Le
poesie di questa silloge sono state scritte in pochi giorni e, a parte la
correzione di qualche refuso, non hanno subito alcuna manipolazione per non
sciupare l’intento giocoso.
Il
genere epistolare adottato, diverso da altre espressioni prosastiche, pur
mantenendo un formulario stilistico non improvvisato, ha un procedimento
spontaneo, un flusso di coscienza che rispondendo ai versi, volta per volta,
resta sì aderente al testo, ma riesce a staccarsene per riflessioni sulla vita
vissuta e la contemporaneità. La quotidianità rientra ampiamente nei dettati qui
esposti, sostenendo il valore degli affetti e dell’amore; in alcuni passaggi si
sfiorano il senso anagogico, satira e ironia con la consapevolezza delle nostre
imperfezioni, e della vanità del tutto.
Il
registro colloquiale adotta il codice comunicativo adeguato alla comprensione,
così come si fa normalmente con un interlocutore, risolvendo e introducendo
questioni, domande e risposte, ma mai adattandosi alle aspettative dell’uno o
dell’altro. Il viaggio intrapreso in concinnità è diretto alla poetica
pardiniana e si concentra, soprattutto, sull’interpretazione dei suoi libri:
“Dagli scaffali della biblioteca” (Guido Miano Editore-novembre 2020) e Alla
volta di Lèucade (Mauro Baroni Editore – Settembre 1999).
DAL TESTO:
(...)
Nazario,
ore 18:00
Parlerò
della mia malinconia,
di
quella che ti acchiappa e non ti molla,
di
quella dolce e sana che ti dice
di
ragionare a lungo del suo prato,
di
quello che ancora regna dentro,
di
quando si correva fino al cielo
per
arrivare a un bacio che incontrava
stelle
lucenti in seno ad un sentire
che
cresce a dismisura e non dà pace.
Parlerò
della mia malinconia
che
si fa strada in mezzo a fiumi e fossi,
di
quando si saltavano impazienti
di
giungere al capanno di cannucce
che
per noi era il regno degli dèi.
Ti
parlerò…
Patrizia, ore 22:12
Tu
dimmi, ascolterò
poiché
non ho ricordi malinconici
che
siano dolci e sani
se
non di pochi sprazzi
in
cui la gioia
era
cullare mio fratello che
aveva
un orecchiuccio un po’ attaccato.
Morì
che aveva un anno.
Conservo,
ora, la stoffa della culla.
Poi
venne Sandro; mi attendeva quando
tornavo
a sera tarda dal lavoro
e
sorrideva in fondo a quel pulmino
che
a casa dall’asilo lo portava.
Il
capo biondo e gli occhi come il cielo.
Morì
anche lui – ed io pregavo tanto –
che
aveva cinque anni.
Non
ho malinconie da raccontare.
Memorie
di ricordi e sangue amaro:
figlia
di istriana profuga e di affanni
figlia
venuta a caso, forse amata,
da
madre stanca, mai più rassegnata.
Non
ho malinconie da raccontare.
Poi
del collegio i giorni
passavano
con le ics su una schedina.
Io
le mettevo in fretta, che fortuna!
Ma
mamma non veniva.
Non
ho malinconie da raccontare.
I
giochi miei? Una bambola: Esmeralda,
distrutta
da mio padre. I giorni belli?
Son
quelli dei miei figli; e, sai, il più giovane
maestro
è di chitarra.
Non
ho malinconie da raccontare.
Nazario,
26 febbraio ore 10:20
Io
ho quelle di mio padre e mio fratello,
sono
scomparsi prima che potessi
dare
loro l’ultimo saluto.
Mi
porto dietro l’immagine di loro
che
mi chiedono il perché di questo addio
ed
io non so, non so che cosa dire,
dacché
il dolore per averli persi
mi
accompagna ogni istante della vita.
Quindi
vado spesso sul fiume
o
in mezzo ai prati, tra i giganti platani
dove
spesso giocavamo a biglie.
Li
rivedo con me sorridenti
per
avere fallito una misura
ma
ci ridevano sopra e mi
prendevano
in braccio scanzonati
senza
pensieri. La vita scorre via
cara
fanciulla, e chi la ferma? Va.
Non
sai nemmeno qual è il suo tragitto,
sarebbe
bello poterlo anticipare
e
scoprire così che la fortuna
non
è più un mistero. Ora mi fermo
sennò
questo discorso si fa triste
e
non voglio che tu per colpa mia
ti
senta un groppo in gola. Ma ti voglio dire
che
questa vita è tutta una minchiata
non
vale proprio arrabbiarsi o stare male
te
lo posso giurare dai miei tanti anni
è
meglio amare, amare, e poi riamare
fino
alla fine dei giorni. Fino a quando
il
destino lo vuole. E se non vuole
fare
di testa nostra. Solo l’amore
ci
salverà nel mondo, donandoci
quei
brividi che più toccano il cielo,
forse
da là potremo assistere
alle
vicende strane dei mortali.
ore 14:09
Una
volta ti chiesi se potevi
restare
con me sulla sponda
di
questo fiume. “È tardi” mi dicesti,
non
posso perder tempo devo andare
a
casa da mia madre che mi aspetta.
Eppure
si sarebbe potuto, di sicuro,
vincere
il destino, amarci più che mai,
avvinti
al tramonto di quel giorno
che
pettinava le acque
mentre
i dintorni brillavano per noi
che
aspettavamo l’ora dell’amore.
Il
tardi che dicesti è un’ora che svapora
e
che ci ha fatto perdere il futuro,
ma
io ti amo, e continuo ad amarti
così
come sei. Continuerò ad aspettarti
su
quell’angolo di luce quando il sole
si
cala nelle acque, e si prepara
al
nuovo giorno che ancora non è
primavera.
Se verrà, rispondi,
sarai
lì questa volta? Io ti sogno
e
nel sogno ti aspetto come tu fossi mia.
Patrizia,
ore 18:42
È
stata una giornata complicata
ma
bella. Fino a poco fa la luce
era
un’arancia sul far della sera.
Ora
scende,
frattanto
che ti scrivo,
una
nebbia che copre ogni confine.
Quel
cuneo rovesciato
mare
tra i colli, scompare
e
non vedo
che
rami di un gran noce ancora spoglio.
La
primavera ha già promesso tanto
ma
non le passeggiate tra la gente.
Ancora
ci secreta questo virus.
C’è
sempre un giorno nelle tue poesie
in
cui tu aspetti e immagini
che
il sogno della notte ti si avveri
quale
presagio arcano.
L’amore
tu lo canti in ogni nome,
sia
Delia/Ermione, sotto pioggia o sole,
con
sfumature tue crepuscolari,
nelle
preghiere di Saba un nostalgico:
“Fa’
che questa mia canzone vada in giro
fino
a Trieste a ritrovare i luoghi
dove
abitai con mia moglie Lina.” (XII).
L’amore è la tua cifra:
la
dimensione umana dell’esistere.
Patrizia,
27 febbraio ore 8:53
Non
chiedo mondi altri
non
ne ho voglia. Resto nel nucleo
di
questa commedia;
ma
a leggerti vengono i dubbi
che
Amleto girò
per
via di quel mero problema
sull’essere
o no.
Ora
mi arrovello:
mi
pare assai strano che un morto
a
un vivo richieda il favore
di
andare alla tomba di un morto
perché
dai suoi versi riascolti
il
bene di chi più non è;
ma
se invece è
e
il morto alla tomba con lui,
che
vale la voce di un vivo?
È
un rebus eppure già chiaro
che
un morto con morto discuta
per
certe credenze anche allegre:
ricordi
Totò e la livella?
Ma
un vivo che parli per morti
non
s’era sentito.
Ognuno
ipotetico che
si
scriva in volumi
desidera
solo una cosa:
che
resti il pensiero suo in voga
e
non venga a dire
di
mettere nero su bianco
soltanto
per sé;
ma
tu sei sincero:
"Mi
piacerebbe tanto che i miei versi
trovassero
del posto in biblioteca,
forse
sarà un sogno o una pazzia
ma
scrivere si può, non porta male..."( XXVI).
Nazario,
ore 9:50
“…L’amore
è la tua cifra:
la
dimensione umana dell’esistere”.
L’ho
cantato senza risparmiarmi,
nei
giorni nebulosi, in quelli chiari
quando
il sole batte sulle spiagge,
quando
si sente il palpito dell’onda
o
quando ci si abbraccia infreddoliti
al
caminetto che risplende in luce.
L’ho
cantato di giorno, nella notte,
quando
due passerotti si accostano felici
o
quando due piccioni si accarezzano
preparandosi
agli effusi dell’amore.
Non
c’è cosa più bella, e sinceramente
bisognerebbe
che il mondo lo capisse,
ne
facesse la bandiera della vita,
da
sventolare sempre ai quattro venti.
Solo
l’amore può salvare il mondo,
solo
l’amore può tirarci fuori
dalla
nebbia infeconda che sommerge
il
nostro stare in questo spazio breve.
Amiamoci,
facciamolo sovente,
e
tradiamo il destino col nostro giovanile
impeto
catulliano fino a che
la
morte lo permette. Siamo vivi.
ore
10:13
Ti
voglio raccontare la mia storia:
“Un
giorno una fanciulla mi spingeva
a
seguirla nel letto dell’alcova.
Io
non volevo, perché era giovane
e
soprattutto perché fidanzato
con
quella che poi sarebbe divenuta
la
compagna di sempre. Quel volto
l’ho
sempre dentro e me lo porto
da
una vita con me in ogni dove.
Che
cosa ho fatto mai della mia giovinezza,
che
cosa ho perso. Quello un amore vero,
una
ragazza, bimba, che vedeva
solamente
il mio volto. Quasi mi pregava
di
andare in amore con lei. Il rispetto
che
io portai a quella ragazzina
è
sempre qui che mi tormenta.
L’amore
è amore e non si può scherzare
coi
nostri sentimenti. Non si può
se
non vuoi soffrirne per la vita.
Ed
io ne soffro. Quasi piangerei
per
quello che rimane di un amore.
ore
11:00
La
cenere calda dei falò
“Le
faville volarono nel cielo
di
una notte d'estate.
Si
spensero i falò col primo giorno.
Ceneri
calde sulla fredda rena,
incise
di romanze e di sorrisi,
furono
sparse dalla tramontana”.
Questo
è il simbolo della vita,
i
falò della notte si spengono al mattino
e
resta solamente un po’ di cenere
a
ricordarti le feste della sera;
i
giochi dell’estate che veloce
passa
e lascia solo ricordi
a
pungerti l’animo come spine.
Patrizia,
ore 11:31
Ebbene
sia:
la
vita è questa cenere
che
resta dopo il fuoco.
L'amore,
è lui che scherza,
miscuglio
che da chimica si apprende.
In
noi chi parla è il cuore dei poeti,
ma
il corpo con la mente fa tutt'uno.
Per
quanto dice il tuo amico del lupo:
"...
ultimamente
trattando
della fiaba
di
Cappuccetto Rosso la ricerca
è
stata indirizzata
su
una nuova prospettica visione:
considerare
il tutto
dalla
parte del lupo."(XXIII).
Mai
dalla parte sua
poiché
quel lupo della fiaba cruda
altri
non è che un fottuto pedofilo
voglioso
di una carne
tanto
ingenua da cedere a un consiglio.
Facesti
bene, credo,
e
adesso tracci il segno dell'amore,
amore
vero, acceso a un nuovo fuoco.
Niente
finisce, si trasforma solo
e
quando il viaggio approda
si
parte con la testa a un nuovo molo
con
un bagaglio fatto degli errori,
di
buoni semi e un goccio di Brunello.
Nazario ore 12:55
Veramente
d’accordo.
Ma
l’amore ti prende e si impossessa
di
ogni tuo sentire. E non ti credere
di
potere gestire con ragione
quello
che il dentro detta. Siamo schiavi
e
schiavi si rimane. Si matura
e
senz’altro la storia personale
contribuisce
non poco a farci meditare
su
ciò che siamo. Bisogna farne conto
e
poi tirare le somme. Quella cenere
che
al mattino rimane è sempre tiepida
e
può senz’altro farti memorare
che
la vita ha i suoi pecchi e non bisogna
tradirla
con la furia o con l’impulso
di
una scelta di cui poi puoi pentirti.
Beviamoci
un goccetto, come dici,
e
lasciamo tutto al tempo. Senza dubbio
sistemerà
le cose. E così sia…
ore 14:02
Non
devi fraintendermi la bimba
di
cui ti ho parlato aveva diciott’anni
ed
io ne avevo otto più di lei.
Fu
la stagione delle mele, delle fughe,
e
ne facemmo una solitaria,
che
ci vide
perdere
gli sguardi all’orizzonte
senza
fare l’amore,
ma
guardandoci negli occhi, come bimbi
e
gustando la natura che attorno
sorvegliava
i
nostri palpiti d’amore. Puri eravamo,
e
puri si girava sulla spiaggia illuminata
dai
raggi della luna. Più l’ho vista
quella
ragazza che m’illuminò
e
forse è stato meglio non bruciare
l’immagine
di un sogno. Il sogno di una vita.
ore
14:40
Stasera
sono triste. E la tristezza
che
mi assedia è di già una poesia:
“Volevamo
cucire la vita
a
nostra immagine,
a
come la immaginammo. Purtroppo,
amore
mio, non detti
quello
che ti promisi;
il
tempo è fuggito rapido e mi ha rapito
tutto
ciò che avevo addosso. Ma stai certa
che
prima della luna torneranno i sentimenti
che
avevo in animo. Ti prometto
che
il resto della vita sarà tuo
e
non ci saranno nubi a deviare
quello
che io sento per i tuoi occhi.
Già
la luna è scesa in mare.
Risplendono
le stelle. E sono tante.
Ricordati
la poesia che scrivemmo:
“Scoprimmo
il cielo il mare ed il sorriso.
Dicemmo
al vento: Corri a perdifiato,
non
ti arrestare, corri a spettinare
le
chiome delle giovani fanciulle
che
giocano col tempo. Vorrei tanto
essere
a te daccanto per sfiorarti
le
gote col respiro; vorrei tanto
correre
lontano alla fine del mondo
e
stringere la mano
a
te che diffondesti
banchi
di solitudine
su
questo stretto piano.”
ore
14:50
Verrà
la sera e ci rapirà
con
tutto il bagaglio memoriale.
Forse
ci lascerà l'amore, il sentimento
che
va oltre il tempo, oltre la vita,
con
l'intenzione di tornare al cielo.
E
venne sera
La
luce crepitante dell’estate
invadeva
la piana, delle reste
il
giallo profumato d’erba stanca.
Sortivano
i rumori dalle scaglie
di
sterpaglie corrose. Sui prunai
galleggiavano
i profumi già disposti
a
cedersi alla terra. Anche la vista
toccava
infastidita quelle gregne
che
pregavano il sole
di
cadere più presto oltre le siepi.
C’era
bisogno di umido, di guazza.
E
venne sera.
Patrizia
ore 16:53
Maestro
mio,
non
potrei mai fraintenderti,
il
tuo animo è puro
e
chiari i versi. Ho preso giusto spunto
per
dire della fiaba: altro non è
che
sottile denuncia
di
una piaga
che
mai smette nel mondo di marcire.
Così
la guerra. Tu ce la riporti,
generoso,
nei versi di Quasimodo:
"E
come potevamo noi cantare..."
Eh
già, come possiamo noi cantare
se
è necessario portare su un palmo
il
nostro cuore, e magari vederlo
gettare
come una vecchia cartaccia
di
giornale. L’amore non è mai
razionale
ed è bella la tua sera.
Non
si appressa alla Nera, ma a promesse.
Ore 17:10
Eppure,
chi ragiona veramente
è
proprio quella parte
illogica
di noi.
Nazario
ore 17:24
“Eppure,
chi ragiona veramente
è
proprio quella parte
illogica
di noi”. È proprio vero
è
il cuore che ti chiede di seguire
gli
impulsi che la ragione esclude
e
che esso s’impunta di affrontare
con
tutta la libertà e la malia
che
sono proprio le virtù dell’essere.
Ti voglio
dedicare una canzone
dove giocarsi
il mare è cosa facile
quando si vive
indifferentemente
alla vita che
scorre senza tregua.
Giocarsi il
mare, sì, che è la cosa
più preziosa
che esista, il grande mare,
il suo
orizzonte, le schiume che assomigliano alla vita,
l’irrequietezza
del battito dell’onda,
l’infinito suo
estendersi lontano
dove non arriva
lo sguardo,
dove non
giunge palpito terreno:
“… Passa
dinanzi a me un paesano
che guarda il
monte con lo sguardo sperso.
Sembra
distratto, fuori dal suo mondo,
o forse un po’
poeta che confonde
la sagoma di un
monte cinerino
con la voglia
di tornar bambino.
Una voglia che
prende anche me stesso,
forse perché
tornando ai primi passi
si fa di un
gioco una cosa seria:
è il gioco
della vita
che se ti
lascia tu ti trovi solo
senza saper
perché ti sia sfuggita
quella spiaggia
su cui
ti sei giocato
il mare.”.
Questa è la
canzone della vita
che si regge su
note musicali
a dirti che la
poesia è infinita
come infinito
l’animo che detta
accompagnato da
una vera orchestra
che suona il canto
della tua canzone.
Patrizia, 28
febbraio ore 8:42
Ripenso alla
tua Luna, a quei falò,
amo il Pavese
dell’ultima donna:
declinazione
estrema
di un solstizio
d’estate; ed è il ventuno.
Vedi? Ritorna
in me l’indizio strano.
La luna oggi
cambia la sua faccia,
sempre cresce e
decresce
come fa la
fortuna
e pare che
risponda sempre uguale.
Non è un
segreto ormai
la sua
sembianza
eppure un uomo
a sera vuol scoprire
quanto del
volto mostri oppure taccia.
E passano
stagioni
e gonfia
l’astro di maree i sogni
dove tu resti
in bilico
dormendo il
sonno delle fate buone.
Bruciano a
notte fonda
tra contadini e
falò le illusioni;
ma qui, tra
questi versi
che ora ho in
mano,
approdi ad uno
scoglio
dell’isola di
Leuca
dove le spume
danzano misteri
e il Mito segue
della vita il volo.
Nazario ore
11:02
La
mia Lèucade è un’isola fatata
dove
mi rifugio in tempi bigi
dove
mi raccolgo dentro me
per
pensare alla vita, all’amore,
a
tutto ciò che sembra e non appare.
Cara
fanciulla, vieni con me
sull’isola
fatata.
Là
siamo fuori dal mondo, da ogni intruso,
siamo
fuori dal chiasso della vita,
si
può vedere in alto, e anche lontano,
dove
occhio umano non arriva.
Ci
sono amici gli alberi perenni,
il
battito dell’onda, le maree,
le
macchie degli abeti, dei pini silvani,
ci
sono amici i canti degli uccelli,
il
volo dei gabbiani, e i sogni belli
che
faremo in eterno. Perché Lèucade
è
l’isola dei sogni, non porrà
impedimenti
alla vita. Tutto scorre
e
con dolcezza, il tempo passa amico,
senza
traccia. Senza lasciare scie.
Spesso
io passo il mio tempo sull’isola
a
sentire quanto bello sia il fruscio
delle
acque sulla battima. Il canto
degli
uccelli nel cielo, sopra il mare
che
suona per noi la sua canzone.
Patrizia,
1 marzo ore 12:59
Maestro
mio,
perdona
il mio ritardo.
È
un’isola invitante, questa tua,
in
essa si rispetta la Natura;
le
si risparmia il velenoso gettito
dei clorofluorocarburi
e (fortuna)
c’è
il metano a richiudere
il
buco dell’ozono.
È
questione di chimica,
ma
tu dirai di cuore.
Grazie,
verrò.
Se puoi, prepara un tè.
NAZARIO
PARDINI
(dal libro Alla volta di Leucade)
Fuga da settembre
E furono
le Eumenidi a portarmi
dove non
vi è stagione. Ventilava
zefiro
eterno l’isola di Lèucade
eternamente
dolce nel respiro
di
lavanda e di timo. “Dallo scoglio”
mi
dissero “Ove siedi ad osservare
gli ampi
spazi del mare ricamato
da sciami
di gabbiani, si gettavano
gli
sfortunati umani per disperdere
reminiscenze
estreme. Ed anche Venere
restò
meravigliata nel sentirsi
serena
dopo il volo. Gli infelici
a Lèucade
accorrevano
dai più
lontani luoghi. Preparavano
con
offerte ad Apollo e sacrifici
la loro
prova. Ed erano sicuri
coll’aiuto
del dio di sopravvivere
all’eccelsa
caduta. Proprio qui,
dove tu
siedi, stette il piede tenero
dell’infelice
Saffo che Faone
abbandonò.
Nel cielo di quest’isola,
lucido ed
armonioso, riscontrava
solo
dolore; andava su altre sponde
dove il
mare violento tormentava
gli
scogli dissestati per rivivere
il suo
triste destino. Dalla cima,
sfiorata
dalle mani
della
dimenticanza, si gettò
in
quest’onde fatali. Ed Artemisia
regina
della Caria ed altre ancora
raggiunsero
la meta, ma scambiando
la vita
con la morte.” “Mi sovviene
il mio
settembre tanto logorante
nei
palpiti di umana inconsistenza,
nei
flebili lamenti di esistenza,
nei
pallidi scolori di tristezza
di un
borbottio leggero di rumori
quasi
alla fine. Ma non so se vale
di più
restare immoti nella stasi
di un
eterno sereno che provare
il dolce
senso del dolore umano.”
“Proprio
il poeta, diciamo di Nicostrato,
gettandosi
dall’alto della rupe
non
lasciò col patire
il
respiro di vita. Forse il dio
volle che
poesia perpetrasse, dopo il salto,
il suo
divino suono. Ci chiediamo
se più
grande pacato che in tormento
come da
scoglio umano.” Ed io fuggii
scabro settembre,
mese addolorato,
dal
sangue che si sperde in ogni dove
dell’ultimo
respiro della vita.
Io ti
lasciai e un salto nelle oniriche
acque di
Lèucade non mi concesse
morte né
oblio, ma solo la ricchezza
d’immagini
feconde rivissute
da
un’anima al di sopra delle povere
storie
del giorno. E ti rivissi, vita,
con un
sentire lieve e tanto amato
che in
ogni fatto lieto o meno lieto,
ma scampato,
vidi un superbo dono.