1983. Ci troviamo dentro ad un carcere. Antonino Mangiafico è un giovane uomo detenuto a cui è stato concesso di poter uscire per qualche ora al giorno per andare a lavorare in una biblioteca, un luogo conservato e amato nella sua memoria di studente nel quale si è sempre sentito protetto e al riparo. Un luogo sicuro.
Sembra una bella notizia, Antonino è un bravo ragazzo, ha mantenuto in dieci anni di reclusione un’ottima condotta. Qualcosa di lui ci dice che soffre terribilmente, trascina le sue giornate in un monotono, solitario programma, e il suo dolore è avvolto in un cupo silenzio. La psicologa che lo segue sa che lui ama i libri e che i libri lo possono aiutare a recuperare la fiducia nel mondo, ma soprattutto in sé stesso, e ha scovato per lui questo incarico. Il direttore del carcere ha dato la sua approvazione, perché Antonino è veramente un bravo ragazzo, il magistrato pure ha detto va bene. Sono tutti fiduciosi, sono tutti d’accordo.
Tutti, tranne Antonino.
Lui no, lui non è affatto contento di questo cambiamento, si sente tradito e manipolato dalla psicologa che nei mesi passati lo ha attratto con la suggestione dei libri da leggere.
Ma lui non vuole uscire, lui non vuole lasciare il carcere, lui vuole continuare a seppellirsi in quel posto grigio e disperato che lo ospita da dieci anni, perché se per la legge degli uomini la sua vita merita un riscatto, per Antonino, per lui stesso, no, non è così, la sua vita merita la cella di un carcere per l’eternità. Lui vivo nella carne e nel pensiero, tenta da dieci anni di uccidere i suoi sogni e i suoi ideali. Troppo vigliacco per terminare il suo corpo, rimane però troppo coraggioso per tradire il suo cuore.
Tutta colpa delle sirene. Le sirene che QUEL giorno, proprio QUEL terribile giorno, forse pentite e intenerite da quel giovane ragazzo romantico, gli sussurrarono:
Non andare…. Antonino… non
andare…
Eppure, proprio QUEL giorno, Antonino non le ascoltò, andando ignaro incontro alla Storia.
È facile pensare ad Antonino come ad un giovane Odisseo. Le sirene sono creature, come le muse e le sibille, che conoscono tutto ciò che sulla terra è accaduto e accadrà; la leggenda dice che il loro canto conduce chi lo ascolta alla conoscenza assoluta, verso l’infallibilità divina.
Ma l’uomo è solo vaga somiglianza di questa potente conoscenza. Troppo finito, troppo mortale, troppo arrogante. E chi incautamente pecca di Hybris e pensa di potere ascoltare la voce delle sirene e riuscire a dominarle, prima impazzisce, e poi giace accanto a loro, un mucchietto di ossa divorato dalla fame di conoscenza.
Odisseo è l’uomo senza nome, il grande eroe esploratore del mondo, è arrogante anche lui come molti della sua specie, ma è anche astuto, e si fa legare all’albero maestro della nave che solca i mari della vita, perché il richiamo delle sirene è suadente e invincibile, e chi lo ascolta si convince a raggiungerle sull’isola, dove viene divorato. Odisseo è così il primo, e unico uomo, che ascolta il canto e non cede alla sete di conoscenza. Almeno fino a quando non lo incontrerà Dante, molti secoli dopo.
Antonino Mangiafico invece è un piccolo Ulisse nato all’inizio degli anni ‘50, in Sicilia, terra magica e crudele, arsa e feconda, orgogliosamente povera e tragicamente bella.
La sua è una famiglia di pescatori, il loro luogo è dentro il mare, il mare che nutre e che divora, il mare che concede e che distrugge. La loro voce è impastata di luce e di sole accecante, e sabbia, e povertà.
Padre e madre decidono di trasferirsi al Nord, a Torino, dove avvolta nella nebbia sorge una promessa di benessere e di prosperità, una grande Fabbrica che produce automobili. Il futuro è lontano dal mare e dalla luce, ed è circondato dalle ombre nella fitta foschia, ma la Fabbrica li ha chiamati e li ha scelti, tra una moltitudine di ombre affamate.
Il futuro li blandisce, li lusinga, li convince.
Antonino ha sette anni, è un Ulisse troppo piccolo e le sue sirene sono ancora taciturne. Si trasferisce con la famiglia, padre, madre e due fratelli, Giuseppe e Assunta.
Torino li accoglie, o meglio li parcheggia ai limiti della società, ai confini estremi di una vita umiliata, troppo lontano dal fragore del mare, troppo pericolosamente vicino alla vita irraggiungibile dei ricchi.
La famiglia che viene dal mare si vuole bene, ma la miseria è un animale oscuro che striscia e si insinua e quando meno te ne accorgi ti avvizzisce l’anima e il cuore, e ti lascia lì, urlante di dolore, alla mercè della fame.
Antonino diventa un giovane e promettente studente e la nebbia si dirada, e niente è come sembrava: non Torino, che li guarda con cortese distacco, non la fabbrica, che li vede come merce di scambio, braccia e gambe che si muovono in una incessante catena di montaggio, partorendo motori, carrozzerie, spinterogeni, in cambio di pochi spiccioli.
La famiglia si comincia inconsapevolmente a sfaldare, come un castello costruito sulla sabbia troppo vicino al mare, come un sogno immaginato troppo a ridosso dell’alba e interrotto dal primo mattino.
Antonino però non molla. Lui combatte, nonostante il suo destino sembri già scritto e scontato. Lui ha un progetto: vuole insegnare lettere al liceo.
Ma siamo negli anni ‘70 e Torino non è solo la Fabbrica, e operai, e lavoro duro, Torino è anche un nuovo pensiero che aleggia, che sfida la nebbia delle convenzioni e dell’indifferenza, un pensiero rivoluzionario, un grido di vendetta e di rivalsa. Torino è un manipolo di giovani studenti che non accetta passivamente il destino dei propri genitori, partiti dagli angoli più poveri dell’Italia del Sud per rimpinzare le pance e le tasche di uomini già troppo ricchi e potenti. All’inizio sarà una rivista, e poi un movimento, e poi un progetto di rivoluzione rosso sangue, e il suo nome sarà Lotta Continua. Ed ecco che Antonino incontra il sussurro delle sirene e ne rimane ammaliato, la sua sirena ha un nome, Gaby, Gabriella Dalmasso, e Antonino cambia irrimediabilmente la sua rotta, attratto dal canto di quegli anni idealisti, tragici e sanguinari che videro proprio in Torino il nucleo pulsante.
Wilma Avanzato immerge la vita di questo ragazzo qualunque in uno dei decenni più contrastati e discussi della storia italiana, tanto da meritarsi un nome così buio e pesante, anni di Piombo, e lo fa mostrandoci i suoi pensieri, i suoi dubbi, i suoi passi falsi, le sue sirene traditrici.
La scrittrice testimonia attraverso la vita di Antonino la vita di tutti gli “invisibili” che hanno attraversato quegli anni, da una parte e dall’altra della barricata, ma ci dice anche che le sue sirene sono le nostre sirene.
Questo romanzo infatti scorre su un doppio binario, da una parte la storia di un personaggio animato dalla fantasia di uno scrittore, dall’altra, la storia di ognuno di noi, e ci insegna che la vita ha una serie di porte girevoli che ci troviamo a dover oltrepassare, e che dietro ognuna di esse c’è la possibilità di un finale diverso, dipende da quanto bravi saremo ad ascoltare il canto del nostro animo.
Perchè la verità è che la prova da superare, la voce da ascoltare e da dominare, la più difficile di tutte, è la nostra voce interiore. Dobbiamo imparare a controllare e mettere continuamente in dubbio il nostro stesso modo di essere, chi siamo, la materia di cui sono fatti i nostri ideali, ma soprattutto i nostri luoghi più oscuri e neri.
La chiave di lettura di questo romanzo è, a mio avviso, il motto tanto amato da Socrate γνῶθι σεαυτόν (conosci te stesso). Le sirene si rivolgono a ciascuno di noi in modo diverso, scovano i nostri desideri più segreti e ci mettono di fronte alle nostre più profonde fragilità e solo conoscendo e affrontando le nostre debolezze, Antonino e tutti noi riusciremo, forse, a salvarci.
Grazie a Wilma Avanzato per avermi condotto con la sua scrittura diretta e mai scontata in un periodo così importante, così difficile, e duro, e vivo, da ricordare e da raccontare. Un romanzo che ho letto con passione e che mi ha lasciato molti spunti su cui riflettere, uno su tutti il finale della storia di Antonino Mangiafico, che vi invito a leggere.
Livia Cattan Roma, 28/09/2024