domenica 29 settembre 2024

IL GIORNO DELLE SIRENE di WILMA AVANZATO

 

1983. Ci troviamo dentro ad un carcere. Antonino Mangiafico è un giovane uomo detenuto a cui è stato concesso di poter uscire per qualche ora al giorno per andare a lavorare in una biblioteca, un luogo conservato e amato nella sua memoria di studente nel quale si è sempre sentito protetto e al riparo. Un luogo sicuro.

Sembra una bella notizia, Antonino è un bravo ragazzo, ha mantenuto in dieci anni di reclusione un’ottima condotta. Qualcosa di lui ci dice che soffre terribilmente, trascina le sue giornate in un monotono, solitario programma, e il suo dolore è avvolto in un cupo silenzio. La psicologa che lo segue sa che lui ama i libri e che i libri lo possono aiutare a recuperare la fiducia nel mondo, ma soprattutto in sé stesso, e ha scovato per lui questo incarico. Il direttore del carcere ha dato la sua approvazione, perché Antonino è veramente un bravo ragazzo, il magistrato pure ha detto va bene. Sono tutti fiduciosi, sono tutti d’accordo.

Tutti, tranne Antonino.

Lui no, lui non è affatto contento di questo cambiamento, si sente tradito e manipolato dalla psicologa che nei mesi passati lo ha attratto con la suggestione dei libri da leggere.

 Ma lui non vuole uscire, lui non vuole lasciare il carcere, lui vuole continuare a seppellirsi in quel posto grigio e disperato che lo ospita da dieci anni, perché se per la legge degli uomini la sua vita merita un riscatto, per Antonino, per lui stesso, no, non è così, la sua vita merita la cella di un carcere per l’eternità. Lui vivo nella carne e nel pensiero, tenta da dieci anni di uccidere i suoi sogni e i suoi ideali. Troppo vigliacco per terminare il suo corpo, rimane però troppo coraggioso per tradire il suo cuore.

Tutta colpa delle sirene. Le sirene che QUEL giorno, proprio QUEL terribile giorno, forse pentite e intenerite da quel giovane ragazzo romantico, gli sussurrarono:

Non andare…. Antonino… non andare…

Eppure, proprio QUEL giorno, Antonino non le ascoltò, andando ignaro incontro alla Storia.

È facile pensare ad Antonino come ad un giovane Odisseo. Le sirene sono creature, come le muse e le sibille, che conoscono tutto ciò che sulla terra è accaduto e accadrà; la leggenda dice che il loro canto conduce chi lo ascolta alla conoscenza assoluta, verso l’infallibilità divina.  

Ma l’uomo è solo vaga somiglianza di questa potente conoscenza. Troppo finito, troppo mortale, troppo arrogante. E chi incautamente pecca di Hybris e pensa di potere ascoltare la voce delle sirene e riuscire a dominarle, prima impazzisce, e poi giace accanto a loro, un mucchietto di ossa divorato dalla fame di conoscenza.

Odisseo è l’uomo senza nome, il grande eroe esploratore del mondo, è arrogante anche lui come molti della sua specie, ma è anche astuto, e si fa legare all’albero maestro della nave che solca i mari della vita, perché il richiamo delle sirene è suadente e invincibile, e chi lo ascolta si convince a raggiungerle sull’isola, dove viene divorato. Odisseo è così il primo, e unico uomo, che ascolta il canto e non cede alla sete di conoscenza. Almeno fino a quando non lo incontrerà Dante, molti secoli dopo.

Antonino Mangiafico invece è un piccolo Ulisse nato all’inizio degli anni ‘50, in Sicilia, terra magica e crudele, arsa e feconda, orgogliosamente povera e tragicamente bella.

La sua è una famiglia di pescatori, il loro luogo è dentro il mare, il mare che nutre e che divora, il mare che concede e che distrugge. La loro voce è impastata di luce e di sole accecante, e sabbia, e povertà.

Padre e madre decidono di trasferirsi al Nord, a Torino, dove avvolta nella nebbia sorge una promessa di benessere e di prosperità, una grande Fabbrica che produce automobili.  Il futuro è lontano dal mare e dalla luce, ed è circondato dalle ombre nella fitta foschia, ma la Fabbrica li ha chiamati e li ha scelti, tra una moltitudine di ombre affamate.

 Il futuro li blandisce, li lusinga, li convince.

Antonino ha sette anni, è un Ulisse troppo piccolo e le sue sirene sono ancora taciturne. Si trasferisce con la famiglia, padre, madre e due fratelli, Giuseppe e Assunta. 

Torino li accoglie, o meglio li parcheggia ai limiti della società, ai confini estremi di una vita umiliata, troppo lontano dal fragore del mare, troppo pericolosamente vicino alla vita irraggiungibile dei ricchi.

La famiglia che viene dal mare si vuole bene, ma la miseria è un animale oscuro che striscia e si insinua e quando meno te ne accorgi ti avvizzisce l’anima e il cuore, e ti lascia lì, urlante di dolore, alla mercè della fame.

Antonino diventa un giovane e promettente studente e la nebbia si dirada, e niente è come sembrava: non Torino, che li guarda con cortese distacco, non la fabbrica, che li vede come merce di scambio, braccia e gambe che si muovono in una incessante catena di montaggio, partorendo motori, carrozzerie, spinterogeni, in cambio di pochi spiccioli.

La famiglia si comincia inconsapevolmente a sfaldare, come un castello costruito sulla sabbia troppo vicino al mare, come un sogno immaginato troppo a ridosso dell’alba e interrotto dal primo mattino.

Antonino però non molla. Lui combatte, nonostante il suo destino sembri già scritto e scontato. Lui ha un progetto: vuole insegnare lettere al liceo.

Ma siamo negli anni ‘70 e Torino non è solo la Fabbrica, e operai, e lavoro duro, Torino è anche un nuovo pensiero che aleggia, che sfida la nebbia delle convenzioni e dell’indifferenza, un pensiero rivoluzionario, un grido di vendetta e di rivalsa. Torino è un manipolo di giovani studenti che non accetta passivamente il destino dei propri genitori, partiti dagli angoli più poveri dell’Italia del Sud per rimpinzare le pance e le tasche di uomini già troppo ricchi e potenti. All’inizio sarà una rivista, e poi un movimento, e poi un progetto di rivoluzione rosso sangue, e il suo nome sarà Lotta Continua. Ed ecco che Antonino incontra il sussurro delle sirene e ne rimane ammaliato, la sua sirena ha un nome, Gaby, Gabriella Dalmasso, e Antonino cambia irrimediabilmente la sua rotta, attratto dal canto di quegli anni idealisti, tragici e sanguinari che videro proprio in Torino il nucleo pulsante.

Wilma Avanzato immerge la vita di questo ragazzo qualunque in uno dei decenni più contrastati e discussi della storia italiana, tanto da meritarsi un nome così buio e pesante, anni di Piombo, e lo fa mostrandoci i suoi pensieri, i suoi dubbi, i suoi passi falsi, le sue sirene traditrici.

La scrittrice testimonia attraverso la vita di Antonino la vita di tutti gli “invisibili” che hanno attraversato quegli anni, da una parte e dall’altra della barricata, ma ci dice anche che le sue sirene sono le nostre sirene.

Questo romanzo infatti scorre su un doppio binario, da una parte la storia di un personaggio animato dalla fantasia di uno scrittore, dall’altra, la storia di ognuno di noi, e ci insegna che la vita ha una serie di porte girevoli che ci troviamo a dover oltrepassare, e che dietro ognuna di esse c’è la possibilità di un finale diverso, dipende da quanto bravi saremo ad ascoltare il canto del nostro animo.

Perchè la verità è che la prova da superare, la voce da ascoltare e da dominare, la più difficile di tutte, è la nostra voce interiore. Dobbiamo imparare a controllare e mettere continuamente in dubbio il nostro stesso modo di essere, chi siamo, la materia di cui sono fatti i nostri ideali, ma soprattutto i nostri luoghi più oscuri e neri.

La chiave di lettura di questo romanzo è, a mio avviso, il motto tanto amato da Socrate γνθι σεαυτόν (conosci te stesso). Le sirene si rivolgono a ciascuno di noi in modo diverso, scovano i nostri desideri più segreti e ci mettono di fronte alle nostre più profonde fragilità e solo conoscendo e affrontando le nostre debolezze, Antonino e tutti noi riusciremo, forse, a salvarci.

Grazie a Wilma Avanzato per avermi condotto con la sua scrittura diretta e mai scontata in un periodo così importante, così difficile, e duro, e vivo, da ricordare e da raccontare. Un romanzo che ho letto con passione e che mi ha lasciato molti spunti su cui riflettere, uno su tutti il finale della storia di Antonino Mangiafico, che vi invito a leggere.

 

Livia Cattan Roma, 28/09/2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuseppe Marchini :" Bicicletta che passione!"

 


Giovedì 3 Ottobre ore 17:30 presso il Centro Sociale Ruffini (Via Vecchia del Piano, adiacente tensostruttura R. Conti) presentazione del saggio di Giuseppe (Pino) Marchini dal titolo "Bicicletta che passione! La storia dell'U.S. Luni e altri racconti"

L'autore racconta Castelnuovo Magra con una nuova ricerca dedicata ad una società sportiva che ha dato lustro al paese per tanti anni. Lo sport riveste una grande importanza anche sociale ed educativa e l'Unione Sportiva Luni non è stata solo una “stagione” rivelatrice di elementi capaci e talentuosi, ma ha dimostrato senza dubbio di saper trasmettere anche modelli di vita e pratiche di comportamento virtuose agli iscritti, ai dirigenti, ai corridori ma anche a quanti, tantissimi (bambini/e, giovani o adulti), seguivano quello sport da spettatori seppur con uguale passione e divertimento.
Pino Marchini s'interessa di storia locale e tradizioni popolari liguri. Opera all'interno della scuola con lezioni sulla favolistica e sulle tradizioni popolari. Ha scritto per "La Spezia oggi", "il Secolo XIX", "Castelnuovo oggi" e "Castelnuovo Democratica". Ha pubblicato molte opere con SAGEP, con la casa editrice DELFINO MORO e per le EDIZIONI CINQUE TERRE.

Ivan Pozzoni :" Florilegio"

 

Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976. Ha introdotto in Italia la materia della Law and Literature. Ha diffuso saggi su filosofi italiani e su etica e teoria del diritto del mondo antico; ha collaborato con con numerose riviste italiane e internazionali. Tra 2007 e 2018 sono uscite varie sue raccolte di versi: Underground e Riserva Indiana, con A&B Editrice, Versi IntroversiMostriGalata morenteCarmina non dant damenScarti di magazzinoQui gli austriaci sono più severi dei Borboni, Cherchez la troika e La malattia invettiva con Limina Mentis, Lame da rasoi, con Joker, Il Guastatore, con Cleup, Patroclo non deve morire, con deComporre Edizioni. È stato fondatore e direttore della rivista letteraria Il Guastatore – Quaderni «neon»-avanguardisti; è stato fondatore e direttore della rivista letteraria L’Arrivista; è stato direttore esecutivo della rivista filosofica internazionale Información Filosófica; è, o è stato, direttore delle collane Esprit (Limina Mentis), Nidaba (Gilgamesh Edizioni) e Fuzzy (deComporre). Ha fondato una quindicina di case editrici socialiste autogestite. Ha scritto/curato 150 volumi, scritto 1000 saggi, fondato un movimento d'avanguardia (NeoN-avanguardismo, approvato da Zygmunt Bauman), con mille movimentisti, e steso un Anti-Manifesto NeoN-Avanguardista, È menzionato nei maggiori manuali universitari di storia della letteratura, storiografia filosofica e nei maggiori volumi di critica letteraria.Il suo volume La malattia invettiva vince Raduga, menzione della critica al Montano e allo Strega. Viene inserito nell’Atlante dei poeti italiani contemporanei dell’Università di Bologna ed è inserito molteplici volte nella maggiore rivista internazionale di letteratura, Gradiva.I suoi versi sono tradotti in francese, inglese e spagnolo. Nel 2024, dopo sei anni di ritiro totale allo studio accademico, rientra nel mondo artistico italiano e fonda il collettivo NSEAE (Nuova socio/etno/antropologia estetica).

 

 

 

 BRONCHOPNEUMONIA

 

Sei arrivata dalle oscure terre del freddo Est,

riarse dai roghi luminosi di Jan Hus e di Jan Palach

- mi ricordano il suono indistinto del tuo nome

che non so ancora dire, che non so ancora urlare-,

sei arrivata con una borsa piena delle mie fatiche di Ercole

senza riuscire a scambiare i tuoi occhi coi miei occhi,

senza riuscire a scioglierti sotto i colpi del sapore corrosivo del mio alito

(la mia lingua taglia, erode, brucia).

 

Alle anime gemelle non occorrono due anime,

si scontrano come corpi nella concretezza della terra,

si scontrano sulle bollette da pagare, sui conti in rosso, su vite in bilico,

alle anime gemelle non occorrono due corpi

attraverso cui scopare, rotolandosi voluttuosamente in letti madidi

su cui restano impressi i segni delle catene,

alle anime gemelle non occorrono due menti,

alle anime gemelle non occorrono due cervelli,

alle anime gemelle non occorrono due cuori.

 

Sei volata via come la brezza del fantasma di un amore fragile

lasciandomi il compito di rimettere insieme i cocci

della nostra nuova lingua: italiano - english - český,

in un threesome che, ragionevolmente, caratterizzerà la nostra storia,

a fare i conti con il tuo timore di amare e la mia incapacità d’essere amato,

a tossire, a vomitare sangue, a bruciare (due mesi?)

d’una inarrestabile bronchopneumonia amorosa.

 

Alle anime gemelle non occorre niente,

bastano a se stesse, figurine doppie

sovrapposte sull’album dei ricordi della vita,

a mettere in rilievo un attimo brillante di felicità

al tatto di un Dio che colleziona cadaveri e esperienze altrui,

a Milano, a Karlsbad, o a Milansbad.

 

 

 

 

 

SIAMO TIGRI DI CARTA

 

L’una di notte non suona mai così spontanea

dalle mie mani dense di ragadi non battono doloranti filastrocche,

da anni, oramai, sono vittima collaterale di una metrica troppo risoluta

schiava di no Tav, no Vax, no tax, no fly zone,

i miei acidi gastrici carburano con tonnellate di Pantoprazolo

con la digestione impedita da uno stomaco butterato dai buchi del vaiolo.

 

Responsabili e irresponsabili allo stesso momento

rogitiamo case come se dovessimo vivere in eterno,

non ci fidiamo a essere padri o madri e, con nonchalance,

adottiamo amori destinati a non sopravvivere un decennio

non vediamo l’ora, dopo una giornata, che il destino ci scodinzoli alla porta

e non ci rendiamo conto, allo specchio, di barattarci con tigri di carta.

 

Pure va tutto bene e non c’è niente che funziona,

attento alle calorie in eccesso, col contapassi da asino da soma,

bulimizzo ogni sentimento, enigmatico come la sfinge di Chefren,

nessuno saprà mai se sono pago o sto a tre metri dall’overdose d’En,

ubiquo nell’arena, sotto il drappo rosso, bovino dall’aspetto esangue,

non si capisce se sono qui o vorrei stare ovunque.

 

 

 

 

 

 

IL CHIHUAHUEÑO DI PORT-ROYAL

 

Quando ti svegli nella notte e ti avvicini, fragorosa, al batter dei miei tasti

chissà se è me che cerchi, chissà se è me che trovi,

col comportamento di una scimmia allo specchio, la scienza afferma ogni tua inconsapevolezza

e non ricusa, nell’homo sapiens, la stessa consapevolezza con l’esperimento della televisione,

mass-media, esiste chi vive o vive chi esiste auto-identificandosi dentro a un video,

mass-media, la somma dei valori numerici delle masse cerebrali, fratta del loro numero.

 

Quando guaisci, piangi? O è solamente una danza indeterminata di interazioni neurali

a muoverti, muscoli, sentimenti, sogni? Quando dormi, sogni?

Mi scopro, a volte, a interrogarmi sulla nostra reciprocità:

sentiamo un amore senza condizioni, una resa incondizionata, vicendevole,

e tu sbadigli, disinteressandoti d’ogni feedback, forse soddisfatta

dall’immediatezza di una carezza, dall’autenticità di un sorriso o di uno scodinzolio.

 

Quando non ci siamo, soffri? O è soltanto l’ipostatizzazione di una nostra mancanza,

a muoverci muscoli, sentimenti, sogni? Quando ci studi, con il tuo naso indagatore da cerbiatto,

rifletti o agisci d’impulso? Esisti, o non esisti? Esisto, o non esisto?

Perché se non esisti, mio amore innocente, rifiuto d’esistere anch’io,

e se rifiuto d’esistere, rinuncia ad esistere il mondo stesso.

 

Sei la Tenochtitlan dell’ontologia, nata come fico d'India alla base della roccia,

ritrovata – nessuno ti avrebbe mai coperta- da Álvar Núñez Cabeza de Vaca,

sei stata saccheggiata dai conquistadores corsari della logica di Port-Royal

e ridotta, da animali senz’anima, a oggetto inanimato del binomio schiavo / padrone,

senza aver mai considerato che cambi le nostre vite più di Marx e della sua inutile rivoluzione.

 

 

 

 

 

COVID

 

Scrivere sul Coronavirus, adesso, non ha senso,

tutti a tamponarsi senza chiedere consenso

stormi di ambulanze sciamano dal deposito dietro casa

facendo della Lombardia una regione a tabula rasa,

e loro, a correre sui marciapiedi o a formar crocicchi

con grovigli di maschere che neanche un film porno di Schicchi.

 

E i volponi UE mesi a discutere di Mes condizionato

chi cazzo mi trova un lavoro che son rimasto disoccupato,

mi attende una meravigliosa vita da recluso in casa

a togliere i capelli dalla doccia sennò il tubo si intasa,

viva il governo olandese che non vuol condividere il debito

senza capire che a star seduti sullo Stivale l’Europa rischia piaghe da decubito.

 

E il terrore di morire in solitudine corre sul filo, avanza,

alcuni a reclamare i loro dieci anni di meritata vedovanza,

altri a non voler finir scannati come animali

a me, se muoio, buttatemi in una fossa comune tra battone e criminali,

nell’attesa che un eroico ricercatore David

riesca ad abbattere a fiondate il pandemico Covid.

 

 

 

 

 

GLI UOMINI SENZA COGNOME

 

Gli uomini senza umanità non hanno il cognome,

vivono, inintelligibili, come uno spartito di sole semibiscrome,

coltivando il loro misero orticello, due camere e un bagno,

in cerca di condoni reiterati, su terreni del demanio.

 

Gli uomini schiavi dell’indifferenza non hanno il cognome,

ci immunizzano, inutili, come la milza nell’addome

dal fervore, dall’interessamento, dalla solidarietà civile,

convertendo l’egotismo dello stilita in uno stile.

 

Gli uomini senza intelligenza non hanno il cognome,

martellano, propagandistici, con l’arroganza di una réclame,

condannando il mondo a un’esposizione a 100.000 röntgen

col contegno truffaldino della piramide di Chefren.

 

Gli uomini senza cognome, si chiamino Roberti, Lorene, Glorie,

devono essere affogati dentro ettolitri di damnatio memoriae,

non ci devono tangere, novelli Mario Chiesa,

ché buttare i nostri valori nel cesso non è una bella impresa.

 

 

 

 

 a tutti quelli che hanno qualcuno da piangere

 

A tutti quelli che hanno qualcuno da piangere,

in nome della loro mancanza di ispirazione,

hanno la fortuna di non aver niente da ridere,

come nel ritornello de La donna cannone.

 

A tutti quelli che hanno qualcuno da piangere,

una bottiglia di vino come amico fragile,

gli occhi gonfi pieni di dispiacere,

gli occhi gonfi di sangue come uno sbandato pugile.

 

A tutti quelli che hanno qualcuno da piangere,

che si sentono da buttare via

e non hanno agli occhi zanzariere

che permettano di scacciare ogni fobia.

 

A tutti quelli che hanno qualcuno da piangere,

stanati sulle labbra di un amore,

non trovano la forza di vivere

quando hanno strappato loro il cuore.

 

A tutti quelli che hanno qualcuno da piangere,

sbattuti sulla riva come Ulisse,

nuovi eroi che non hanno niente da vincere

lacrime sulle ordinate e sangue sulle ascisse.

 

A tutti quelli che hanno qualcuno da piangere,

ta-ra-da-dà, e le seconde strofe sono tutte da inventare,

devono apparire come stessero per sopraggiungere

come buche carsiche sulle strade dell’amore.

 

A tutti quelli che hanno qualcuno da piangere,

piangete, piangete, non lesinate

le lacrime si rimpiazzano con un buon bicchiere

smezzato a sorsi di lacrime bicarbonate.

 

 

 

 

Ezra Pound

 

La città non muore mai, avvolta in un alone di fuoco,

nemmeno se la coprono di cavalli di frisia,

non serve neanche riempirla di portoni taglia-fuoco,

la città è sola, si scioglie facilmente in un barattolo di magnesia.

 

Siamo tutti soli, siamo tutti fatti a pezzetti

i palazzi continuano a farci da cellophane

la solitudine ci impedisce di far progetti

proiettati come Prost in una mortifera chicane.

 

Le relazioni durano un tanto al metro

amore, amore, sì, ma con criterio

tutti morti, tutti alla Porta di San Pietro

con una scientifica vocazione al martirio.

 

È la festa del lavoro, dignità umana

si va avanti a raccomandati e figli di puttana,

tutti, depressi, ad attendere il Recovery Fund,

e finiremo con Mussolini a stringer la mano a Ezra Pound.

 

 

 

 

 L’EPATITE IVA

 

Il contribuente italiano medio tra tasse, imposte e accise

subisce morsi e ricorsi stoici peggio che alla Corte d’Assise,

navigando sempre in cattive acque, lo hanno dichiarato santo

e contro le scottature da cartella esattoriale usa la tuta d’amianto.

 

L’epatite IVA è una malattia altamente contagiosa,

il cuneo fiscale ha la funzione di un catetere senza ipotenusa,

drenare liquidi dai buchi neri dei conti correnti non millanta

l’idea di far chinare concittadini sofferenti a quota Novanta.

 

La metafora del drenaggio, verso lo Stato italiano, non è balzana,

l’Agenzia delle Entrate ci rivolta i calzoni come indomita mezzana,

la malattia è ormai cronica, come terapia sedativa resta la flat tax

la calma piatta dei mercati internazionali non ci facilita il relax,

tra salvare 5.000.000 di italiani o incrementar lo spread

la scelta è tanto semplice che non ci vorrebbe un Dredd,

speriamo solo che un nuovo dottor Sottile non emetta prelievi forzati

sul 6‰ dei conti correnti dei soliti disgraziati.

 

 

 

 

 LA TERZA VOLTA DI LAZZARO

 

Questa è la terza volta che mi levano il sudario,

sono ancora in grado di flexare senza l’uso di un rimario,

non riesco neanche a sperare nel famoso logos di un missile russo,

in cammino sulla strada verso Odessa con venti sintomi da reflusso

curiosissimo dello stato dello star system italiano bevo vodka ed un cachet

nessun refolo di cambiamento: dittatore di Atelier è restato Giuliano Berchet.

 

Spostato il masso del sepolcro, dopo sei anni, controllo il catalogo Mondadori,

sarà svanito il cucchismo, 0,9% del fatturato, e mi ritrovo i soliti cinque autori

Ruffilli, Lamarque, De Angelis, le solite novità settuagenarie, e l’Opera omnia di Viviani,

che a raccontare tutto in Macedonia e Kosovo non smetterebbero di batterci le mani,

Yēšūa, nel 2018, ti eri impegnato a regalarmi il dono dell’auto-felllatio,

nel 2024, con impegno, vedrò di fare il miracolo da solo, senza estensione del prepuzio.

 

Questo continuo rinascere, e sparire, rinascere, e sparire, mi sta mettendo in confusione

sono l’artista del Raduga, dello Strega e del Montano, o una valletta della televisione,

va a finire sempre nello stesso modo: inizio a scrivere e mi metto nei pastiche,

m’hanno detto che cito citazioni di citazioni come Lapo tira su le strisce,

le uniche citazioni le ricevo in Tribunale da mediocri titolari di associazioni di Rimbaud

che chiedono elemosina ai «dilettanti» allo sbaraglio asserragliati nei lit-blog,

ho idea che mi richiudo ancora nella tomba e mi rimetto a studiar l’abbecedario,

le donne sono andate tutte via, come cazzo faccio a rimettermi il sudario.

 

 

 

 

 

LA GIORNATA MONDIALE DELLA POESIA

 

Ricordo, anni fa, la giornata all’ospizio di Sesto San Giovanni

decine di vecchi a lanciar versi come in una voliera di barbagianni,

declamavano di amore, campagne, tutti i luoghi comuni del creato

molto simili a muezzin infoiati sui minareti del Califfato.

 

All’arte di Euturpe hanno dedicato un’intera giornata mondiale

ai nostri eroi un anno intero a far versi non riusciva a bastare,

cantano raggi di sole fino a condurre l’uditorio in stato di choc

e io non riesco a cantare che di Ippocampi avvinghiati a cotton fioc.

 

Oggi sarà la serata mondiale del corso e concorso

con claque che nemmeno il Berlusca da Barbara D’Urso,

centinaia di scrittori inutili, inquadrati in mostra alle decine di manifestazioni

la maggior parte in cerca di un’ora di noia e i soliti furbi a arraffare gettoni.

 

La giornata mondiale della poesia mi ricorda la Festa della Donna

milioni di uomini in fila, con mimose, a cantare i loro osanna,

lasciando bicchieri nel lavandino e mutande nella cesta

che tanto, domani, a lavarli sarà compito della Festa.

 

 

 

mercoledì 25 settembre 2024

Anna Vincitorio legge Osip Mandl'stam

 

Osip Ėmil'evič Mandel'štam (1891-1938)

Poesia e libertà oltre la morte

dalla lettura di ottanta poesie

a cura di Remo Facciani

Giorgio Einaudi Editore

 

 

Ho pensato di introdurre con alcuni versi gli elementi componenti della poesia di Osip Mandel'štam.

 

Notte, forse di me non hai bisogno;

dalla voragine dell'universo

io – conchiglia vuota senza perle – sono

gettato sulla tua proda, riverso

e il vano della fragile conchiglia

nido di un cuore ove nessuno alloggia –

ricolmerai di schiuma che bisbiglia,

ricolmerai di nebbia, vento e pioggia…

                                               1911

 

Tende l'udito una vela sensibile,

lo sguardo si dilata e si fa vuoto,

e afono varca un mare di silenzio

il coro degli uccelli a mezzanotte.

 

Io come la natura sono povero

e ho la semplicità che hanno i cieli,

e la mia libertà è illusoria come

le voci a mezzanotte, degli uccelli.

                                               1922

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

Libri

 

La quarta prosa. Sulla poesia. Discorso su Dante. Viaggio in Armenia, trad di Maria Olsoufieva, presentazione di Angelo Maria Ripellino, De Donato, Bari 1967.

 

Viaggio in Armenia, a cura di Serena Vitale, Adelphi, Milano 1988, 1996, 2002

 

Cinquanta poesie, a cura di Remo Faccani, Einaudi, Torino, 1998

 

Sulla poesia, trad. di Maria Olsoufieva, con due scritti di Angelo Maria Ripellino, nota di Fausto Malcovati, Bompiani, Milano, 2003

 

Ottanta poesie, a cura di Remo Faccani, Einaudi, Torino 2009

 

Il rumore del tempo e altri scritti, a cura di Daniela Rizzi, Adelphi, Milano 2012

 

La pietra, a cura di Gianfranco Lauretano, Il Saggiatore, Milano 2014, 2018

 

Quaderni di Voronež: primo quaderno, a cura di Maurizia Calusio, Giometti & Antonello, Macerata, 2017

 

Quasi leggera morte. Ottave, a cura di Serena Vitale, Adelphi, Milano 2017

 

L'opera in versi, a cura di Gario Zappi, Grometti & Antonello, Macerata 2018

 

– Epistolario. Lettere a Nadja e agli altri (1907-1938), a cura di Maria Gatti Racah, Giometti & Antonello, Macerata 2020.

 

Nel Box approfondimenti un saggio di Alberto Frisia su Osip e Nadezhda  Mandel'štam.

 

O cielo, cielo, ti vedrò nei sogni

Non sarà mai che tu divenga tenebra

e il giorno avvampi come un bianco foglio

soltanto un po' di fumo e un po' di cenere.

                                                        1911-1915?

 

Osip Ėmil'evič Mandel'štam nasce a Varsavia che all'epoca era parte dell'impero russo, nel 1891 e dopo la nascita, si trasferisce a Pavlosk presso Pietroburgo. Ebreo di nascita, nel 1911 in Finlandia si convertì al Cristianesimo metodista per poter accedere all'Università russa vietata agli ebrei. Il padre commerciava in pellami e la madre era pianista e insegnava musica. Dopo il diploma nel 1907 si trasferisce a Parigi e frequenta la Sorbonne. I suoi primi versi sono del 1907-1909. Sempre nel 1911 aderisce alla “Gilda dei poeti” e partecipa alla formazione dell'acmeismo[1]. Gumil'ev, amico di Osip fu fucilato nel 1921 accusato di attività controrivoluzionaria e la sua poesia fu vietata durante il regime sovietico.

         Ancora, nel 1911 Mandel'štam pubblica la sua prima raccolta di poesie: KAMEN' (Pietra). In Francia nel Cabaret del cane randagio legge i suoi scritti e incontra A. Blok, Benedict Livsic e frequenta Marina Cvetaeva ed Anna Acmatova. Un anno basilare nella vita di Osip è il 1919 a Kiev dove incontra Nadežda Jakovlevna che diverrà sua moglie. Unico grande amore di Osip nato in una notte di maggio, rimasta colpita dai versi di Osip pulsanti vita e sensazioni esulanti la realtà quotidiana.

         Uomo nato per la poesia e che, per la poesia, avrebbe vissuto. Ma nel cuore di Osip, Nadežda era soltanto e soprattutto amore a un livello che non può nemmeno immaginarsi.

         Uniti nella passione e in quella idea di libertà che trova il suo status nella parola. Parola che porterà emarginazione, persecuzioni, conflitti. La sopravvivenza di Osip è dovuta alla moglie.

         In un articolo di Repubblica del 14 giugno 2024 di Elisabetta Rasy: “ Nadežda Mandel'štam contro Stalin - speranza e poesia", si parla di lei. Non abbandonò Osip presente nella vita e oltre la sua morte; preziosa custode delle sue poesie che imparava a memoria perché non andassero disperse. Quando Nadežda muore nel 1980, Josif Brodskij la descrive così: “Degli ottantuno anni della sua vita Nadežda Mandel'štam ne ha vissuti 19 come moglie e quarantadue come vedova del più grande poeta russo di questo secolo Osip Mandel'štam”[2].

 

         Gli scritti di Osip e, tra questi, ricordiamo Viaggio in Armenia provocano nuovi attacchi polemici della stampa sovietica. Osip si sente prigioniero, colpito dalla menzogna; il fango lo ricopre. Per lui è come vivere un sogno atroce e delirante. Nell'anno 1934 è arrestato per una poesia dedicata al “montanaro del Cremlino” inserita nelle poesie di Mosca. L'arresto avvenne nella notte tra il 13 e il 14 maggio del 1934. Osip non negò la paternità del testo e, dopo l'arresto, si preparò ad essere fucilato. Bukharin lo difese ed evitò la fucilazione ma fu deportato a Cherdyn - Russia orientale e poi a Voronež. Riporto una versione italiana della poesia presente tratta da un articolo di Luigia Sorrentino in Internet…

 

                            Poesia

 

Viviamo senza fiutare il paese sotto di noi

i nostri discorsi non si sentono a dieci passi

e dove c'è spazio per mezzo discorso

là ricordano il montanaro caucasico –

le sue dita sono grosse come vermi

e le parole, del peso di un pud sono veritiere,

ridono i baffetti di scarafaggio

e brillano i suoi gambali.

 

                   E intorno a lui una marmaglia di capetti dal collo

                                                                           sottile

 

si diletta dei servigi di mezzi uomini,

chi fischia, chi miagola, chi frigna

appena apre bocca e alza un dito.

Come ferri di cavallo forgia decreti su decreti.

a chi dà nell'inguine, a chi sulla fronte, a chi nelle

sopracciglia, a chi negli occhi

ogni morte è per lui una immagine

e l'ampio petto di osseiano.

 

                            A Stalin di Osip Mandel'štam.

 

         Segue dopo Voronež un nuovo arresto a Samaticha. Sottoposto a lavori forzati… Il 12 ottobre dello stesso anno viene internato in un lager di transito e muore il 27 dello stesso mese e viene sepolto in una fossa comune vicino al lager Vtoraja Rečka dopo essere stato sempre insepolto assieme ad altri. Alla moglie ritorna indietro un vaglia postale in cui è annotato: “A causa della morte del destinatario”.

 

         Raccontano che “era semiassiderato, rosicchiava zollette di zucchero e accovacciato accanto a un immondezzaio, recitava brani della Divina Commedia e del canzoniere del Petrarca”[3].

         Non è semplice parlare della poesia di Osip Mandel'štam. La mia conoscenza e il mio entusiasmo li devo alle traduzioni, non conoscendo la lingua russa. Posso senza dubbio affermare che quelle di Remo Faccami del volume su citato, mi hanno colpito profondamente per l'armoniosità dei versi (quasi tutti resi in tetrapodia e tripodia giambica) per la scelta esaltante delle parole, per la cura esplicativa dei contenuti.

         “Un tonfo cauto e sordo - un frutto/ dal ramo si è staccato via/ tra l'incessante melodia/ del bosco che riposa muto…”. 1918

         Alla sensazione auditiva del distacco di un frutto dal ramo segue un salmodiare del bosco che però è muto nel suo riposo. Il poeta è consapevole della sua tristezza. Comprende che perderà la sua libertà, irrinunciabile e silenzioso nella sua quiete e lo raffigura come “cristallo della volta celeste inanimata”. Si rincorrono pallidi azzurri; è tutto vago “come un piatto, su una porcellana/ un disegno. L'artista persegue il suo istinto, vuole fortemente fissare quel momento e renderlo eterno anche se poi giungerà la morte. Ogni respiro, ogni suo fiato si posa sui vetri dell'eternità. Immagini immortali in cui immergersi e affondare. Forza della parola e musica illuminata dal chiarore impazzito del giorno. Potenza della parola da lui definita schiuma o afrodite che - rifluisce in musica. Per lui, insopprimibile il valore della libertà anche se ha davanti il vuoto. Si, illusoria ma preziosa la sua libertà “come le voci a mezzanotte degli uccelli”; un universo… malato e strano e il vuoto come meta.

         Al suo anelito di libertà la patria è indifferente. Lui, solo, privo di colpa e sulla sua solitudine di esule “un cielo dallo strano riverbero”. Il dolore dell'universo è nebbioso ma la nebbia, procurando incertezza, allontana da lui quell'amore che distruggerà la sua vita. Lui è come una conchiglia senza perle. La notte gli giacerà accanto ricolmando “la sua fragilità di schiuma... di nebbia, vento e pioggia…”. Nei suoi sogni il cielo non sarà mai tenebra: “…soltanto un po' di fumo e un po' di cenere”. Chiaro il riferimento alle componenti della persecuzione degli ebrei. Lui ha il cuore colmo di amore ma non può amare; solo sperare che arrivi “il giorno che aspetto/ sento un aprirsi d'ala/ Sarà possibile?... se no tornerò dov'ero/ conclusi viaggio e tempo;/ là amare non potevo,/ qui amare mi spaventa…”.

 

Riporto due poesie descrittive dell'ambiente russo (pag.33 e 37 del testo):

 

“Ammucchiano i portieri a badilate/ la neve fresca nei quieti sobborghi; io tra mugicchi dalle barbe folte, passo viandante a cui nessuno bada./ Balenan donne avvolte in fazzoletti, cani bastardi ruzzano impetuosi,/ dei samovàr fiammeggiano le rose/ scarlatte in ogni casa e in ogni bettola”.

“Strette di mano a celebrare un rito/ che vie strazia, nelle vie baci notturni/ mentre l'onda si fa greve nel fiume/ e ardono come fiaccole i lampioni./ Lupo da fiaba è per noi la morte/ e morirà prima di tutti io temo, colui che ha labbra di un vermiglio inquieto/ e una frangetta spiovente sugli occhi.” Parla di lui?

 

         Irreparabile è questa notte;

da voi continua a esser chiaro in cielo.

Gerusalemme alle tue porte

hai visto levarsi il sole nero.

 

Il sole giallo ancor più spaventa

(ninna nanna: su, dormi!). Le esequie

di mia madre nel chiaro tempio

celebrano i figli della Giudea..... (pag. 59 del testo). Ispirata dalla scomparsa della madre che lui rivide solamente da morta. In questa poesia si affronta il tema ebraico. Il colore giallo-nero. Il sole nero quando nasce il poeta; il sole giallo, le esequie della madre. L'amore per la Russia congiunto a una notte che porta vuoto e morte si riscontrano in questa poesia (pag.81):

Noi ci rincontreremo a Pietroburgo,

quasi avessimo lì sepolto il sole,

e per la prima volta la parola

sul labbro ci verrà, beata, assurda.

Nel nero velluto della notte sovietica,

nel velluto del vuoto universale,

cantano sempre i cari occhi di donne beate,

sempre sbocciano fiori senza morte…

 

         Ci sono diverse poesie che sicuramente descrivono la sua situazione di prigioniero:

 

Mi lavavo all'aperto ch'era notte;

di grezze stelle ardeva il firmamento.

Il loro raggio è sale a fior d'ascia; la botte

colma, orli rasi, ghiaccia e si rapprende…

Si disfa come sale nella botte, una stella;

più buia è l'acqua gelida, più pura

la morte, più salata la sventura,

ed è più onesta e paurosa la terra.

                            Pag. 85

 

         Cosa ancora di lui ricordare? L'enorme nostalgia al ricordo di un passato che non ritornerà:

…Ricorderai la dacia, la vespa,

l'astuccio sporco d'inchiostro

o i mirtilli che mai raccogliesti

da bambino nel sottobosco. (pag.103).

 

Sono tornato nella mia città che conosco fino alle lacrime,

fino alle venuzze, alle gonfie ghiandole dell'infanzia.

 

Sei tornato – e alla svelta manda giù l'olio di merluzzo

dei lampioni riflessi nelle acque di Leningrado…

Pietroburgo, non voglio morire – non adesso:…

Pietroburgo su di me gli indirizzi io porto

che mi fanno trovare le voci dei morti…

                                                        (pag.105)

 

Tu non sei morto Osip perché la tua poesia, fiaccola lucente, vive in noi per sempre!

 

                                                                  Anna Vincitorio



[1]             Dal greco acmé - nel culmine - movimento poetico russo nato intorno al 1913. Ne fecero parte A. Acmatova, M. Kuzmin, N. Grimil'ev e S. Gorodesckij. “Contrastavano il simbolismo preferendo la fedeltà del mondo tangibile. Si esalta l'universo dell'uomo. Si può anche parlare di adamismo. Nel movimento si trovano anche il vitalismo estetizzante di Gumil'ev e la poetica della Acmatova…” - Enciclopedia di Repubblica vol. 1° pag 133.

[2]      Ibidem – pag. 99.

[3]      I contenuti sono tratti da L'opera in versi – Giometti Antonello, Macerata 2018