. E c'era Fryda, escludendo pensieri strani, come
compagnia non era davvero male... Le accarezzò il collo, solleticando poi la
nuca con le dita: la prese tra le braccia e la strinse. Si sorrisero e, mano
nella mano, si avviarono verso poppa.
Furio fingeva di guardare il passaggio di
uno stormo di gabbiani, fischiettando.
III
L'alba lo riscosse. Fryda dormiva,
raggomitolata vicino a lui. Guardandola, gli venne in mente una gattina.
L'accarezzò con lo sguardo. Si alzò il più silenziosamente possibile, per non
disturbarla, ed uscì dal ristrettissimo cubicolo, cui aveva diritto in qualità
di ufficiale comandante. Salì la scaletta lignea e fu sulla tolda.
Da poppa osservò brevemente i movimenti
del grosso della flotta che, pesantemente, arrancava in direzione del canale.
Tutto come preordinato: ecco che l'altra squadra di triremi, al comando di
Didio, si stava disponendo alla partenza. Furio era già a prora, con Livio:
stavano facendo salpare l'ancora. Il grosso masso uscì dall'acqua, gocciolando
e fu riposto, con un tonfo sordo, vicino all'albero di prua. Li raggiunse.
“Partenza?”
“Ohi, eccoti qui, finalmente!”Disse Furio
con un sorrisetto divertito.
Livio fece il saluto.
“Nave pronta, Legato!”
“Segnalate alla squadra: non appena
l'ultima nave di Didio ha defilato davanti a noi, prendiamo la loro scia e ci
muoviamo.”
“Agli ordini!” E Livio scattò via a dare
disposizioni.
“Dormito bene?”disse Furio, non riuscendo,
però, a nascondere un luccichio divertito in fondo allo sguardo.
“Un po' stretto, ma bene.” Rispose
Mercurio, ricambiando il sorriso.
Presto si avviarono: i remi entravano e
uscivano ritmicamente dall'acqua, sciabordando. Il canto si levò con il tamburo
che sottolineava il ritmo di voga: la costa alta e dirupata incombeva alla
sinistra con le sue bianche falesie.
IV
Cesare osservava, con una certa
impazienza, da poppa della Victoria, le operazioni di disimpegno dal canale
delle ultime navi da carico: quelle contenenti i cavalli. Le operazioni erano
andate più a lungo del
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previsto, ma ora, finalmente, poteva dare
ordine di proseguire. L'imponente schiera delle cinquereme si mosse
all'avanguardia, sospinte dallo sforzo combinato di centinaia di uomini
incatenati. Si spostò sul castello di prora. Un legionario lo salutò.
“Ave, Cesare!”
L'Imperatore lo considerò appena e si
concentrò su quello che avveniva intorno a loro. Tutto lo stato maggiore gli
fece ala. Mossero in avanti, inoltrandosi nel golfo di Meganissi per qualche
centinaio di
stadi. Quando ebbero sulla destra le isole
di Skorpios e di Sparti, videro muovere loro incontro un'imponente squadra
navale, prevalentemente costituita da triremi.
Il Legato Asinio Pollione si voltò verso
Cesare.
“Guarda, le nostre navi sono già qui! Sono
state veloci... ”poi la voce gli morì in gola.
Vide, infatti, le navi manovrare in
semicerchio, chiudendo rapidamente lo spazio di fronte a loro. Si udirono
ordini concitati, le vele furono abbassate e prontamente legate, e i rossi
stendardi di
combattimento fiorirono al colmo degli
alberi, guizzando nel vento. Un istante dopo un grosso dardo di balista sibilò
nell'aria e si piantò, vibrando come un serpente, nel parapetto a pochi palmi
da Cesare.
Dalla trireme che aveva tirato giunse
chiara una voce: “Cesare, sei finito! Non hai scampo!”
A gridare era stato un giovanotto sui
trent'anni, ben piazzato: spalle larghe e capelli castani ricciuti.
Guardava verso Cesare con un sorriso di
sfida.
Cesare fece una smorfia e batté il pugno
sulla murata.
“Sesto Pompeo!” Ruggì.
Asinio Pollione si guardò intorno
smarrito. Dietro di loro le lente navi onerarie avevano appena finito di riempire,
con la loro ingombrante presenza, la parte settentrionale, molto stretta, del
golfo. Davanti, la minacciosa flotta nemica chiudeva ogni via di uscita. Non
c'era soluzione alcuna.
“Sia... siamo in trappola!”Balbettò.
“Non finché io avrò vita!” Gridò Cesare.
“Uomini, agli scorpioni! Caricate le
catapulte! Segnalate alla squadra del Console Antonio quello che sta succedendo
qui, e che faccia sbarcare i legionari nel primo approdo che trova disponibile,
noi ci
batteremo per impedire che le sue navi
vengano raggiunte.”
I legionari scattarono, le baliste furono
approntate in un batter d'occhi, le sferraglianti catapulte vennero tese e
caricate. Presto i proiettili disegnarono le loro curve parabole schiantando le
murate e storpiando uomini, dall'una e dall'altra parte. I dardi delle baliste
colpivano ovunque, trafiggendo e decimando gli equipaggi e inchiodando le
macchine belliche.
Le agili triremi di Pompeo scattarono in
avanti a speroni bronzei protesi come agili orche in caccia di grosse e lente
balene.
La Battaglia degli stretti di Leukade era
iniziata.
Cesare fece accostare le pesanti navi da
guerra il più possibile tra loro, in modo da far da schermo alle navi onerarie,
le quali, intanto, avevano virato di bordo ed ora arrancavano pesantemente
verso la costa greca, cercando così di impedire il passaggio delle agili
triremi nemiche.
La manovra non riuscì però del tutto:
alcune navi di Pompeo sgusciarono tra i colossi di Cesare e aggredirono a colpi
di sperone i trasporti più attardati. L'Imperatore si accorse, con sommo
disappunto, di quelle navi in difficoltà: in alcuni punti vide anche alzarsi le
fiamme, in altri vide i legionari imbarcati tenere testa ferocemente ai pirati
arrembanti, in altri ancora li vide soccombere, ma non poté far nulla per
prestare soccorso: erano incalzati da ogni parte.
Lo spazio di manovra era ridotto al
minimo, perché Pompeo li aveva chiusi nella parte nord del golfo, più stretta,
mentre lui, nella parte ampia, disponeva di tutto lo spazio necessario. Cesare
guardò verso il
suo attendente.
“Silvano, la mia armatura!”ordinò
seccamente.
Questi corse negli alloggiamenti e fu
presto di ritorno. Aiutò poi Cesare a indossarla. Mentre allacciava il sagolino
sottogola dell'elmo, si rivolse ai suoi ufficiali, con aria estremamente
determinata, anche se si rendeva conto che la situazione era assai grave, non
disperava, ne aveva viste di peggio.
“Signori, la situazione appare forse
disperata ai vostri occhi, ma in realtà non è così grave. Sapete bene che le
triremi della nostra flotta stanno girando attorno all'isola. Si tratta di
resistere fino al loro arrivo!
Dopodiché i guai saranno tutti per Pompeo:
si troverà tra l'incudine e il martello e sarà schiacciato come una noce!
Andate tutti ai vostri posti: l'ordine è resistere e a qualsiasi costo. Non
rompete lo schieramento delle navi. Dovranno trovare un muro di ferro e fuoco
davanti a loro!” Gli ufficiali passarono rapidamente sulle navi accostate
diffondendo gli ordini ricevuti.
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“Certo che però il ragazzo di Pompeo
l'aveva pensata bene! Bella trappola mi ha teso...Tanto peggio per lui!” Disse
al Legato Pollione.
“O per noi?”
“Cosa intendi?”
“Se i nostri non arrivano in tempo?”
Cesare si voltò verso di lui con uno
sguardo carico di disprezzo.
“Vuoi dire nel caso che Pompeo avesse
mandato una squadra anche contro di loro?Allora moriremo con onore. Vuoi forse
vivere per sempre?”
E lo lasciò senza attendere risposta.
Pollione arrossì fino alle orecchie, svergognato.
Cesare si spostò dietro agli uomini che
manovravano uno scorpione,60 spedendo dardi infuocati verso il nemico,
incoraggiandoli.
“Ancora, ragazzi! Colpiteli!”
Si spostò poi verso il parapetto della
torre prodiera e guardò giù, sulla tolda: i legionari, in perfetto assetto di guerra
aspettavano impassibili il momento dell'arrembaggio dalle murate, gli scudi
serrati
nelle sinistre e i pila stretti nelle
destre pronti al lancio.
“Vieni ragazzo, vieni. Troverai questo
vecchio osso terribilmente duro da rodere!”
Pensò e agitò in alto il gladio dalla lama
istoriata, valutando la distanza tra le sue navi e quelle in arrivo.
Quando ritenne che fosse il momento gridò
a pieni polmoni:
“Legionari! Pronti al lancio!” Le braccia
si alzarono.
“Lanciate! Ora!”
Uno sciame di giavellotti salì in cielo,
oscurandolo, e si abbatté sulle tolde delle basse navi di Pompeo.
La strage fu terribile: numerosi marinai e
soldati caddero in acqua trafitti, alcuni letteralmente inchiodati ai loro
scudi trapassati: il mare si tinse di rosso, ma la carica delle triremi non si
arrestò. I legionari
scagliarono tutti i giavellotti della
riserva, poi snudarono i gladi, attendendo l'attacco finale, che venne presto.
Gli speroni bronzei cozzarono contro le
robuste carene rivestite di rame: in alcuni casi riuscirono a penetrare, in
altri casi scivolarono lungo il fianco e l'urto ebbe come esito l'andare in
frantumi di intere
file di remi. La fine pareva ormai
inevitabile: le navi di Cesare erano bloccate, incalzate da ogni parte.
Dal basso volarono i rampini e le orde dei
pirati si inerpicarono urlando su per le murate, agitando le armi.
I legionari fecero muro, per quanto
possibile, adottando lo schieramento di battaglia a terra; ma su delle navi
ondeggianti non era facile mantenere quell'ordine: presto il combattimento si
frantumò in una serie infinita di duelli corpo a corpo. Parate con gli scudi e
rapide stoccate di punta si ripetevano da ambo le parti. Morti e feriti si
accatastavano per ogni dove, il sangue arrossava le tolde e in lenti rivoli
purpurei, scorreva verso gli ombrinali e di qui in mare. Sesto Pompeo
combatteva come un leone alla testa dei suoi e gli avversari davanti a lui
cadevano come spighe sotto la falce del mietitore. La sua daga, più lunga delle
solite, gocciolava di sangue fino all'elsa. Strinse meglio l'impugnatura
divenuta scivolosa, serrò fortemente lo scudo e s'incuneò più profondamente
nella mischia. L'alto cimiero di crine nero sull'elmo greco che indossava
incuteva terrore: pareva Achille redivivo. Un unico pensiero aveva nella mente:
vendetta! Vendetta per suo padre, per suo fratello, per tutta la sua famiglia.
Aveva puntato subito sulla Victoria, al centro dello schieramento, pensando,
non a torto, che se fosse riuscito ad uccidere Cesare, la battaglia sarebbe
volta rapidamente a suo favore e ora era lì, a pochi cubiti dal suo eterno nemico,
il cui alto cimiero rosso scorgeva ergersi dietro le spalle di una selva
compatta di legionari.
Schivò un fendente, parò con lo scudo, e
colpì allo stomaco dell'avversario con una rapida stoccata.
Rientrò rapido in guardia tenendo il bordo
dello scudo a livello degli occhi: girandoli velocemente a destra e a sinistra,
notò che l'abbordaggio procedeva bene anche sui due lati dello schieramento.
Sorrise malignamente e urlò:
“Forza, uomini, li abbiamo in pugno,
ormai!”
Poi, guardando il suo nemico, sibilò:
“Sei mio!”
Cesare si accorse dello sbandamento che si
stava diffondendo tra le sue schiere.
Strappò di mano lo scudo ad un uomo che si
stava ritirando, ferito al petto e sanguinante, brandì il gladio e si spinse
decisamente nel vivo della lotta, gridando:
60 una sorta di grossa balestra montata su
un supporto.
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“A me, legionari della Decima! Vittoria o
morte!”
I legionari al vedere il gesto
dell'anziano comandante raddoppiarono gli sforzi e sospinsero lentamente, ma
inesorabilmente, gli avversari verso la murata.
Per un breve istante Cesare e Pompeo
furono di fronte, ma ebbero appena il tempo di guardarsi negli occhi: la
situazione cambiò in pochi istanti.
Pompeo fu richiamato nelle retrovie: due
triremi all'estremità sinistra dello schieramento della sua flotta avevano
preso fuoco e, nonostante gli sforzi degli equipaggi, il fuoco non si
estingueva, anzi, divampava sempre più.
Pareva che l'acqua lo alimentasse invece
di spegnerlo.
“Che succede? Perché non lo spengono?”
Diceva, mentre alle sue spalle la mischia ancora infuriava, guardando attonito
indietro dalla murata della Victoria: vedeva i suoi uomini affannarsi sempre
più disperati, perché ogni volta che lanciavano una secchiata d'acqua sul
fuoco, questo divampava sempre più alto. Sulla cima rosseggiante delle fiamme,
dense colonne di fumo nero si alzavano al cielo.
Quando vide le fiamme estendersi anche
sulle acque del mare, non poté trattenere l'angoscia e ordinò la ritirata.
“Appiccate il fuoco a tutto quello che
trovate!”
Ordinò, rovesciando egli stesso un
braciere.
E mentre i suoi uomini eseguivano
l'ordine, frapponendo un muro di fuoco tra loro e gli uomini di Cesare, saltò
sulla tolda della sua nave. Con un’agile capriola si rimise in piedi. Valutò
con occhi attenti la situazione. Gli equipaggi delle navi in fiamme si
salvavano, gettandosi in mare. Dietro le dense volute di fumo, una nuova
squadra navale era apparsa: triremi da battaglia, con le insegne di Cesare! Da cacciatore
era diventato preda. Un sorriso da lupo gli illuminò il volto: non lo avevano
ancora preso.
E non sarebbe stato facile. Brandì la
spada, gonfiò il petto e gridò:
“Didimios!” Il gigantesco Trace gli fu
accanto, sporco di sangue dalla testa ai piedi.
“Va giù e ordina ai rematori la manovra di
disimpegno!”
Il gladiatore partì di corsa.
In breve tempo, mentre i pirati tornavano
a bordo sganciandosi dal combattimento, i rampini furono tagliati. I remi
agirono poderosamente all'indietro, al ritmo scandito dal tamburo. Lo sperone
fuoriuscì dalla ferita inferta al fasciame della Victoria: come un fiotto di
sangue, l'acqua ne invase la stiva.
Pompeo valutò con un'occhiata il danno
inferto, poi alzò gli occhi sulla tolda della nave nemica e vide l'equipaggio
affannato nello spegnimento dell'incendio. Fece un cenno di assenso col capo.
“Hanno altro a cui pensare che a badare a
noi.”
Si gettò sul timone dando a gran voce gli
ordini per la manovra. I remi ben coordinati si mossero in modo opposto sulle
due fiancate e la nave virò su se stessa con la grazia di un cigno, fendendo le
onde
con la prua rivolta contro i nuovi nemici
in arrivo.
Appena in tempo. Con un boato tremendo la
nave vicina esplose in tanti pezzi.
Frammenti di murata e remi spezzati
volarono in aria. Pompeo si girò sorpreso: in tempo per vedere il temibile e
pesantissimo gancio ferreo, lanciato dall'onagro della Victoria, fendere le
onde sotto l'azione dell'argano di recupero. Vide anche la grande stizza di
Cesare per il colpo mancato. Il condottiero era sul castello di prua, vicino
alla macchina bellica: stava imprecando.
Lo salutò ironicamente con la mano.
Bruciare o andare a fondo: questo era il
suo destino, ormai.
V
Le bianche falesie digradavano come lunghe
dita affusolate immergendosi nel mare. A mano a mano che procedevano verso sud,
si facevano meno alte e incombenti. Sulle scogliere immensi stormi di uccelli marini,
neri cormorani per lo più, volavano attorno, gettandosi a capofitto nell'acqua
marina. Uscivano poi dalle onde spumeggianti, stringendo nel forte becco i
guizzanti pesci catturati. Uno scrollo delle grandi ali ed erano di nuovo in
volo.
Le due squadre di triremi, accompagnate
dalle biremi e dalle più piccole liburne, remavano silenziosamente sotto costa.
Giunsero all'estremità sud dell'isola di
Leukade: una serie di rocciosi promontori terminanti in poderosi faraglioni.
Virarono a sinistra, seguendo sempre il profilo tormentato dell'isola, e si
diressero verso
Meganissi: altra isola che sbarrava, con
un lunghissimo promontorio proteso verso sud-est, l'accesso al golfo omonimo.
A nord-nord-est, uno stretto braccio di
mare, terminante presso Skorpios, un'isola di dimensioni minori, la separava da
Leukade.
Giunti che furono presso l'imboccatura di
detto canale, il vento cambiò direzione. Un forte odore di fumo arrivò alle
narici di Furio, che arricciò il naso. “Qualcosa sta bruciando!”
“E qualcosa di grosso! Ma cosa?” Rispose
Mercurio.
Si girarono in tutte le direzioni, ma non
videro incendi sulle isole. La lussureggiante copertura di pini d'Aleppo e pini
marittimi era intatta. Gli uccelli volavano tranquillamente. Si guardarono in
faccia contemporaneamente, sbarrando gli occhi.
“La flotta!”
Un grido d'avvertimento arrivò in quel
momento. Si voltarono simultaneamente verso la Giunone. La nave di Gaio Didio
stava accostando.
I rematori delle navi affiancate smisero
di remare all'unisono: le due navi si trovavano a pochi cubiti di distanza,
quando Didio parlò.
“Mercurio! Cesare è in pericolo! Questo
fumo non viene da un bosco in fiamme!”
“L'avevamo capito!”
“Direi di dividerci: tu con le tue navi
risali il canale tra Meganissi e Leukade, io con le mie giro intorno al
promontorio.”
“Manovra a tenaglia?”
“Esattamente!”
“D'accordo, muoviamoci!”
“Sii prudente, non attaccare finché non ti
è chiara la situazione.”
“Va bene!”
La flotta si divise rapidamente. Mercurio
aspettò con le sue navi finché l'ultima trireme della squadra di Didio non
sfilò davanti alla prora del suo Tritone.
Si girò allora verso Livio: “Segnala a
tutta la squadra di avanzare lentamente, procurando di fare meno rumore
possibile. Legate le vele e qualsiasi altra cosa che possa cadere voglio che
sia assicurata
saldamente.”
“Quando saremo all'altezza dello sbocco
del canale ci apriremo a ventaglio, tenendo Skorpios a sinistra.
Anzi, ora che ci penso, sarà bene mandare
un paio di liburne a controllare il passaggio tra quell'isola e Leukade. Non
voglio sorprese.”
Guardò fisso il subordinato e disse:
“Vai!”
L'altro scattò, fece il saluto ed eseguì
l'ordine.
“Furio, fai portare sul ponte quelle
anfore che ho fatto caricare a Brundisium, mettine una sul cucchiaio della
catapulta e fai preparare le baliste.”
“Quella robaccia puzzolente? Mi vuoi dire
una buona volta a che serve?”
“Vedrai... vedrai. Ora avviamoci.”
Sollevò il braccio e dette il segnale: la
squadra delle triremi si avviò ordinatamente nello stretto canale.
Mercurio osservava con crescente ansietà
le pareti rocciose a destra e a sinistra della nave, i remi battevano l'acqua
silenziosamente. Solo un lieve sciabordio rompeva quel silenzio. Ma il suo
cuore batteva sempre più rumorosamente dentro di lui. A un certo punto, dopo
l'ennesima svolta, vedendo un panorama sempre uguale, rocce a destra,
strapiombi a sinistra, dette un pugno sulla murata.
Furio lo guardò. “Qualcosa ti preoccupa?”
“Sì, sto pensando a Fryda, non voglio
coinvolgerla nella battaglia e vorrei sbarcarla in qualche punto, ma non c'è
l'ombra di una spiaggia: sono tutte scogliere!”
Una voce alle sue spalle lo fece
trasalire.
“Dove va il Legato, là va anche la sua
donna! Non pensare che tra gli Svevi le donne non sappiano combattere!”
Mercurio e Furio si voltarono sorpresi,
davanti a loro era la ragazza: si era messa alla meglio un corsetto di cuoio,
rimediato chissà come, e impugnava con difficoltà un gladio. Un sorriso fiero e
selvaggio le
illuminava il volto, i capelli
scompigliati dalla brezza marina le incorniciavano i lineamenti finissimi.
“No, Fryda. Non è posto per te... ”
Cominciò a dire Mercurio. Ma la donna lo
zittì.
“E dove devo andare? L'hai appena detto
tu: non c'è approdo. Non posso sbarcare. Fryda ha già perso tutti quelli che
amava. Se perdo anche te... meglio morta!” Lo guardò con aria di sfida...
98
Mercurio crollò il capo, le si avvicinò,
le prese le mani e la guardò fisso negli occhi.
“Promettimi che non farai imprudenze, stai
al riparo il più possibile!Promesso?”
La giovane donna assentì. In un sussurro,
che solo Mercurio udì, rispose a sua volta:
“Non morire, Legato, non morire...” E una
lacrima le scivolò sul viso.
Mercurio la guardò intensamente.
“Non dipende da me, ma farò il possibile.”
Pensò.
“Stai tranquilla, non succederà!”
Strinse forte a sé la fanciulla. Poi si
voltò. “Furio, te la affido. Bada a lei!”
Il Prefetto assentì e la prese per un
braccio, la condusse a poppa, presso i timonieri.
“Stai qui.” le disse, sistemandola dietro
un grosso rotolo di gomena. “In caso di pericolo saprò dove trovarti e verrò a
difenderti.” Fryda assentì col capo e strinse forte il gladio, assumendo
un'aria risoluta.
“Anch'io vi difenderò in caso di
pericolo!”
Furio sorrise divertito. “Va bene!Brava la
nostra intrepida amazzone.” Disse.
Le diede un buffetto sulla guancia e si
spostò nuovamente verso prora.
Fece caricare la catapulta con l'anfora
maleodorante e sistemare le altre a portata di mano, poi raggiunse Mercurio che
stava armeggiando con il sistema di caricamento di una delle due baliste di
bordo: vide che aveva fatto sistemare un piccolo braciere vicino all'arma. I
serventi al pezzo erano invece impegnati ad avvolgere di stoppacci le punte dei
dardi, robuste frecce lunghe quattro cubiti.
Mercurio lo vide arrivare. “Tutto a
posto?”
“Tutto in ordine, mio comandante!
Catapulta carica e amazzoni in riserva a poppa, pronte ad intervenire!”
Scherzò, come suo solito. Mercurio sorrise a sua volta.
“Bene, andiamo a vedere cosa ci aspetta!”
Il Tritone svoltò l'ultima curva del
canale ed entrò nell'ampio golfo virando verso destra: le altre navi defilarono
in modo da allargare il fronte e procedettero poi di conserva tutte affiancate,
solo due agili
liburne procedettero dritte dirigendosi
verso il profilo dirupato della rocciosa Skorpios. Lo spettacolo che si
presentò ai loro occhi era spaventoso: le navi di Cesare erano bloccate in
difesa, la flotta di Pompeo attaccava su tutto il fronte; più internamente
nella grande insenatura si distinguevano appena, a causa del fumo dei vari
incendi, altre navi in lotta: aguzzando la vista, videro che si trattava dei
trasporti e della nave di Cleopatra, anche loro incalzati dalle veloci triremi
nemiche.
“Dopo il fumo, ecco l'arrosto!Furio,
vediamo di fare una sorpresa ai nostri amici!” Disse Mercurio.
Valutò la posizione della sua squadra con
un'occhiata.
“Non abbiamo tempo di aspettare Didio,
guarda Furio, non è la Victoria quella nave al centro dello schieramento che
sta bruciando?”
Furio salì sulla murata, attaccandosi alle
sartie e aguzzò la vista.
“Direi proprio di sì.” Rispose con una
smorfia.
“Diamoci da fare allora. Livio! Segnala
l'avanzata!”
Una nota acuta riempì l'aria, i remi si
abbassarono frenetici, battendo sulle piccole onde e la squadra si mosse,
divorando lo spazio di mare che la separava dalla retroguardia della flotta
ribelle. Al segnale del Legato i tamburi cominciarono a rimbombare. Si udì un
grido: “Rematori, cadenza di speronamento!"
I remi si alzarono e sprofondarono
nell'acqua, riaffiorarono e sprofondarono nuovamente, sempre più veloci. Le
triremi di Mercurio partirono all'attacco, gli speroni bronzei protesi
fendettero,
spumeggiando, le tranquille acque del
golfo di Meganissi. Il Legato scese brevemente nella stiva, guardò i rematori
incatenati: tutti gli sguardi di quei disgraziati si concentrarono su di lui.
Si rivolse al capovoga e disse una sola parola:
“Liberali!” Poi risalì la scaletta, mentre
i ceppi venivano aperti.
Ursus rimase a lungo a fissare la scaletta
dove il comandante era appena scomparso: non disse parola, guardò la catena che
veniva sfilata dal suo anello e continuò a vogare. Risalito sul ponte Mercurio
vide che la distanza dagli avversari era diminuita fino al tiro utile della
catapulta. Si avvicinò ai serventi, che nel frattempo avevano messo in tensione
l'arma, valutò ancora una volta la distanza e poi disse:
“Pronti!Lanciate!”
L'anfora volò in aria e compiuta la sua
parabola si schiantò sulla tolda della trireme presa di mira, andando in pezzi.
Un puzzo tremendo si sviluppò nell'aria e i marinai cominciarono a tossire.
“Bravo! Li soffocherai con la tua
puzzolente mistura!”
Disse Furio, ridendo e snudando il gladio:
”Sarà meglio che lasci fare ai professionisti! Uomini! Pronti allo
speronamento!”
“No!” Gridò Mercurio "Pronti a
virare, invece!”
Mentre Furio rimase perplesso con il
gladio a mezz'aria, Mercurio si precipitò alla balista, la brandì, fece
accendere lo stoppaccio del dardo, prese la mira e premette la leva di
rilascio. Il proiettile infuocato saettò in direzione della nave nemica, colpì
il ponte e un immediato, furioso, indomabile incendio, avvolse l'imbarcazione
in meno di un secondo. Vani furono i tentativi dell'equipaggio di spegnere le fiamme:
ogni secchio d'acqua rovesciato provocava una recrudescenza del fuoco. La
seconda anfora che si infranse sulla chiglia della nave incendiata ne decretò
la fine.
Una fiammata immane la avvolse e la nave
scomparve in una nube nera con tutto l'equipaggio. Il Tritone virò di bordo,
sorpassando il relitto a poppa e avventandosi sulla nave successiva. Furio era
rimasto incredulo, davanti a quello spettacolo di distruzione del tutto
inatteso e si riparava il viso con le mani dalla vampa di calore terribile che
si era sviluppata; a mano a mano che si allontanavano dal relitto in fiamme,
rimaneva lì, stordito, a fissarlo con la bocca aperta.
Del resto tutti a bordo erano rimasti come
bloccati dalla sorpresa, ma poi, valutata l'efficacia della nuova arma, erano
esplosi in grida di giubilo. Furio guardò verso Mercurio. Questi lo osservava
di sottecchi, sorridendo beffardo.
“Che dicevi dei professionisti?”
Furio si tolse l'elmo e si diede una
furiosa grattata alla nuca: aveva i capelli irti dallo spavento e gli occhi
sbarrati come un gufo.
“Mi venisse un colpo! Questa... questa è
stregoneria!”
“No amico. E' fuoco greco!”
Furio corrugò la fronte. “Fuoco che?”
“Fuoco greco, una scoperta che sarebbe
dovuta avvenire tra qualche secolo, ma già che sono qui e so come si fa a produrlo...
perché non prendersi un piccolo vantaggio?”
“Pazzesco!"
“Utile, direi, avanti ragazzi, armi in
mano! Tamburo, sequenza di speronamento!”
Il tamburo risuonò lugubremente,
cadenzando il ritmo, e i remi diedero spinta. La nave virò agilmente e si mise
in caccia dell'avversario successivo, che fu presto identificato in un'altra
trireme di Sesto Pompeo. Ancora una volta la catapulta lanciò il suo carico
letale, che si infranse sulla chiglia. Mercurio scagliò il proiettile infuocato
dallo scorpione sito a prora del Tritone e questo colpì il bersaglio che fu istantaneamente
avvolto da una fiammata immensa; anche stavolta l'equipaggio si prodigò
inutilmente cercando di spegnere l'incendio, ma ad ogni secchio d'acqua
scagliato le fiamme si intensificavano e presto furono costretti ad abbandonare
la nave, salvandosi a nuoto.
“C'è una cosa che non capisco proprio...”
Furio era appoggiato alla murata di
sinistra del Tritone e osservava terrificato lo spettacolo che aveva davanti:
una possente trireme che andava in fumo in pochi istanti.
“Cosa?”
“Perché non riescono a spegnerlo?”
“Perché nella miscela ho messo ossido di
calcio, che reagendo con l'acqua forma il corrispondente idrossido. E' una
reazione fortemente esotermica, quindi c'è un forte aumento di temperatura che
aiuta la combustione degli idrocarburi... ”
Mercurio si fermò, lo sguardo smarrito del
suo amico lo riportò all'epoca in cui si trovava.
“Va be'!” Fece spallucce “Insomma, volevo
dire: hai presente quella sostanza bianca, che si usa nell'edilizia per legare
i mattoni?”
“La calce? Certo.”
“Ecco, hai mai notato che quando la si
bagna si scalda moltissimo?”
“Già', è vero.”
“Bene, questa è quello che intendo per
reazione esotermica. Che avviene, cioè, sviluppando calore.”
“Questo vuol dire che le secchiate d'acqua
fanno aumentare il caldo, invece di diminuirlo?E quindi lefiamme aumentano di
intensità?”
“Esattamente.”
“Ma, alla fine... cosa c'è dentro?”
“Va bene,se proprio insisti, te lo dico:
ignem graecum tali modo facio: recipe sulphur vivum, tartarum, sarcocollam et
piceam, sale coctum, oleum, petroleum et oleum gemmae. Facias bullire invicem
omnia ista bene. Postea impone stupa et accende, quod si voluens exhibere per
embotum, ut supra diximus.
Stupa illimita non extinguetur, nisi
urina, vel aceto, vel arena.”
Furio rimase meditabondo a lungo,
guardando lo spettacolo terribile che si allontanava a poppa e lanciando ogni
tanto occhiate piene di ammirazione verso il Legato. Alla fine scosse la testa.
“Quindi non c'è proprio modo di
spegnerlo.”
“No.”
“Incredibile... ” Mormorò.
“Ne abbiamo ancora?”
“Di anfore incendiarie?No, le abbiamo
finite.”
“Peccato, ma vedremo di farne a meno.”
Tutt'intorno a loro la battaglia
infuriava: le navi della squadra di soccorso erano entrate in contatto con la
retroguardia pompeiana, speronando altrettanti bersagli e il combattimento si
era subito scatenato sulle tolde traballanti.
I legionari imbarcati scagliavano i loro
pila contro gli avversari, poi, mentre questi erano impegnati a svellere i
giavellotti, ormai piegati dai loro scudi appesantiti, dilagavano sulle tolde
nemiche con il gladio in pugno, avventandosi sugli avversari in difficoltà e
facendone strage. L'arrivo della squadra al comando di Didio, segnò la svolta
definitiva della battaglia.
Chiusa da ogni parte, la flotta di Pompeo,
pur combattendo accanitamente, stava avendo la peggio.
Ma le sorprese non erano ancora finite. Il
Tritone si trovava in quel momento accostato ad una nave avversaria, che
avevano agganciato con il corvo e Mercurio, con Furio e gli altri erano
impegnati in combattimento, quando un immenso e fragoroso urto si ripercosse
dalla fiancata, su tutta la struttura della nave, che gemette e sbandò.
L'alta prora, dal minaccioso occhio
dipinto, della Nemesis, la nave di Pompeo, torreggiava su di loro:
dallo squarcio prodotto dallo sperone
nella fiancata, tonnellate d'acqua si rovesciavano all'interno della trireme
ormai condannata.
La potenza del colpo fu tale che Mercurio,
Furio, Fryda e molti altri furono sbalzati in mare. Mercurio non ebbe altro tempo
che quello di gridare:
“Furio, bada a Fryda!”Che il peso delle
armi lo tirò sott'acqua.
Furio invece, vuoi per la lunga pratica
nell'indossare e togliere l'armatura, che per la sua ben nota vigoria fisica,
riuscì a liberarsi dal pesante fardello, tenendo solo il gladio, stretto tra i
denti per la lama.
Si guardò attorno, tra i relitti e i corpi
galleggianti di morti e feriti, schegge di legno e remi spezzati.
La confusione era indescrivibile e non
vide nulla. Mercurio e Fryda erano scomparsi. Sopra di lui sentì gli ordini
secchi di Pompeo, che ordinava il disimpegno: anche lui non aveva tempo da
perdere, evidentemente.
La Nemesis si disincagliò dal relitto del
povero Tritone, che in pochi minuti sarebbe affondato, tale era stato il colpo
da non lasciare nessuna speranza di galleggiamento. Sentì voci venire
dall'alto:
“Sicuro che fosse questa la nave che
scagliava quel fuoco inestinguibile?”
“Ne sono certo, Decimo Bruto!” Rispose
Pompeo.
“Il maledetto traditore!”Pensò Furio,
sussultando.
“Peccato non aver potuto scoprire di cosa
si trattava.”
“Almeno non può più nuocere...Via, ora
dobbiamo sganciarci, ma... ehi! E quella chi è? Una donna in mare? Presto, una
cima!”
Troppo lontano per intervenire, Furio vide
Fryda, semi svenuta, che veniva issata a braccia sulla nave di Pompeo. Poté
solo udire alcune parole, mentre la Nemesis, scortata da altre due triremi si
allontanava:
“Che ci faceva una donna su una nave
militare?”
“Vedrai, lo scopriremo... ”
Poi, non udì più nulla. La nave si
allontanò rapidamente, seguita da presso da altre due triremi. Furio provò
disperatamente a nuotare nella scia del vascello in fuga, in un vano tentativo
di inseguimento,
finché le forze lo abbandonarono e fu
costretto a desistere. Le seguì con lo sguardo, finché poté, prendendo nota
della direzione.
Quando le navi nemiche scomparvero dietro
il fumo degli incendi, si riscosse.
“Per gli dei!” pensò “questa Mercurio non
me la perdonerà mai!”
61 Geniale intuizione di Gaio Mario: il
pilum era costruito in modo da piegarsi nell'impatto, rendendolo così inutilizzabile
da parte del nemico.
62 Sorta di passerella girevole dotata in
cima di un uncino ferreo atto ad agganciare un'altra nave.
101
Questo pensiero gli mise in mente che
anche il suo amico avrebbe potuto trovarsi nei guai e il cuore gli si strinse
nel petto. Gettò via il gladio, rendendosi conto della sua inutilità, e girò
freneticamente lo
sguardo tra i relitti galleggianti, ma non
vide nulla muoversi.
“Mercurio!”Gridò. “Mercuriooo!” Ma non
ebbe risposta.
Si guardò intorno angosciato. Chiamò
ancora a lungo, ma invano. Si mise a nuotare da un corpo all'altro, cercando il
viso dell'amico in ogni cadavere che, galleggiando, gli passava accanto ma, non
trovandolo da nessuna parte, cominciò a pensare che il peso delle armi lo avesse
tirato a fondo.
Amareggiato da questo funesto pensiero, si
lasciò andare alla deriva attaccato ad un pezzo di murata che si era trovato a
galleggiare vicino. In lontananza il combattimento continuava, ma a lui non
importava più: aveva perso il suo amico e non era neanche riuscito a salvare
Fryda. Si sentiva inutile, si riebbe da quella sorta di torpore solo dopo molto
tempo, sentendosi chiamare.
“Ehi, laggiù, Prefetto Furio! Serve un
passaggio?”
Si voltò.
La potente Giunone, che era la trireme di
Gaio Didio, incombeva su di lui.
Il navarca era appoggiato alla murata e lo
chiamava. Alcuni uomini gli gettarono una cima.
Lui l'afferrò e salì a bordo, dove si
accasciò, stremato per la lunga permanenza in mare e tremante per lo sforzo.
Qualcuno gli posò un mantello asciutto sulle spalle. Lui lo strinse,
rabbrividendo.
Didio gli si avvicinò e si accovacciò
accanto a lui.
“Portategli dell'acqua.”
“Meglio un po' di vino.” Rispose Furio.
Qualcuno gli porse un piccolo otre e lui
ne bevve una lunga sorsata. Sospirò e guardò Didio in viso, ringraziandolo con
un cenno del capo.
Questi gli parlò.
“Amico mio” disse: “Sai per caso che ne è
stato del Legato Mercurio? Alla fine della battaglia, facendo l'appello delle
navi, ci siamo accorti della vostra mancanza e vi siamo venuti a cercare.
Cesare, infatti, ha ordinato ad una parte della squadra di inseguire le navi
nemiche in fuga e alle altre di salvare i naufraghi.”
“Temo... temo che sia andato a fondo. L'ho
cercato ovunque, tra i morti e i feriti, ma non c'era.”
“E la sua donna?”
Furio si incupì.
“Presa da Pompeo... Ah! E a bordo di
quella nave c'era almeno uno dei congiurati superstiti, ho... ho udito fare il
nome di Decimo Bruto.”
Balbettò con il cuore stretto in una
morsa. Tutti si guardarono smarriti.
Gaio Didio si rialzò. Guardò l'orizzonte:
una distesa fumante di relitti e corpi di morti e feriti.
“L'uomo che viene dal domani...Sarebbe
davvero una grave perdita...”
Mormorò tra sé.
“Ma non disperiamo! Avanti, uomini;
cercate, cerchiamo ancora! Laggiù, fate attenzione a tutto quello che
galleggia!”
La Giunone riprese a muoversi, scivolando
lenta tra i rottami e carcasse di navi semi affondate. Gli occhi di tutti
attenti ad ogni movimento, ad ogni pur minimo segno di vita. Altre navi si
unirono presto alla ricerca e recuperarono moltissimi uomini, ma per Mercurio
fu tutto inutile: di lui, nessuna traccia.
Le ombre della sera scivolarono
inesorabili sul golfo e le ricerche alla fine dovettero essere sospese.
Le navi rimasero alla fonda dove erano
state colte dall’oscurità, oscillando nella lievissima risacca notturna.
Furio stava a prora, con una torcia in
mano, sperando ancora di poter scorgere il suo amico in quella poca luce. Didio
e gli altri ufficiali cenavano a poppa, rivolgendo ogni tanto uno sguardo di commiserazione
al loro compagno che non riusciva a rassegnarsi.
Ci fu poi movimento presso la murata di
dritta, si udirono voci di avvertimento provenire dal mare, alcune luci
scivolarono sull'acqua nera come l'inchiostro: una piccola barca attraccò alla
trireme e un uomo salì a bordo.
Didio si alzò sorpreso, gli andò incontro
e lo salutò. Così fecero gli altri ufficiali.
“Dov'è Furio?”disse il nuovo arrivato.
“A prora.” Rispose Didio.
“Vado da lui.”
L'uomo si mosse silenziosamente e si portò
alle spalle del Prefetto.
102
Tutto era tenebra intorno, solo la fiamma
rossastra della torcia, tenuta alta dalla mano di Furio, creava un debole bolla
luminescente e lui, circonfuso da quell'alone, fissava ostinatamente davanti a
sé.
Una mano gli si posò sulla spalla,
riscuotendolo dai suoi pensieri.
“Lo troveremo, Furio, te lo prometto!”
Furio trasalì voltandosi e la luce fece
emergere dal buio un viso a lui ben noto.
“Cesare...!”
VI
Mercurio stava lottando disperatamente:
era riuscito a sganciare tutte le fibbie che stringevano l'armatura, meno
l'ultima. Per quanti sforzi facesse, non c'era verso, la maledetta non voleva
proprio saperne di aprirsi. Piano piano le forze gli venivano meno, mentre
lottava per rimanere a galla e prendere fiato. Non aveva chiaro cosa fosse
successo. Ricordava di aver udito un forte boato e, subito dopo, un tremendo
contraccolpo lo aveva scaraventato in mare mentre stavano combattendo corpo a corpo
con l'equipaggio di una nave pirata che avevano agganciato. Aveva urlato a
Furio di badare a Fryda, ma poi aveva dovuto pensare a salvare se stesso, cosa
che, peraltro, non è che gli stesse riuscendo tanto bene.
A poco a poco sentì le forze abbandonarlo,
si guardò intorno un'ultima volta, dimenando le gambe furiosamente per
sostenersi e cercando con lo sguardo un appiglio qualsiasi, una tavola, un
rottame a cui aggrapparsi, ma niente, non ce n'erano, perlomeno, non a portata
di mano. Quando fu completamente sfinito, smise di lottare e, ormai rassegnato
all'inevitabile, scivolò sott'acqua.
Vide pian piano la superficie
allontanarsi, un mondo acqueo verde e silenzioso lo avvolse; in un ultimo barlume
di coscienza, mentre i polmoni bruciavano alla prima inalata di acqua salata,
pensò al suo
strano destino: il tempo, alla fine, aveva
vinto. L'anomalia dovuta alla sua presenza stava per chiudersi definitivamente
con la sua morte. Che ne sarebbe stato del mondo nel futuro, lui, che ne era
stato l'artefice, non l'avrebbe mai saputo...che beffa gli aveva giocato la
sorte. Nei suoi ultimi pensieri rivide il volto di Furio, vide Cesare impegnato
in chissà quale battaglia...vide lo sguardo amorevole di Fryda che gli
diceva:“Non morire, Legato, non morire...”
“Eh, se solo potessi...”
Questo fu l'ultimo pensiero coerente che
gli venne, poi la mancanza di ossigeno ebbe la meglio: tutto diventò confuso e
svenne. La morte sarebbe sopravvenuta di lì a pochi istanti, se due mani dalla
forza immensa, in quel momento, non lo avessero afferrato sotto le ascelle,
interrompendone la discesa. Con uno strappo violento, il soccorritore lo liberò
dalla fibbia, rompendola, e la gran parte dell'armatura proseguì la sua discesa
verso l'abisso priv a del proprietario. Subito dopo, dato un poderoso colpo di reni,
l'uomo che lo aveva salvatosi spinse verso la superficie: con un braccio
sosteneva il corpo inerte di Mercurio, mentre con l'altro e con le gambe
nuotava vigorosamente. L’emersione avvenne con grande fragore. L'uomo prese
fiato rumorosamente e a lungo, ansimando per lo sforzo. Dopodiché si guardò intorno,
cercò di scuotere Mercurio per farlo riprendere: non riuscendoci e vedendo lì
vicino un pezzo di tavolato di grandi dimensioni, vi scaraventò il corpo inerte
del Legato senza troppi complimenti. Vi si issò anche lui pochi istanti dopo,
badando a non far rovesciare il precario e fragile natante. Prese Mercurio per
le braccia e lo scosse vigorosamente. Passò poi a premere ritmicamente sul
petto del naufrago per far uscire l'acqua dai polmoni: ma niente, Mercurio
restava inerte, nulla pareva in grado di riportarlo in sé.
“Dai, Romano!”disse dopo un po' “Respira,
non mi avrai fatto fare tutta questa fatica per niente...”
Perso per perso, ricorse alle maniere
forti: mollando al malcapitato due terribili manrovesci. Mercurio tossì
ripetutamente. Si lamentò per il dolore, poi vomitò acqua salata sia dal naso
che dalla bocca, tossì ancora finché, stremato, non la smise e si guardò in
giro con occhi vacui. Accanto a lui vide un colosso dai capelli biondastri, il
viso barbuto incrostato di salsedine e con i polsi segnati dai ceppi.
“Ursus...” mormorò. “Che ci fai qui?”
“Pago il mio debito, Romano! Qualsiasi
altro della tua razza l'avrei lasciato andare a fondo con piacere.
Ma non tu. Con l'ordine che hai dato di
liberarci dai ceppi, hai salvato me e molti altri dei miei compagni di
sventura. Questo era il mio debito, l'ho pagato salvandoti e ora siamo pari.”
Ursus sottolineò la fine del discorso con
un grugnito di soddisfazione e si distese sul tavolato, rilassandosi.
Mercurio si guardò in giro, perplesso; in
lontananza vide fumo e navi che si inseguivano e si scontravano: la battaglia
infuriava ancora, evidentemente.
Ma quelle navi non erano raggiungibili in
alcun modo: erano stati presi da una corrente che li spingeva lontano. Il
pensiero corse immediatamente a Fryda e a Furio: che ne era stato di loro? Si
erano salvati, oppure...
“Dove andremo a finire, secondo te?"
Disse improvvisamente il barbaro, interrompendo il filo dei suoi pensieri.
Mercurio guardò in direzione opposta alle
flotte combattenti e vide profilarsi la costa di un'isola. Un vasto promontorio
verdeggiante che si distendeva in mare, protendendosi verso nord nel grande
golfo, simile ad una grande mano, ricco di profonde insenature, di scogliere e
grotte marine, veniva loro incontro.
“Su Meganissi, direi, e forse non ci vorrà
poi molto. Se la corrente continua a spingerci così, tra un paio d'ore dovremmo
approdare su quella spiaggia laggiù.”
“Già, e, visto che non abbiamo remi, non
ci resta che aspettare riposandoci, poi, una volta a terra, ognuno per sé, sei
d'accordo?”
Mercurio valutò la possanza fisica
dell'altro uomo: in quale modo avrebbe potuto opporsi? Annuì.
“Certamente. Ognuno per sé, io non ti ho
mai visto.”
Ursus grugnì soddisfatto. “Bravo Romano,
questo è parlare.”
Ormai, della battaglia, non si vedeva più
nulla, se non solo una densa foschia che copriva l'orizzonte.
L'oscurità cominciò a calare,
sorprendendoli molto vicino ad una scogliera semi sommersa e, giusto per non
farsi mancare nulla, il vento rinfrescò proprio in quel momento. Ursus si
avvide per primo del pericolo. Si gettò a pancia sotto e cominciò a remare
vigorosamente con le due mani, spostando quel natante assai improvvisato verso
l'accogliente insenatura che si profilava sulla destra.
“Che succede?” Disse Mercurio.
“Scogli a pelo d'acqua e mare che
rinforza: datti da fare anche tu, Romano, se ti preme la pelle! Non ne siamo
ancora fuori!”
I due uomini, consci del calare del buio e
del pericolo di essere sbattuti sugli scogli dalla risacca, moltiplicarono gli
sforzi e dopo alcuni minuti, che parvero ore, riuscirono a guadagnare
l'imboccatura
della profonda insenatura.
Da qui in poi, la spinta delle onde fece
il resto del lavoro. Passarono a fianco di un grande antro oscuro, di cui
intravidero appena l'immensa arcata, perduta in alto nella bianca scogliera:
“Una grotta aperta sul mare, sicuramente”
Pensò Mercurio.
Poi udirono il frangere lieve delle onde
sulla sabbia. Quando, finalmente, i loro piedi toccarono il fondale, tirarono
un sospiro di sollievo. Abbandonarono il relitto e, in poche bracciate, furono
a riva:
dove giacquero a lungo, esausti.
La sera stava calando rapidamente e il
vento fresco li fece rabbrividire. “Muoviti, Ursus, se restiamo qui ci
prendiamo un accidente!”
“Che fai, Romano? Ricominci a dare ordini?
Si era detto ognuno per sé, ricordi?”
“E dove vorresti andare? E' buio, ormai!
Finiresti per cadere in qualche forra, romperti le ossa e non poterne più
uscire... non fare polemiche inutili e vediamo se si riesce a trovare un riparo
sicuro per la notte.”
Ursus inarcò le sopracciglia, incrociò le
potentissime braccia, ci pensò su un momento, poi scrollò il testone leonino.
“Sta bene” grugnì. “Hai ragione!.”
Si avviarono, risalendo la spiaggia.
Giunti che furono al limitare della vegetazione, incontrarono presto un luogo
dove la roccia si incurvava, formando così un naturale riparo. Il suolo era
ricoperto di cumuli di aghi di pino portati dal vento.
“Toh!” fece Ursus. “C'è pure un giaciglio!
Che comodità!”
I due, ormai esausti, si lasciarono andare
a terra e presto si assopirono, ma non era passata neanche un'ora che Ursus si
riscosse. Rumori provenivano dal mare. Si alzò e, silenzioso come un grosso
gatto, si avvicinò alla riva. Gli si presentò uno spettacolo inatteso: la luna
piena brillava alta nel cielo, illuminando quasi a giorno l'insenatura e più in
basso piccole luci schermate splendevano debolmente sulle acque nere come
l'inchiostro, facendole brillare.
Remi azionati cautamente sciabordavano
nell’acqua il più silenziosamente possibile.
Contò mentalmente: una due, tre triremi.
Le navi scivolarono verso la scura scogliera e ne furono presto ingoiate. Le
luci si proiettarono brevemente sulle vaste pareti dell’immensa caverna, poi
subito svanirono.
Ursus trasalì, quando Mercurio gli posò
una mano sulla spalla.
“Che succede?”
“Abbiamo compagnia... non ci crederai, ma
tre triremi sono appena scomparse là dentro... chi possono essere?”
“Pirati...”
“Pirati un corno, durante la battaglia, mi
sono parsi Romani proprio come te!”
“Sì, va be', in effetti... diciamo che
sono Romani con cui abbiamo qualche divergenza di opinione...”
“Romani anche loro, quindi... mi piace
uccidere i Romani...”
Gongolò tra sé, aprendo e chiudendo i
pugni grossi come magli da fabbro.
“Vedremo domani cosa si potrà fare, ma ora
riposiamo, se no non ci reggeremo nemmeno in piedi.”
Detto questo,tornarono al loro
improvvisato rifugio: si sdraiarono nuovamente sui mucchi di foglie secche e
ripresero ben presto il sonno interrotto.