Recensione
a
Anna
Magnavacca: Le promesse dei giorni e altri versi
Edizioni
Helicon. Arezzo. 2013. Pp. 66
Avventure
verso significanti che vanno oltre gli etimi.
Mi piaceva la luna d’avorio che baciava
prima del sonno i fiori del ciliegio
Plaquette
di due sillogi, questa nuova avventura letteraria di Anna: Le promesse dei giorni e altri versi e Madre; trae il titolo dalla raccolta eponima. Devo dire innanzi
tutto che il dipanarsi del dettato lirico si mantiene su livelli di alto
spessore per architetture tecnico verbali e per varietà di contenuto. Un’opera
che evidenzia gli stilemi tipici della vis
creativa della poetessa, e che segna una tappa di continuità nel percorso
artistico della stessa. Percorso connotato da una maniera di sentire e di dire
che rende unica, inconfondibile, e personale la sicurezza del ductus poetico. Silloge arrivante,
quindi, coinvolgente per il tatto delicato con cui l’autrice mette a nudo il
suo essere donna, il suo vivere e il suo vissuto. Per la coscienza inquietante
di veleggiare su un fiume segnato da correnti ora ripide, ora placide e
trasparenti, ora rilucenti di guadi da cui appaiono ristagni di antiche
memorie. E l’anima di questa poesia è tutta in una simbiotica fusione fra abbrivi
meditativi e versificazione che, per contenere tanto pathos, si avventurano in iperboli di acribia speculativa che vanno
oltre le stesse regole della comune sintassi. Il verbo si fa ora duttile, ora
nervoso, ora placido, ora audace in questo suo adattamento, in questo suo farsi
corpo per abbracciare l’anima del canto. Veri azzardi linguistici, dunque.
Elegie semantiche colorite da tanto sentire. Avventure verso significanti che
vanno oltre gli etimi. E’ così che prendono forma tante figure care. Evocazioni
ad invadere gli spazi sottostanti del pensiero:
“(…)
Coperta il mio cuore
su pezzi di dolore, vento la
mia voce.
Oltre il sole messaggi a mia
madre, a mio padre,
a quanti ho amato e perso
e mi tocca contare –
aggiungere le perdite
in questo cerchio mai chiuso…”
(
Un giorno d’autunno),
in
un linguismo che fa della semplicità l’arma vincente. Linguismo che si avvale
di incastri e di nessi creativi che raggiungono “pointes” di grande valenza partecipativa. Con un ardore allusivo di
metafore che si apre ad una polisemica significanza ora di tensione orfica,
ora, anche, dai toni epico-lirici:
“(…)
Resto sola,
sento lo scricchiolio di una
stella
che s’arrampica sull’alba” (Un
sabato);
“(…)
Sento il silenzio
chiede di bere al calice di
madreperla
della notte” (Una domenica);
“(…)
Avanza il buio.
Voglio pensarti libera barca
in cerca di un faro di bianco
corallo” (Un giorno di lutto);
“(…)
Appoggio il mio cuore
sull’orlo di una pietra” (Un
giorno di primavera).
E
tutto si svolge in forma ampia e narrativa. Come se la poetessa sentisse la
necessità di un modus dicendi disteso
per ri/vestire un resoconto di totale intimità. Un resoconto da redde rationem, zeppo di vicissitudini
umanamente infinite. Umanamente troppo umane nel loro aveu diretto. Nel loro sperdimento evocativo. Nel loro abbandono ad
una realtà osservata, captata, e decantata in un animo disposto a farla
rivivere contaminata del suo patema. Del suo senso della vita. Di una certa
stanchezza, anche, per come corrono le cose:
“Non devo, non voglio
oggi giorno qualunque
fare bilanci della mia vita
altrimenti lancerei tutto
su un arcobaleno,
uno di quelli che vedi
un batter d’ali
e poi ti chiedi dove può
essere finito
così, senza avvisaglie.
Negli occhi quei colori
scomparsi
così in fretta…” (Un
giorno qualunque).
Qui presente, passato, e futuro si embricano
indissolubilmente in una soluzione di reale impatto quotidiano:
“… Sul tavolo
alta la zuppiera dall’orlo
d’oro
bollicine nei concavi
bicchieri.
Fuma e crepita il caldo
intingolo,
accese sono le luci
il melo ha messo i fiori
(…)
Il gatto ha già mangiato
e si è addormentato” (Un giorno di festa);
“(…)
Questa mia vita
non mi dà grave avviso
ma quell’insistente corrosiva
stanchezza
delle stesse notti…” (Un
giorno qualunque).
Una
consuetudine quasi scontata. Un vivere i fatti come se si succedessero senza
novità alcuna, come se si presentassero con quella abitudinaria quotidianità a
cui è d’uso partecipare. Ed è da questi fatti che la Nostra sente la necessità
di svincolarsi per azzardare voli oltre, oltre certi spazi che segnano il limen del nostro vivere, che segnano
notti che lacerano-consumano:
“(…)
E’ un cielo con l’arcobaleno
fermo
che io cerco,
mi sussurra di una farfalla su
un ramo
della pensierosa bianca fronte
della luna
dello sposalizio della sera con
il silenzio
e salire salire salire…” (Un
giorno qualunque).
Sì,
è là che la Nostra vorrebbe volare, oltre la terra, in cuore all’azzurro, in
braccio ad un arcobaleno da cui mirare la terra rimpicciolita nei suoi travagli
e nelle sue sottrazioni. Ed è l’imperfetto che spesso domina con il suo fervore
nostalgico, per cui tutto sembra lisciato e ingentilito da una memoria che fa
persino presente un tempo sfuggito. Che fa di un confronto, una lirica di
struggente richiamo:
“Mi piaceva avere capelli
rossi labbra vermiglie
occhi di canto sbavati di
rimmel,
sentire il passo pieno, il
fiato caldo della vita.
Mordere sulla pelle il vento
il fuoco
(…)
Mi piaceva sdraiarmi nella
rugiada
(…)
Mi piaceva la luna d’avorio
che baciava
prima del sonno i fiori del
ciliegio.
Adesso mi offro da bere latte
caldo
metto all’orecchio una
conchiglia bruna,
profumo d’incenso il mio
scialle (labirinto di rose)…” (Donna ieri – oggi).
Realtà
cruda, di cui la poetessa si ciba per concludere bilanci di amare sottrazioni.
Ma reagire con il sogno è forza umana. Ed il sogno fa parte della vita, ne è
nerbo essenziale. Ed è meravigliosamente umano abbandonarsi ad orizzonti senza
confini:
“Mi piace inventare primavere improvvise
sognando aperti orizzonti.
Vorrei fare collane di pietra”
(ibidem).
C’è
in questi versi la piena coscienza del senso eracliteo del tempus fugit, della fuga del giorno. Ed è così che la Nostra si
intrufola nei minimi particolari, nelle cose più semplici, nelle piccole
occasioni dell’esistere per farne poesia
a pieno titolo etico-estetico. E’ la vita con tutta la sua portata che si fa
serbatoio di un realismo lirico convincente, votato a sottrarre le bellezze
agli annichilenti artigli del tempo con la poesia. Poesia in cui una malinconia
sotterranea fa da terreno fertile per la fioritura di un canto sintonizzato
alle corde di ogni cuore:
“Oggi non ride il mio mare,
nere vele
stendono parole ferite.
(…)
Arrivano battono chiudono…
volto mani cuore
madre mia.
Ultimo appuntamento.
Senza pietà .
Avanza il buio.
Voglio pensarti libera barca
in cerca di un faro di bianco
corallo” (Un giorno di lutto).
Sì,
le cose semplici, quelle di ogni giorno: la camicia di lino, il treno, il
gatto, le fette biscottate, una ninna nanna, il latte caldo, tacchi a spillo,
un fazzoletto bianco ad animare e a rendere umile questo messaggio di vita e di
amore che tiene in sé la complessità dell’esser/ci: il tempo, i luoghi, i
perché, il memoriale, il rimpianto e la piena coscienza di questo breve spazio
che impietoso logora e consuma anche quelle bellezze che pensavamo eterne. Bellezze
che la natura potente, colorita, irruente, dolce, di pulcritudine ammaliante,
contribuisce a rendere visive, pronta a favorire l’effusione sentimentale della
poetessa. A rendere patologico il di lei mondo interiore, avvolgendolo ora di
un mare che non sorride, quando si fa più triste il pathos del canto, ora di rivoli di neve e rosse case, di fusione di
cielo e ciliegi, quando il verso è frutto di una tale esplosione estatica da fare
appoggiare il cuore sull’orlo di una pietra. Sì, un mondo di amore,
soprattutto. Quell’amore che si vive a pieno leggendo les pièces più crude, più amare; perché la Magnavacca ama la vita,
ed un risentimento è umano quando la vita stessa sembra tradirci. Risentimenti
che, però, non esistono nelle liriche rivolte a “una madre” che “Nel mistero della
vita/ in sconosciuti labirinti/ sa andare/ giada e sole”, o a madri che
“sognano aquiloni colorati/ per i loro figli” anche se “soltanto pochi/
riescono poi a tenere l’aria”. Una serie di liriche rivolte alla madre senza
cadere nella retorica. Riuscendo la poetessa a non scivolare in quel campo
minato in cui potrebbe portare questo tipo di argomentazione. E lo dimostra in
quel X Intermezzo della II sezione (Madre) che nella sua essenzialità condensa
il focus di un Poema:
“Ancora madre
chiamerò
nella memoria gli anni belli”
XXI poesie dal sapore elegiaco, anche queste,
che si snodano su un tessuto confidenziale e intenso di riflessioni e repêchages
di quadri e spaccati che mettono in gioco madre e madri senza mai cadere di
tono sia a livello emozionale che strutturale. Una andatura etimo-fonico, di
euritmica musicalità che prende sostanza e vigoria lirica ex abundantia cordis. Che sboccia nei giardini ora del reale, ora
del sogno per decollare verso dolci e delicati approdi a convertire in gaudio
le lacrime. Con il solito dire narrativo, dal respiro ampio e meditato, espanso
ad abbracciare un’anima tutta volta all’amore, la poetessa sviscera tutto il
suo sentire, sostanziato da fatti ed episodi che la memoria riporta a galla con
grande trasporto. Ed è in questi ritorni che la Nostra trova tutto il riposo
del suo essere. Che trova l’alcòva dei suoi spazi esistenziali. Perché sono
proprio le immagini che assumono connotati e dimensioni completamente rielaborate
in seno alla scrittrice. D’altronde la realtà è una cosa, ma l’immagine viene
dopo, dopo anni, ingrandita, trasformata, a lievitare dentro per farsi vera
poesia:
“(…)
Anche mia madre mi aspettava
ma come i figli
delle amiche di mia madre
molte volte restavo impigliata
in sogni di mare
mentre mia madre
riempiva la mia assenza di
dolce stupore.
Amavo mia madre
e adesso ancora amo mia madre
che non è più (Erano
tutte madri…).
Ed
è questa semplicità sconcertante, trapunta di impennate creative, a nutrire un “Poema”
monotematico che riprende fra le mani il bandolo di un passato, cristallizzandolo
in poesia. Memorialità, stupefazione, un po’ di tristezza, anche, per dei
propositi incompiuti:
“Dicevo a mia madre
che l’avrei portata
con me
in viaggio –
Parigi o Vienna o Londra.
(…)
Mia madre
non ha visitato
né Parigi né Vienna né Londra.
Le è bastato il sogno.
(…)
E’ stato avaro il tempo…
esalava umido odore di terra
e in mano stringeva
un mazzo di crisantemi” (Dicevo…).
E si succedono liriche di grande
intensità umana, di grande coinvolgimento emozionale: un climax tematico che
tende ad ampliare sempre più gli orizzonti forse non completamente ultimati,
irraggiunti; orizzonti di una vita in cui le sottrazioni, anche se arginate dal
sogno, vincono sulle realizzazioni:
“(…)
Mia madre
aveva il respiro nelle sue
mani,
un respiro
fatto di fatica di anni di
dolore
e di quell’esplosione di
bellezza
delle madri.
E le sue lentiggini…
Impietoso il tempo.
Quelle lentiggini
le ritrovo oggi nelle mie mani
(Non
posso dimenticare).
Quel
tempo che ritorna impietoso nei versi della Nostra a logorare le cose più
sacre. E quando si tratta di vedere questa decadenza negli occhi e nel viso di
una madre ancora più forte, quasi indicibile, il sentimento d’impotenza che
proviamo di fronte al potere perentorio dell’ora e del giorno sulla materialità
del nostro esistere. Sul naturale evolversi dei processi naturali.
Ed essere madre a sua volta permette ad
Anna, forse, di comprenderne con più tensione e maggiore intensità il ruolo. Anche
se resterà sacro nel nostro cuore, insuperabile, esemplare nella nostra mente,
quello di una mamma scomparsa, la cui immagine continuerà a brillare di una
luce diamantina sui percorsi del nostro vivere:
“(…)
Figli che amo,
forse ricambiata
ma
a volte li sento
lontani-stranieri
come fiori
in un sogno invernale
(…)
Riusciranno poi a rubare
musica all’oscurità, luce alle
stelle
voce all’aurora?
(…)
E’ difficile essere madri,
anch’io lo sono
e so quanto è tortuosa
la strada di una madre”
(Anch’io sono madre).
Nazario Pardini