Doxa ed Epistéme
Franco Campegiani
Ha scritto Marcel Proust, ne Il
tempo ritrovato: “Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera
dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al
lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe
forse visto in se stesso”. Un pensiero, questo, che Davide Rondoni ribadisce ne Il
fuoco della poesia: “Quando
si ascolta una poesia di Leopardi o di un vero poeta, non ci si commuove per la
vita di lui, ma per la propria”. Quello che ci interessa realmente, attraverso
la lettura, è di capire chi siamo noi. L’opera pertanto, se
genuinamente creativa, non stabilisce
una relazione del fruitore con l’autore, ma del fruitore con se stesso. E in
fondo ciò riguarda lo stesso autore, come primo fruitore di quello che lui
stesso scrive.
Non dice nulla –
l’opera – della biografia, della personalità esteriore di colui che la scrive
(né di colui che la legge), bensì dell’uomo che, nell’interiorità profonda, è
ciascuno di noi. Tanto più si può capire un autore, quanto più quell’autore si
eclissa dietro ciò che scrive (o dipinge), lasciando che l’opera faccia da
specchio per il fruitore, specchio dove costui possa vedere riflesso qualche
segreto e ignoto aspetto di sé. Paradossalmente ciò impone allo stesso autore
di scrivere (o dipingere, scolpire, eccetera) solo per se stesso, per la
propria festa spirituale. L’arte non parla infatti a tutti, ma al cuore di ognuno,
a partire da quell’ognuno che in primis l’autore stesso è. Sta qui l’universalità dell’arte e della poesia,
la sua capacità di superare il particolarismo, l’intimismo, eccetera.
Non è sufficiente sostituire l’Io con
il Noi per ottenere un livello più
universale della scrittura. Il Noi non
offre alcuna garanzia di universalità, visto che è pur sempre una delimitazione
soggettiva. Universalità non è
sinonimo di totalità. La Divina
Commedia non è
universale perché ottiene il consenso di tutti, o di molti, come in un’elezione
politica, ma perché riesce a toccare le corde più intime del singolo, nella sua
interiorità. La comunicazione poetica
pretende questa comunione profonda, e
ciò non può avvenire ai livelli superficiali dell’Io o del Noi, dove il
soggettivismo la fa sempre e comunque da padrone. E’ necessario che l’ego ponga fra parentesi se stesso per
fare spazio all’alter ego
(anticamente la Musa), immerso nel
flusso misterioso dell’Essere e della vita.
Occorre, in altri termini, che l’Io riesca a trascendersi, facendo
spazio al Sé, all’essenza universale che dimora dentro di sé. E’ questa la modalità
della comunicazione artistica, dove il primo anello della catena relazionale è
costituito dalla comunione dell’autore con se stesso. Se si salta questo
anello, va in pezzi l’intera catena, in quanto la comunicazione diviene
inautentica. E se ciò può essere accettabile nell’eloquio convenzionale, non
può assolutamente esserlo nel linguaggio creativo, dove ad esporsi sono le
regioni più profonde del nostro essere, che impegnano la nostra autenticità, la
nostra universalità, la nostra verità.
Ciò capovolge l’antico pregiudizio greco, di cui è permeato
l’intero tessuto della nostra civiltà, secondo cui la poìesis, il mythos,
sarebbe il campo per eccellenza del soggettivismo umano, mentre l’epistéme, la verità, si manifesterebbe
nel logos, peraltro confuso con
l’intelletto razionale. Il mio punto di vista si trova agli antipodi di questo
assioma, le cui formule non credo fossero nelle corde del substrato più arcaico
della grecità, che fu profondamente misterico prima dell’insorgere del pensiero
metafisico. Io ritengo che le cose si diano così come sono al nostro
intelletto, senza manipolazione alcuna, soltanto nell’attività mitopoietica, ovvero nel mito allo stato
sorgivo (ovviamente non parliamo di mitologia,
dove il mito si presenta decaduto a favola ripetitiva).
Ha scritto Umberto Galimberti ne “Le origini della filosofia greca”, primo
capitolo della “Storia del pensiero
occidentale” diretta da Emanuele Severino (Armando Curcio Editore): “Nel raccoglimento del logos, l’uomo, con la sua parola, dice
come le cose nella loro esposizione si danno. Mentre nel mito le cose sono
usate per dire il vissuto dell’uomo, nel logos
sono lasciate essere così come sono, senza alcuna manipolazione (poiéin). La parola poiéin in greco significa “produrre”. Da poiéin deriva la parola poìesis
da cui la nostra poesia. La poesia, di cui si alimenta il mito, è una
produzione di significati che non lascia parlare le cose come sono, ma impone
alle cose il parlare dell’uomo. Questa imposizione non è l’imporsi delle cose,
ma ciò che l’uomo impone alle cose, in altri termini è la violenza poetica sul
contenuto quale si dà. La filosofia rappresenta il tentativo riuscito di
liberarsi da questa imposizione… La parola greca che nomina l’imporsi di ciò
che ha la forza di farlo senza ricorrere alla manipolazione poetica è epistéme”.
Non mi trovo d’accordo con questa
impostazione di pensiero. Quando Eraclito nomina la maestà del logos, contrapponendolo al favolismo
della mitologia, in realtà non fa che
esaltare la potenza della mitopoiesi,
che allo stato sorgivo non manipola un bel nulla, in quanto è totalmente nelle
mani del logos, quando questi si
affaccia negli orizzonti dell’intelletto umano. Sta qui l’ispirazione delle
cosiddette Muse, qui il carattere
universale della poesia (e dunque epistemico, se epistéme significa “ciò che sta sopra”). La ragione dell’uomo è
sempre schematica, pretestuosa, partigiana. Essa tende a distinguere, a
dividere, a separare, per cui resta costituzionalmente impermeabile
all’universalità. Nel particolarismo sta la sua più vera
natura. Essa è sempre e comunque doxa
(opinione), e vano risulta qualsiasi tentativo di trasformarla in epistéme.
E’ giunta l’ora di dire che non c’è
nulla di universale nella ragione umana, per sua natura settaria, mentre
l’universalità prende corpo esclusivamente nella mitopoiesi, nel mythos,
ossia, non ancora decaduto a mitologia.
Ciò che è costruito, prodotto, manipolato dall’uomo è frutto del suo intelletto
razionale, non certo frutto di quella verginità dell’intelletto, aperto verso
il logos, che è invece tipica della mitopoiesi creativa. E’ certamente vero
che la poìesis (da poièin, fare) impegna la sfera dell’agire
umano, ma occorre distinguere il fare
dallo strafare: l’azione secondo
natura (cosmocentrica), dall’azione (antropocentrica) dettata dall’intelletto
razionale. L’uomo diviene creativo nel momento in cui pone le mani in pasta nei
processi creativi del creato. E’ quello il momento in cui si lascia veramente
ispirare dal logos, che è
intelligenza pura, aschematica, fuori dai pregiudizi e dalle gabbie della
razionalità.
Non è vero che lo sguardo del
mitopoieta si distragga nelle variazioni del molteplice, che si perda nella
frivolezza del mondo esteriore. Egli, al contrario, ha sguardi tutti puntati
sull’unità del molteplice (o, se si preferisce, sulla molteplicità dell’uno).
Ciò che gli interessa è di immergersi nel mondo fenomenico per prendere
contatto con la radice stessa da cui la vita viene. E’ la cosa in sé a catturare le sue attenzioni: quell’inseità, quella verità, che giustamente Kant ha dichiarato inaccessibile alla
ragione umana. E tuttavia, con buona pace di Kant, sarebbe ora di comprendere
che la cosa in sé non può più venire
ignorata. Oggi, più che mai, occorre ristabilire un
contatto con le profonde radici dell’Essere (che è poi l’Essere che noi stessi
siamo), dando corpo ad una nuova spinta mitopoietica,
di inusitate ed inedite proporzioni. Solo così potremo tentare di uscire dall’impasse culturale in cui ci troviamo.
E sarebbe opportuno avvertire Wittgenstein che non
tutto il linguaggio è tautologico o convenzionale, perché l’uomo ha la
capacità, a seconda delle esigenze, di pensare non soltanto in fotocopia, ma
anche in originale. Quando si abbandona alla mitopoiesi, egli davvero
pensa ed opera in originale, giacché il pensiero che gli viene dall’oltre (che è poi l’oltre di se stesso)
non fa che nominare per la prima volta il mondo. Al di fuori di questo dire non c’è davvero nulla da dire,
giacché c’è solo il detto e ridetto,
o come suol dirsi il fritto e rifritto,
utilissimo nella vita pratica, ma distante dalla vita reale, dalla vita delle
origini, dove tutto è assolutamente originale. Socrate parlava di maieutica, ovvero dell’arte
di far partorire, di tirar fuori (ex-ducare)
ciò che nell’individuo esiste già come valore.
Ci sono valori innati nell’uomo, che
soltanto l’attività mitopoietica, la
cultura creativa, ha il compito di rintracciare. Naturalmente non parlo di spontaneismo, ma di una facoltà
anamnestica, autoanalitica, capace di riportare in vita valori totalmente
dimenticati. Non dunque di una memoria, privata o collettiva, che conserva e
tramanda eventi del passato. I valori innati appartengono ad un passato ancora
più remoto, totalmente rimosso e caduto in oblio. L’innatismo dà voce ai principi che vengono dall’oltre (che è poi l’oltre di se stessi),
mentre lo spontaneismo, con la
variante dell’intellettualismo, dà
voce ai pregiudizi costruiti nel
laboratorio storico-culturale.
Si sbaglia a credere che nell’intellettualismo ci sia problematizzazione:
quella facoltà critica, ossia, che si ritiene fuori dagli orizzonti creativi,
qualora si pensino ispirati dalla Musa. C’è un immenso lavoro da fare su se stessi
affinché appaia la Musa.
Questa, infatti, non è altro che un particolare volto o
aspetto di se stessi, non ancora conosciuto. La vera attività critica risulta
pertanto essere strettamente connessa con l’attività creativa, mentre nell’intellettualismo non si dà alcuna
problematicità, giacché si viaggia a senso unico sul terreno dell’acquisito.
Soltanto l’originalità è problematica, in quanto ha bisogno di essere corteggiata
per concedere le proprie grazie e le proprie attenzioni. Colui che non coltiva
le origini (le proprie origini), non ha un pensiero proprio, autonomo, ossia un
pensiero problematico, lungamente sofferto e meditato, ma un pensiero duplicato
su quello altrui.
Franco
Campegiani