lunedì 24 giugno 2024

"SFOGLIANDO IL CALENDARIO "di Daniela Burroni Giannoulidis con prefazione di Maria Rizzi


 

GUIDO MIANO EDITORE

NOVITÀ EDITORIALE

 

È uscito il libro di poesie:

SFOGLIANDO IL CALENDARIO di DANIELA BURRONI GIANNOULIDIS

con prefazione di Maria Rizzi

 

 

 

Pubblicata la raccolta poetica dal titolo “Sfogliando il calendario” di Daniela Burroni Giannoulidis, con prefazione di Maria Rizzi, nella prestigiosa collana “Alcyone 2000”, Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

La poetessa pavese Daniela Burroni Giannoulidis, dopo gli anni trascorsi ad Atene con il marito greco, e l’impegno nella ricerca biotecnologica, ha deciso di donarsi ai versi con assiduità, e ha ricevuto, a ragion veduta, apprezzamenti da parte di critici letterari della levatura di Giulio Panzani, Fulvio Castellani, Marcella Mellea ed altri.

In quest’occasione presenta un calendario lirico dei trecentosessantacinque giorni dell’anno, progetto copioso, di rara originalità. La genialità della poetessa non sta solo nel proposito, ma nella capacità di sfogliare il tempo senza ricorrere a tecnicismi, con luminosa, incandescente ispirazione. Leggendola si pensa a un’autentica vocazione, intesa nel senso letterale di ‘chiamata’. Non vi è dubbio, che come disse Marcel Proust «i giorni sono forse uguali per un orologio, non per un uomo», ma nel caso di Daniela Burroni l’arida clessidra dell’esistenza, che concede lampi di eternità, si trasforma in uno spartito di note quotidiane, che consentono di leggere l’attimo terreno come infinita melodia. Si parte dal 1 gennaio con versi tratti dalla lirica Saliscendi: «…Ho messo il saliscendi alla coscienza / e illumino d’un tratto / gli istanti della vita…», e si è trafitti dall’eco dei grandi della nostra letteratura, grazie al soffio purissimo di endecasillabi spezzati da settenari, da un metro classico utilizzato in modo moderno, vitalistico, dal ritmo assordante e dal timbro che varia in modo inesausto.

Nessun esercizio, una capacità di pensare in poesia, di suonare in versi, di non dare confini all’immaginazione, e al di là di ogni espediente lirico, quest’autrice pavese, imbevuta del sole e del mare greco, si distingue per l’assenza di atmosfere cupe, di oscuri presagi. Pur visionaria, come tutti i poeti, è fresca come acqua sorgiva, scorre tra i ricordi e il presente senza la sindrome della nostalgia malata. «È gioia pura / rispolverare i ricordi / ritrovare gli oggetti dei miei bambini / che sono ormai cresciuti…» (7 febbraio). Più che esaustiva in merito al concetto espresso la lirica Carnevale del 25 febbraio: «Maschera triste / sui violini d’inverno / piangi i tuoi lamenti / spegni nelle fresche mattine / i singulti di sole // vattene vecchia / la vita è adolescente adesso / freme la pelle / al palpito biondo / di una chioma». Non esiste nella Nostra la malinconia di ciò che ha lasciato e l’attesa di ritrovarlo ancora, ma un senso dolce di gratitudine verso le isole del passato e di attenzione al presente e a ogni domani.

Lo sguardo che posa sulla Natura è intriso di un sentimento panico, e la lunga permanenza ad Atene ha senza dubbio influito sulla sua percezione del paesaggi e dell’esistenza. Sono numerose, infatti, le liriche dedicate alle atmosfere, ai giorni e ai sentimenti vissuti nella repubblica ellenica. Vi si colgono tratti intimistici, spunti riflessivi, che riportano al genere ‘idillico’, all’ambiente inteso come amoenus, nel senso di sereno, e a quadri familiari, mutevoli come è ovvio che siano, ma privi di tormenti, Il 22 marzo recita: «Io so dove abita il vento: / nei pensieri che scompiglia ogni momento / e riaggiusta e riprende e solleva / a suo piacimento / incurante degli anni vissuti / e dei giorni che stiamo vivendo…», versi che sembrano accompagnati da un’arpa celtica e confermano che ci troviamo di fronte a una partitura alla quale corrispondono le melodie del cosmo, a un prisma che svela le sfumature della luce.

La solarità dell’Autrice non corrisponde a una forma di indolenza verso gli stimoli esterni. Ella si cala nel sociale, nella consapevolezza che l’unico specchio che conta è quello che ci restituisce la dignità del nostro essere uomini, ed è conscia che ogni forma d’amore cominci in famiglia. Ha saputo tessere la tela di una casa dove regna l’armonia con fili di pazienza, di dedizione e di fede e ha imparato il segreto per volgere lo sguardo misericordioso verso il prossimo. Il 7 aprile si leva il canto: «…questo lutto silente / grave opaco / che ammutolisce il cuore / che sia pietra / da cui sgorghi di nuovo / la vita» (2003, guerra in Irak), e pur nello spaesamento, nello strazio per i conflitti, per le ingiustizie, le liriche palesano la certezza che la pace vada cercata innanzitutto in noi stessi e che è indispensabile coltivare la speranza.

La ricerca dell’equilibrio individuale e la verticalità rappresentano le fondamenta della vita. Devo confessare che i versi di Daniela Burroni mi hanno procurato una sorta di formicolio interiore, di tenera inquietudine. Ho pensato a Jacques Brel e a La canzone dei vecchi amanti che «ce ne vuole del talento per invecchiare senza diventare adulti», e ovviamente non mi riferisco ai dati anagrafici, ma alla capacità di quest’artista di conservare in sé il fanciullino, inteso non nella rigorosa accezione pascoliana, ma come una maturità di pensiero che non uccide il senso della meraviglia e del mistero. Ho compreso, leggendo più volte la silloge, che quel formicolio altro non era che il riflesso della mia anima nella sua.

Devo ammettere che è la prima volta che mi trovo a scrivere di una coetanea con un modo di intendere l’esistenza, il rapporto con gli altri, con la natura e con la fede tanto simili al mio. «…Soffio del Divino / sentito creduto / (e in altri istanti / tristemente perso, / poi ritrovato)…» (La mia Pentecoste, 1 giugno). I versi citati ed altri esprimono il dubbio, che non rappresenta un sentimento sterile e non rende colpevoli, ma è una grazia, una componente ineludibile della spiritualità. Lo stesso Sant’Agostino asseriva «una fede che non sia pensata è niente», perché le certezze rendono superbi e diminuiscono la tolleranza.

Le liriche che presentano una tensione verso il cielo sono permeate dall’apertura d’ali che contraddistingue tutti gli aspetti dell’esistenza di Daniela Burroni, non rivelano forme ascetiche di chiusura, di distacco dalla realtà. Ella, con la sapienza, data solo alle persone eccezionalmente sensibili alla bellezza, capaci di creare, accosta i mesi e i giorni ad anniversari, viaggi, feste consacrate e all’inevitabile srotolarsi delle stagioni dell’esistenza: «L’argento delle chiome, / che dice il passare dei giorni, / trattiene, distillato da ogni amarezza, / un brillio di vivida forza…» (26 settembre). Tramite il carattere teso ad arco verso il sogno e tramite la Poesia, prima freccia dell’arco, Daniela Burroni Giannoulidis vive l’argento come una nuova gradazione di colore della gioventù. La cifra stilistica vede alternarsi liriche di ampio respiro, ad altre più brevi, ad alcuni aforismi splendenti come dardi di fuoco, forse le note più alte dell’intera partitura.

Nel congedarmi da questa Poetessa in eterno levare, con due patrie nell’anima e un perenne viaggio nel cuore, avverto una dolce saudade e nuova gratitudine verso la vita che mi ha concesso il dono di incontrarla e di trascorrere un anno lirico con lei…

Maria Rizzi

 

 

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L’AUTRICE

 

Daniela Burroni Giannoulidis è nata nel 1957 a Pavia. Nel 1982, dopo la laurea in scienze biologiche e dopo il matrimonio, si è trasferita con il marito greco ad Atene, dove è nata la sua prima figlia, e dove è restata per cinque anni lavorando presso il laboratorio biotecnologico di un’azienda chimica. Poi con la famiglia è tornata in Italia, a Pavia, dove sono nati altri due figli, quindi a Certosa di Pavia, attuale residenza. Pur scrivendo poesie fin da giovanissima, ha iniziato a farle conoscere solo dopo aver lasciato il laboratorio per dedicarsi alla famiglia. Ha pubblicato due libri di poesie: Passano i giorni (1997), Tra il balcone e la cucina (2004), e due brevi sillogi in volumi antologici: I riflessi dell’esistere (2003), La poesia della luce (2021).

 

 

Daniela Burroni Giannoulidis, Sfogliando il calendario, prefazione di Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 210, isbn 979-12-81351-34-9, mianoposta@gmail.com.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Franco Donatini ci segnala.......


 

martedì 18 giugno 2024

Maria Rizzi su " Sampietrini " di Luca Giordano edito da Marcianum Press

 

Il titolo dell’ultima Silloge dell’amico antico Luca Giordano è già promessa di scelta diversa, di salto nelle verità dell’esistenza. I blocchetti di leucitite utilizzati per realizzare il lastricato stradale del centro storico di Roma e di Piazza San Pietro ci introducono in un viaggio lirico di quattro sezioni: Sampietrini, Vivere, Nomi, Mare. Il libro è nudo. Bianca e semplice la copertina, nessuna prefazione, solo una breve post - fazione. Si evince la volontà del Poeta di dare voce soltanto ai versi e alla loro potenza. Luca, nella prima parte, presenta Roma, la città dei fasti e della gloria, da un nuovo punto di vista. La introduce, con la discrezione che lo caratterizza, come paese abitato da un milione di persone, come metropoli di giardini, quartieri e periferie e come città di persone comuni, di diseredati, di ultimi, senza arrogarsi mai il diritto di sentenziare, anzi riuscendo a vestire di poesia le immagini che passano inosservate o possono sembrare tristi. “Nella città la pioggia mattutina / ha colorato alcuni ciuffi secchi./ C’è un’aria mossa, come cristallina, / le pozzanghere sono degli specchi. / In due seduti su d’una panchina / si son scordati lì d’essere vecchi” - la lirica “Largo Ravizza”-.  Il distico finale di questo componimento di una purezza incandescente è rappresentativo del mondo di Luca. Due estranei seduti vicini dimenticano lo scorrere del tempo nella melodia di un giorno nuovo, dell’aria trasparente dopo la pioggia.  E la Silloge nuda è già vestita. Un ritratto comune, anonimo, che passa inosservato a tutti, viene sublimato dalla sensibilità del Poeta, e commuove. Luoghi che rendono la capitale ‘principessa’ sembrano trasformarla di colpo in cagna che si lecca le ferite. In realtà è solo il punto di vista che cambia. Diviene quello del romano, che guarda dal basso la città che ama. Struggenti i versi della lirica “Lungotevere degli inventori”, caratterizzati dall’arte della sottrazione, come moltissime poesie del testo. “Tremano le foglie al tocco del vento. / Un lampione è nuca che s’allontana. / C’è una tristezza che toglie il respiro, / i passi che hanno un ritmo conosciuto./ Alzo la testa: è arrivata la notte”. Le rare metafore sono incisive come lame e le chiuse hanno il sapore delle piccole grandi rivelazioni. Leggendo si ha sempre più l’impressione che il Nostro conosca i segreti dell’essere Poeta: sollevare i quotidiani veli di Maya evitando di calarsi nel mistero e nel confine . In “Portico D’Ottavia” la storia personale di Luca si affaccia timida e non gonfia d’orgoglio come potrebbe. “La patina antica delle rovine /graffiate dalle unghie dei deportati. / Io, muto come le colonne scure, / mi ricordo i racconti di cinque ebrei / nascosti a casa nostra e poi salvati.” I versi di una lirica di dieci versi, scandiscono a suon di ottonari il mondo sommerso di Roma: “…e continuo sulla strada. / Vedo un vecchio tutto rughe, le sue mani tartarughe, il Bastone fa da spada./ Poi il Foro, un po’ di cielo, / i barboni son vissuti, / i turisti un po’ sperduti, / i lampioni con lo stelo. / E nel flusso dei pedoni / tutti sembrano più buoni”. - la lirica “Via IV Novembre” - . Sento di dover riportare per intero alcune poesie, non solo in virtù della loro brevità, ma dell’importanza che l’Autore attribuisce a ogni parola. Nella sezione Vivere il viaggio di Luca si focalizza sulle persone. Straordinaria la lirica che apre la sezione “Passa dal corpo il cielo”: “Passa dal corpo il cielo / trova spazio e colore / la rete dei tessuti. / Non è solo terreno /la trama, questo intreccio / che pure mi attraversa”. Il pensiero va a Salvador Dalì, di fronte a questo dipinto. Egli asseriva che “Il cielo non si trova né sopra né sotto, né a destra né a sinistra, è esattamente nel centro del petto dell’uomo che ha fede”. Luca è uomo che scrive dal basso, ma è teso alla verticalità. Lo dimostrano i versi sugli amici, ‘i suoi amici prediletti’, con i quali trascorre le ore libere, ovvero i disabili, coloro che sanno rendere le debolezze punti di forza. “Stessi sempre con voi, / amici, quando lui / ci ridarà il corpo, / che anche il suo amore / passa dalla bocca, / dagli occhi, le mani. / Percorre l’udito, / passa dalla pelle”. - la lirica “Stessi sempre con voi” -. Il Poeta, teso ad arco verso tutti gl aspetti dell’esistenza, è ovvio che scorga negli alberi, miracoli del creato, capacità d’espressione, che legga la loro anima. “Canta presto il pesco, / lancia un grido rosa / verso il cielo, brucia / subito il colore” - la lirica “Grido rosa” -. Luca sembra desiderare che la natura entri negli esseri umani come i raggi del sole filtrano le fronde degli alberi. I suoi versi parlano sempre più di pietas, di quel sentimento che etimologicamente indica amore, compassione e rispetto: “Non si nasconde tra la folla un corpo / che randagio per le strade è tradito / dalle tracce della solitudine. / Si ruppe come un oggetto fragile. / Poteva essere amica, uomo, / bambino da crescere, figlia amata” - estratti da “Vagabondi” - . Nella terza parte della Raccolta dedicata ai Nomi il Poeta offre ritratti di persone conosciute e di elementi poetici della natura, come “Daniela”, l’uccello dalle “lunghe zampe e becco grande”, che “salta nel cielo”. Quel cielo che passa attraverso i nostri corpi, è penetrato dalle grida del pesco, dai voli notturni di infinite ali … diviene nostra sostanza e terra di infinita scoperta per gli elementi della natura. Bellissima la figura di “Maria”  “Vivere diventa quasi morire, / come se non ci fosse altro da fare. / Ieri però è tornato quel ragazzo / venuto come acqua quando hai sete. / E finalmente ti sei presa il caffè. / La morte si è staccata dalla pelle”. La chiusa è in levare, ma racconta ancora la storia di una straziante solitudine interrotta da un gesto di solidarietà. Non si muore una sola volta. La fine è già nel derma delle creature abbandonate, rese scarti della società. Luca accarezza ognuno di loro e provoca in molti di noi, allenati all’indifferenza,  sussulti nelle coscienze. L’ultima sezione è per il Mare, elemento infinitamente caro al cuore del Poeta.”Avevo già quindici anni, / avevo il corpo asciutto. / Un vento senza soste / mi confondeva i sensi. Nel tuffo raccoglievo / frutti di mare al fondo. / Mi pareva che tutto / fosse per me: la terra / il mare, anche le stelle”- tratti da “Avevo già quindici anni -. D’altronde il mare permette la libertà dell’impossibile, dà alle braccia ciò che l’aria offre alle ali. Baudelaire scriveva: “Uomo libero / amerai sempre il mare / il mare è il tuo specchio / contempli la tua anima / nello svolgersi infinito della sua onda”. E Luca gli fa eco: “Tempesta contro il solido strapiombo / soffiando forte il vento mi confonde. / Qui tutto si fa canto, non rimbombo” - tratti da “Sulla scogliera batte la risacca”- . La Poesia senza orpelli del Nostro cresce nelle varie sezioni e nell’ultima ci appare in abito da sposa, tra le creste delle onde, il fragore dei flutti, pur restando fedele ai concetti - chiave della Silloge. La distesa marina, infatti, non ha paese, è di tutti coloro che la stanno ad ascoltare, a est e a ovest, dove nasce e muore il sole. Il cielo, che si fa corpo nei versi di Luca, è l’altro volto del mare, l’uno continua a specchiarsi nell’altro in eterno, senza mai congiungersi. Ho l’impressione che l’amore del Poeta per l’azzurro infinito

esprima la convinzione che solo il mare possa perdonare i nostri inverni. La Silloge di Luca Giordano dimostra una volta di più che la Poesia è dentro, non fuori di noi. E che spesso sono i profondi solchi, le rughe dell’esistenza ad aprire la strada al suo cammino… 

 

Maria Rizzi

 

 

 

Rita Fulvia Fazio :" Amore"

                                                                   


  

                                                                 Prefazione

                                           Prof. Franco Donatini – Università di Pisa

Una silloge, questa di Fulvia Rita Fazio, strutturata su tre sezioni, che assomiglia a una tessitura musicale. La sua articolazione ha infatti il senso di una sinfonia intesa come accordo di suoni che caratterizza, per l’intensa musicalità, le liriche della raccolta. C’è in questa opera poetica una forte connessione tra significato e significante, un legame così intenso e pregnante che sembra indissolubile. Le figure retoriche di tipo semantico si intrecciano con quelle di suono e di ordine in una versificazione ritmica, melodiosa, armonica che evoca una partitura musicale. Le tre parti hanno elementi contraddistinti sul piano del significato, a cui si accordano tre diversi stili su quello del significante. Nella prima sezione, congruentemente con il titolo Romanza, le poesie hanno la veste di assoli lirici, in cui la donna esprime con intensità l’essenza e la sacralità del sentimento amoroso, ne caratterizza i contenuti, le forme, le emozioni, la libertà che è il respiro e il profumo dell’amore. C’è in questa parte la condizione sospesa del sogno, l’elemento onirico che costruisce l’incantesimo che vivono gli amanti e, allo stesso tempo il desiderio e la carnalità della passione Avessi il tuo nome, / oh, Amore, / avessi i tuoi occhi cristallini, / le tue labbra rosse e carnose / che baciano le mie, / ansiose, ad ogni respiro di te / di tutti i miei sospiri. / Sì, tu, tu che distingui il sole / che è nel mio cuore! Nella seconda, intitolata Allegro, appare l’elemento tempo, inteso non in senso dinamico, ma piuttosto come momento magico in cui il sentimento si ferma per cogliere il senso dell’infinito. L’infinito è il nuovo connotato dell’amore, il suo tendere filosoficamente verso l’assoluto. È l’attimo, inteso come un granello di tempo che contiene l’eternità, ma anche di spazio in cui è concentrato l’universo. Fermo l'istante e ascolto / il refolo del mare / nel silenzio del cuore: / s'effonde il tuo dono d’Amore, / la tua beltà. L’amore è capace di compiere questa metamorfosi del quotidiano per andare oltre, divenendo così un altrove, un non luogo, in cui il corpo e l’anima si fondono dando un senso compiuto all’esistenza. In un breve spazio di tempo / …e le note di una canzone / accompagnano dolcemente / il dipanarsi del pensiero, / esisto L’altrove è anche il non luogo che indentifica la poesia, così come l’amore esprime la condizione poetica e diviene sentimento universale di cui l’unione amorosa è paradigma. la Poesia sei tu! / Fra tutte, la più bella / è quella d’esser-ci. / Doniamoci, lasciamo intatta / la bellezza dello sguardo / di un'anima innamorata: / la tua nella mia, / la mia nella tua. / Estasi uguale. Infine nell’ultima parte, Minuetto, le liriche, congruentemente al titolo, assumono la leggerezza di passi di danza. È il terzo connotato del amore, in cui i corpi levitano e tendono alla elevazione spirituale. La purezza della natura si lega alla spiritualità trascendente dell’amore, l’anelito verso l’infinito, evocato dalla mirabile visione di una notte stellata. Voglio tutte le stelle / dal sapore di te. / Voglio il sapore dei tuoi baci / senza chiederli / -come Catullo a Lesbia- / perché noi, Amore, / e i nostri continui baci / lo sappiamo, / eterneremo nelle stelle / quando la notte infinita / dormiremo. Non è né fuori luogo, né casuale il riferimento a Catullo, di cui si ritrova in questi versi una raffinatezza formale e una intensa carica passionale. Così come nell’opera del grande poeta latino, che introdusse la passione amorosa nell’ambiente culturale austero dell’antica Roma, aprendo la strada ai poeti elegiaci, anche qui il tema dell’amore assume una centralità esistenziale. L’amore è l’elemento di connessione tra corpo e anima, tra natura e spirito, seppur con una differenza. In queste liriche, la sofferenza del rapporto amoroso tra Catullo e Lesbia viene superata attraverso il coinvolgimento della materia e dello spirito, in cui i due amanti si riconoscono in maniera bilaterale. L’unica strada che, secondo Alberoni, consente la ricerca e il raggiungimento del vero amore, in cui ciascuno si unisce con l’altro, in una condizione di estasi sessuale. L’elemento elegiaco è presente in questi versi, ma non come nostalgica, affettuosa malinconia, che la natura evoca attraverso il ricordo, ma piuttosto come partecipazione simbolica della natura alla elevazione e al coronamento di questo sentimento. In questa interpretazione sta la modernità di questi versi, così come nel linguaggio che si arricchisce di immagini, suoni, musicalità in una sinestesia dei sensi che esprime in maniera compiuta la condizione mirabile e profonda dell’amore.



   

                                                                       Nota critica Prof. Nazario Pardin

In "Amore" vi si ritrova l'amore vissuto appieno;

poesia fresca, calda, istantanea, apodittica come vuole la

poetica contemporanea.

Poesia snella, veloce, armoniosa zeppa di fascino.

Anche la forma è scattante e si addice al contenuto,

dove pathos e logos si completano in un messaggio forte

e armonioso.

La silloge è veramente bella, sentita, completa, è

proprio un trabocco d'anima e cuore, in un foglio dove

tutto è possibile.

Amore, nostalgia, fremiti, cuore, fascino, e armonia

di sensi.

Le poesie sono commoventi e attraggono per la

loro spontaneità e freschezza di immagini.

Tutto è caldo come il sole di giugno, tutto è chiaro

come una giornata di sole.

Mi ha particolarmente colpito questa:

"Riluce di noi Amore

E ti Amo

con lo sguardo lucente

dei sogni della luna.

Ti Amo

rosasmeraldo riflesso

ai sogni sognati inconsci,

segreti, arditi e belli.

Davvero ti Amo stretta

tra le tue braccia infinite

avvolgenti ogni mio pensiero

e desiderio di sospiri e baci.

Oltre tutti gli attimi,

i sensi senza confini

ti Amo,

nell'istante atteso

dei sogni della luna."


 

 

Giancarlo Baroni :"Italo Calvino…per me"



Ci sono scrittori con cui ci si sente particolarmente in sintonia, con i quali si crede di avere delle affinità anche caratteriali, scrittori che contribuiscono a plasmare la nostra sensibilità e il nostro modo di vedere, giudicare e comprendere il mondo, che svolgono il ruolo di maestri. Una di queste guide è stata ed è tuttora per me Italo Calvino (1923-1985), generosamente prodigo di consigli ogni volta che rileggo un suo libro.
Quando confessa di sé: «sono un saturnino [malinconico e introverso] che sogna di essere mercuriale [aereo, agile e leggero] e tutto ciò che scrivo risente di queste due spinte», rimango affascinato dalla precisione e concisione dell’analisi e ho l’impressione che, involontariamente, stia parlando anche di me. È un sentimento di rispecchiamento e di identificazione che tutti i lettori almeno una volta provano, una specie di transfert che consente alla letteratura di restare viva e attuale anche a distanza di anni, di durare.
Siccome mi ci riconosco pienamente, ho fatto mio questo motto latino adottato fin dalla giovinezza da Calvino: «Festina lente» («Affrettati lentamente»); un ossimoro che acutamente accosta due termini apparentemente inconciliabili.
Soltanto due altre massime mi hanno colpito altrettanto positivamente imprimendosi nella memoria: la prima, «Nec spe nec metu» («Né con speranza né con timore»), decora lo Studiolo di Isabella d’Este nel Palazzo Ducale di Mantova; la seconda, «Nec tumultus nec solitudo », campeggia sulla facciata neoclassica di Villa Levi-Tedeschi a Parma.
Se iniziamo la conoscenza di Italo Calvino leggendo per esempio il Castello dei destini incrociati (1973) o Palomar (1983) può nascere in noi l’idea che il loro autore sia soprattutto un occhio che in disparte guarda, osserva, scruta, indaga, e una mente che con lucido e distaccato rigore ragiona, riflette, combina, medita, elabora. Se proseguiamo però nella lettura dei suoi libri ci accorgiamo della varietà dei temi e dei toni e rimaniamo forse un po’ sorpresi dalla appassionata, calda e ravvicinata descrizione che Amerigo Ormea (il protagonista del breve romanzo La giornata di uno scrutatore, ambientato nel 1953 nel seggio elettorale torinese dell’ospizio del Cottolengo e pubblicato dieci anni dopo quando Calvino aveva quarant’anni) fa di un’amica: «Amerigo sentiva un bisogno struggente di bellezza, che si concentrava nel pensiero della sua amica Lia. E quello che ora ricordava di Lia era la pelle, il colore, e soprattutto un punto del suo corpo – dove la schiena fa un arco, netto e teso a percorrere con la mano, e poi subito s’alza dolcissima la curva dei fianchi – un punto in cui ora gli pareva si concentrasse la bellezza del mondo, lontanissima, perduta». Quanta sensualità in questo ritratto.
All’inizio del mio percorso di scrittore ho provato a scrivere romanzi e due, di nemmeno cento pagine, li ho anche pubblicati. Presto però, per una serie di motivi e giustamente consigliato da un autentico narratore come Antonio Pennacchi, ho abbandonato la narrativa a favore della poesia: ognuno deve trovare il linguaggio che gli è più naturale. I meccanismi narrativi non mi sono tuttavia estranei e sconosciuti, mi sono dovuto inevitabilmente confrontare e scontrare con loro. Ho sempre avuto l’impressione che quando scriviamo racconti e soprattutto romanzi diventiamo alcuni o tutti i personaggi che inventiamo; ci mettiamo nei loro panni, guardiamo le cose dal loro punto di vista. Il nostro io non scompare e non si annulla, ma si spezzetta; ciascuno di questi frammenti (che coincidono con parti della nostra personalità e della nostra esperienza) viene attribuito a un personaggio e costituisce ciò che di nostro gli portiamo in dote. Poi il personaggio cresce e si rende autonomo, separandosi da noi come un figlio anche un po’ ribelle. La sua libertà può entrare in conflitto con la nostra, ma le due indipendenze devono trovare un accordo se si vuole che il libro raggiunga la propria meta. Fra autore e personaggio si instaura una relazione dialettica, un fruttuoso scambio reciproco.
Parti del carattere di Calvino sono ad esempio presenti nell’intellettuale comunista Amerigo (come Vespucci) Ormea (anagramma di “amore”) che incontra e scopre una umanità sofferente, malata, infelice; nell’eccentrico e anticonformista Cosimo Piovasco di Rondò del Barone rampante (1957) che abbandona la famiglia e si ritira sugli alberi continuando tuttavia da là in alto a partecipare alla storia e alla vita collettiva («Nella tomba di famiglia c’è una stele che lo ricorda con scritto “Cosimo Piovasco di Rondò – Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo”»); sono presenti nel Marco Polo de Le città invisibili (1972) dove l’ambasciatore Marco descrive all’imperatore dei Tartari Kublai Kan alcune città dell’Impero che non esistono se non nei racconti che inventa: «A me sembra», sospetta scaltro l’imperatore, «che tu non ti sia mai mosso da questo giardino»; nel signor Palomar (del romanzo omonimo) che «ha deciso di limitarsi a guardare, a fissare nei minimi dettagli il poco che riesce a vedere, tenendosi alle idee immediate che suggerisce ciò che vede».
All’esploratore veneziano (viaggiatore per antonomasia assieme a Ulisse) ho dedicato la mia raccolta di versi Le anime di Marco Polo.
Oltre alla nitidezza dello stile e alla limpidezza della riflessione, i libri di Calvino affascinano per le massime memorabili, vere e proprie perle di saggezza che sanno armonizzare bellezza e morale, diletto e utilità, eleganza e rigore, estetica e conoscenza. Durante la lettura di ogni suo libro, almeno una frase illuminante e perfetta si fissa nella memoria e ci induce a pensare, riflettere e meditare.
Ecco una prima frase esemplare contenuta ne La giornata di uno scrutatore che, precisa l’autore in una nota, è un racconto «più di riflessioni che di fatti»: «D’altro canto, c’era sempre la morale che bisogna continuare a fare quanto si può, giorno per giorno; nella politica come in tutto il resto della vita, per chi non è un balordo, contano quei due principi lì: non farsi mai troppe illusioni e non smettere di credere che ogni cosa che fai potrà servire». Non illudersi e non rassegnarsi, non sperare in risultati eclatanti e non arrendersi al fallimento, alla cupezza, all’immobilità e alla sconfitta: fare ciò che si può e che va fatto. Evidenti le affinità con quest’altra dichiarazione compresa in un saggio pubblicato nel 1962 e intitolato La sfida al labirinto; qui l’autore ribadisce che la sfida deve prevalere sullo stallo, la ricerca sull’accidia: «Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto».
Laconica, lapidaria, acuminata, la seguente sentenza dalle pretese all’apparenza minime, più adatta e comprensibile per un anziano come me piuttosto che per un giovane: «Tu sai che il meglio che ci si può aspettare è di evitare il peggio» (Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979). Invecchiando si diventa sempre più selettivi, si smette di accumulare, dal marasma dei fatti salviamo poche cose, frasi, libri, pensieri, immagini, emozioni, pensieri. Ci aggrappiamo a quello che resiste e rimane come fosse una scialuppa di salvataggio, coscienti che il naufragio sia inevitabile. Quando si discute di vecchiaia, del tempo inesorabile che scorre, delle rimembranze, dei rimpianti e dei rimorsi, inevitabilmente occorre citare, per la sua perfetta esattezza malinconica questo brano contenuto ne Le città invisibili: «Isidora è dunque la città dei suoi sogni: con una differenza. La città sognata conteneva lui giovane; a Isidora arriva in tarda età. Nella piazza c’è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro. I desideri sono già ricordi».
Marco pronuncia a fine libro una frase da conservare per sempre nella memoria: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Discernere, distinguere, saper cogliere sfumature e differenze, affinare sguardo e giudizio, ecco i presupposti per una scelta e per un’analisi ponderate non costrette e ingabbiate dentro a un unico punto di vista.
Nelle Lezioni americane (1988) Calvino rivela la sua fondamentale propensione e preferenza verso le forme brevi: «Come per il poeta in versi così per lo scrittore in prosa, la riuscita sta nella felicità dell’espressione verbale, che in qualche caso potrà realizzarsi per folgorazione improvvisa, ma che di regola vuole dire una paziente ricerca del “mot juste”, della frase in cui ogni parola è insostituibile, dell’accostamento di suoni e di concetti più efficace e denso di significati. Sono convinto che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia; in entrambi i casi è ricerca di una espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile. È difficile mantenere questo tipo di tensione in opere molto lunghe: e d’altronde il mio temperamento mi porta a realizzarmi meglio in testi brevi: la mia opera è fatta in gran parte di short stories». Parole che suonano melodiosamente alle mie orecchie di scrittore di versi e che in una raccolta inedita intitolata Brevi, brevissime accoglie come epigrafe esplicativa questo ruvido ma icastico invito di Charles Simic: «Poesia breve: falla corta e dicci tutto quanto» (Il mostro ama il suo labirinto).
In Scrivere narrativa, Edith Wharton con proficuo buon senso ci ricorda che «si deve sempre poter dire di un romanzo “Avrebbe potuto essere più lungo”, e mai, “Non c’era bisogno che fosse così lungo”». Con altrettanta acuta ragionevolezza Flannery O’ Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mistero dello scrivere, afferma che «Breve non vuol dire inconsistente. Seppur breve, un racconto deve svilupparsi in profondità e trasmetterci una pienezza di sentimento».
Nella lezione americana dedicata all’esattezza Calvino confida: «mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile… il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d’insoddisfazione di cui posso rendermi conto ». Ho la sensazione di guardarmi allo specchio: quando parlo in pubblico le parole giuste non arrivano alle labbra, le cerco senza scovarle, come se ci fosse un ostacolo, un impedimento. Se vengo interrogato direttamente e a bruciapelo la mia mente gradualmente viene occupata da una foschia che sbiadisce i pensieri e vela le parole. Le frasi devono sgorgare con immediatezza e naturalezza altrimenti si rischia di incespicare in balbettii, di scivolare dentro pause da cui la voce stenta ad emergere. Solamente mentre scrivo non ho fretta di dire e se le parole adatte, quelle necessarie per esprimersi al meglio, non compaiono subito posso aspettare con pazienza che escano senza fretta dall’angolo della memoria in cui sembrano momentaneamente accantonate.
Quale lettore ideale vorrei leggesse i miei libri e quale lettore vorrei essere a mia volta per i libri altrui? Tranquillo, indisturbato, concentrato, comodo, immerso nel silenzio e protetto dai rumori, proprio come quello descritto da Calvino all’inizio di Se una notte d’inverno un viaggiatore: «Stai per cominciare a leggere […] Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto […] Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato. La porta è meglio chiuderla, di là c’è sempre la televisione accesa […] Alza la voce, se no non ti sentono: “Sto leggendo! Non voglio essere disturbato” […] Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato… In poltrona, sul divano, sulla sedia a dondolo, sulla sedia a sdraio… Sull’amaca, se hai un’amaca. Sul letto, naturalmente, o dentro il letto».
Calvino conclude così le Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio: «magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata di un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica». Nelle mie poesie non gradisco raccontare in modo esplicito di me, preferisco parlare di altre persone, creature e personaggi, animali compresi, stabilire con loro un contatto, una relazione e uno scambio, riferire storie e vicende che li riguardano, mimetizzarmi e mettermi nei loro panni, guardare il mondo attraverso i loro occhi e perfino farli esprimere direttamente. Possono essere per esempio viaggiatori ed esploratori (come Marco Polo), eroi del mito (come Ulisse), scienziati (soprattutto Darwin), una serie di pittori (da Masaccio a Basquiat), uccelli (a cominciare dai merli), singole persone comuni, come un’anonima signora affacciata alla finestra e alle prese con il rito quotidiano del caffè. Confesso però che con l’avanzare degli anni è riaffiorata l’urgenza di dire io, di parlare anche di me, di rivelare ciò che è possibile confidare.
A Cosimo Piovasco di Rondò, il barone rampante, mio alter ego, ho dedicato queste due poesie:

Il sogno di Cosimo

Salgo sull’albero
più alto del bosco
ad ogni ramo una domanda
di botanica
e la risposta giusta
se voglio proseguire
verso la cima
se aspiro a volare
di ramo in ramo
come un rosso scoiattolo.

Dall’alto guardo il mondo
come gli uccelli che incontro
subito sospettosi.
Sfioro le foglie
le accarezzo sentendo
i loro brividi
sulla mia pelle
che si tinge di verde;
canto insieme a loro
nel coro del vento.

Il barone rampante

Affacciato sul torrente Merdanzo
che lo stato delle cose richiama

da vecchio un’immagine lo incalza
di Viola ardimentosa mentre ama.

Il pittore Gerri Lunatici è l’autore del ritratto di Italo Calvino che accompagna il testo di Giancarlo Baroni. È contenuto nel volume Ritratti (Youcanprint, 2023).

(A cura di Silvia Pio, pubblicato nella rivista online "Margutte" il 9 giugno 2024 )

 GIANCARLO BARONI

lunedì 17 giugno 2024

OPERA OMNIA (vol. 1 – poesie) di PIETRO NIGRO con prefazione di Enzo Concardi

 



GUIDO MIANO EDITORE

NOVITÀ EDITORIALE

 

È uscito il libro:

OPERA OMNIA (vol. 1 – poesie) di PIETRO NIGRO

con prefazione di Enzo Concardi

 

 

Pubblicato il libro “Opera Omnia (vol. 1 – poesie)” di Pietro Nigro, con prefazione di Enzo Concardi, nella prestigiosa collana “Il Pendolo d’Oro”, Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

Esiste un legame particolare tra il poeta siciliano Pietro Nigro, nativo di Avola poi residente a Noto, e la Casa Editrice Guido Miano: nel 1982 venne pubblicato a Milano il suo primo volume Il deserto e il cactus, al quale ne seguirono altri, fino all’attuale Opera Omnia. Tale rapporto non è stato soltanto professionale, fra editore e scrittore, ma soprattutto umano e ideale fra Guido e Pietro, un’amicizia e una stima reciproche a distanza, fra scritti e conversazioni telefoniche. Essa si nutriva di memorie comuni, come la frequenza al Liceo classico “Di Rudinì” di Noto, il primo come studente, il secondo, più tardi, come professore di lingua inglese. C’erano poi le stesse origini siciliane nella terra siracusana; l’amore per la cultura classica della Magna Grecia; la comune passione per le lettere; un’intesa intellettuale e culturale che li contraddistingueva come figli ed eredi del grande patrimonio antico. Senza dubbio la scomparsa recente di Guido Miano ha costituito per lui una perdita dolorosa, così come, ancor maggiormente e più vicina nel tempo, la scomparsa dell’amatissima moglie Giovanna lo ha lasciato, come dice nella dedica, con il cuore straziato e senza “musa ispiratrice” di tanti suoi versi.

È dunque con siffatta premessa biografica che ci accostiamo a presentare questa raccolta di liriche, che comprende tutte le tematiche dell’autore, la quale tuttavia, non contiene la totalità delle sue composizioni, bensì un ampio ed esauriente “florilegio, adatto comunque a sviscerarne i contenuti e lo stile. Infatti i capitoli nei quali è suddivisa l’opera rappresentano altrettanti motivi ispiratori dell’ars poetica di Nigro, così come sono apparsi ad una stringente analisi critica. Si succedono allora i vari aspetti della sua scrittura, così delineati: Trinacria e Magna Grecia; Chiaroscuri della natura; I labirinti della memoria; Amore è vita; Tra la vita e l’oblio; Dal dolore all’anima, dall’essere all’infinito. Ma il libro, nell’epilogo, ha un ultimo capitolo inedito: Alla fine del tragitto, emblematica titolazione voluta dall’autore per significare chiaramente la probabile chiusura di un cammino esistenziale ed artistico. In generale il suo canto si sviluppa dai vissuti soggettivi, dalle suggestioni dell’isola nativa, da indagini sulla condizione umana, attraversando il mondo dei sentimenti familiari e amorosi, conoscendo il dolore, la gioia e la speranza; esprimendo senza limiti l’aspirazione dell’essere all’infinito, all’eterno, alle dimensioni metafisiche, con metamorfosi di andata e ritorno dal pessimismo cosmico e antropologico a visioni possibiliste sul destino umano dopo la morte, tema che, in ultima analisi, è quello che più l’assilla, poiché non trova certezze ma solo domande senza risposta.

In lui materia e spirito sono talvolta realtà antitetiche, talvolta categorie filosofiche alleate nella ricerca del miglior modo per vivere: certo è che il vero dio che ci governa risponde al nome di ‘mistero’. Affermare e negare allo stesso tempo mortalità e immortalità dell’uomo sembra essere una verità duplice, poiché la prima è evidente, mentre la seconda pur non essendo tangibile è fortemente desiderata. Germi, valori ed elementi di Cristianesimo s’affiancano e s’intrecciano nella sua visione ad un certo fatalismo della cultura mediterranea di origine classica, forse stemperato dagli afflati ideali e solidaristici. Poeticamente si riscontrano nei suoi testi influssi stilistici, estetici e contenutistici provenienti dell’ermetismo, amalgamati ad un neoclassicismo sobrio e levigato nel linguaggio. Lo scavo in profondità lo accomuna alla poesia d’impegno umano, intellettuale, etico, civile che tanto manca nel panorama contemporaneo. Si potrebbe dire che Nigro va al fondo di ogni questione fondamentale dell’esistenza, volendo indicare all’umanità il giusto cammino verso la libertà, la civiltà, la pace; la sua è anche una poetica ricca di messaggi rivolti al bene comune: possiede quindi una concezione dell’arte di tipo finalistico e non rispondente al famoso dettato dell’arte per l’arte del decadentismo.

Più in particolare nel primo capitolo – Trinacria e Magna Grecia – sono cantate le tematiche delle migrazioni delle genti siciliane: lontano dalle trazzere si perdono le proprie radici e l’originaria identità si affievolisce sempre più. L’attaccamento alla terra nativa da parte del poeta è tenace e i suoi versi si distendono nella contemplazione naturalistica fra i Monti Iblei e il mare: così com’è arido il paesaggio in alcuni tratti, tale è la povertà secolare dei suoi abitanti. In Terra di Sicilia ecco il contrasto tra antico e nuovo: «Odo levarsi dai rovi / della mia terra dimenticata / il canto soffocato di uomini duri / come scorza d’ulivi / tra la fuliggine di sedicenti civiltà di ciminiere…». E il richiamo della Magna Grecia è sempre vivo: le orme degli antenati posseggono ancora la loro suggestione, gli ideali della grecità perduta sono rimpianti, i miti rievocati: Eschilo, Pindaro, Teocrito, Simonide e Bacchilide (Indefiniti confini).

Nel capitolo secondo, dedicato ai Chiaroscuri della natura, emerge il poliedrico rapporto del poeta con l’elemento naturale, che assume sia valenze contemplative che aspetti filosofici. Proprio in riferimento a questi ultimi le liriche più significative sono: Tu, materia, muovi la mia mente e Soffre lo spirito. Qui l’autore assegna alla natura il ruolo di suo simbolo ed essenza, perché «... commuovi il mio spirito / e i miei sensi elaborano il pensiero / per scoprirti e capirti», mentre spirito e materia convivono in una visione osmotica. C’è dunque una immedesimazione tra uomo e natura, desiderio di metamorfosi, ideale di vita: «Sei tu la mia ambizione: / libertà di goderti, / natura» (Sei tu la mia ambizione).

La poliedricità continua mediante la consonanza fra stati d’animo soggettivi e tonalità del paesaggio, attraverso i legami affettivi con l’ambiente naturale, nei momenti contemplativi delle campagne del Sud, dai quali nasce un forte desiderio di pace interiore, come in Odoranti campi di zagara, dove Nigro cita un verso di Goethe: «Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?».

Si presentano ora I labirinti della memoria come terzo capitolo del libro. La funzione del passato, secondo il poeta, è tutta concentrata nella lirica Ricetta: «Non mi umilia il sole: / anche se mi porta il nuovo / il passato non cancella. / Per far morire la nostalgia / risuscita il passato / rievoca le vecchie cose / rinnovale / mischiale al presente / e vivi». Così emergono i ricordi della giovinezza, il pianto degli anni lontani, le nostalgie dei soggiorni a Parigi, le visitazioni alla ‘teca della memoria’, i viaggi nella millenaria storia collettiva, ovvero Alfa e Omega.

La poesia amorosa di Nigro è raccolta nel quarto capitolo: Amore è vita, interamente rivolta all’unico, grande amore della sua vita, a cui - come già detto – è dedicato il libro. È un canto, talvolta melico, con reminiscenze stilnovistiche per la donna dei sogni; leggendo queste liriche o solo anche i titoli, recepiamo la totalità dell’innamoramento del poeta, attraverso immagini estasiate: Quanto t’amo dirti vorrei («questo senso di mutuo perderci»); Lontananza («Dov’è l’amor mio»); Il mio ruscello («Mi bagnerò in eterno nella tua purezza»); A te («Scava nel mio cuore / e vi troverai perle per te»); Sogno d’amore («È un sogno incantato / la mia vita accanto a te»); Oh, i tuoi occhi («I tuoi occhi / luce ai miei») … E poi gli incanti romantici dei soggiorni parigini con lei, avvolti da magiche atmosfere bohèmiennes.

Brusco è il passaggio alle problematiche esistenziali (capitolo quinto: Tra la vita e l’oblio), ma è palese in Nigro la consapevolezza della caducità umana, raffigurata efficacemente in La sigaretta: «... Così la vita! Una sigaretta che s’accende / allorché si nasce e che man mano / cenere lascia sul percorso cammino, / finché scompare». Quindi egli celebra l’esistenza, la luce, la speranza (Canto alla vita) e allo stesso tempo s’accorge che tutto è vanità (Futilità) e, con immagini foscoliane e leopardiane, ci conduce al trapasso, ricordandoci che il senso della vita è il suo mistero.

Il capitolo successivo, il sesto, vede l’affacciarsi di tematiche che avvicinano Nigro alle dimensioni divine e trascendenti, al bisogno di credere nella vita eterna, a considerare non chiusa la partita della vita dopo la morte: Dal dolore all’anima, dall’essere all’infinito contiene liriche nelle quali si rivolge al Dio dei suoi padri affinché interceda per un destino di oltrità, di infinito, di vita escatologica; altre in cui afferma che il bene dell’anima va nutrito con la luce e la liberazione; altre ancora dove appare l’immagine delle Astronavi dell’anima su cui navigano uomini e dèi. Infine, epilogo significativo, Gesù e la storia pone il sigillo sulla verità ultima: «Padre nostro che sei nei cieli» (in corsivo nel testo).

L’aggiunta del settimo capitolo, Alla fine del tragitto, non cambia nulla a quanto già esposto: vi è altresì un richiamo all’attualità storica riferito alla guerra nel Medio Oriente (Morte nel deserto del Negev e a Gaza) che contiene i condivisibilissimi versi: «…Solo l’amore sanerà la terra, / mentre l’efferata brama di potere / vi darà la morte».

Enzo Concardi

 

 

Pietro Nigro, Opera Omnia. Volume 1 - Poesie, prefazione di Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 208, isbn 979-12-81351-28-8, mianoposta@gmail.com.

 

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L’AUTORE

Pietro Nigro è nato ad Avola (sr) nel 1939 e risiede a Noto (sr); laureato in Lingue e Letterature Straniere all’Università di Catania, ha insegnato inglese presso varie scuole superiori. Ha iniziato a scrivere poesie fin da ragazzo; la sua ispirazione trae origine dai luoghi siciliani della sua infanzia e dagli ambienti francesi e svizzeri visitati durante le vacanze estive, in particolar modo Parigi (la sua città d’elezione), dove si recava spesso per perfezionare la conoscenza della lingua francese. Il primo libro di liriche, Il deserto e il cactus, è stato pubblicato da Guido Miano nel 1982 e gli è valso il 1° Premio assoluto per la poesia edita, Targa “Areopago” (1983, Roma). Sono seguite molte opere poetiche, testi di saggistica e altri lusinghevoli riconoscimenti, tra cui il prestigioso Premio “Luigi Pirandello” per la Letteratura (Taormina, 1985) e il Premio “La Pleiade ‘86” «per la produzione letteraria e poetica già riconosciuta a livello critico» (sala del Cenacolo di Montecitorio, Camera dei Deputati, Roma 1986).

 

 

 

 

lunedì 10 giugno 2024

Luisa Martiniello legge :" Servi e Satrapi " di Raffaele Bussi, Marcianum Press, Venezia, 2023

 

La prima nota amara e filo rosso di questo romanzo è data dalla citazione di Gramsci ad esergo: L’illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la Storia insegna, ma non ha scolari.

Il protagonista è l’anziano Nikolaj Smirnov, sagrestano della Basilica di Santa Sofia a Kiev, che conduce il lettore a ripercorrere la sua esistenza tra rammarico per il passato e la paura per il futuro, a stargli a lato mentre lascia la sua terra per accompagnare chi sta per fuggire dalla guerra, profughi del suo paese alla volta dell’abbazia benedettina di Plankestetten in Baviera, nella speranza di un rapido ritorno: il rischio della morte è meno pesante della condizione di fuggitivo.

I termini fuga, fuggitivi, esilio connotano le pagine dense di angoscia, ma anche di speranza, se si ricorda, come fa Padre Beda, in quanti esili e fughe ha navigato anche il figlio di Dio per portare a termine la sua missione.

Attraverso gli occhi di Nikolaj con le nubi accarezziamo la cupola centrale, della Basilica di Santa Sofia, dorata per ricordare il Nazzareno e le dodici di color verde cobalto associate ai dodici apostoli. L’autore non può fare a meno di annotare che gli arabeschi non hanno confini da violare, né frontiere da abbattere e sono proprio queste nuvole che nel penultimo capitolo tornano ad essere citate, dopo la visita al Tribunale di Norinberga, quali bellezze del creato , perché molte volte l’anziano volge lo sguardo fiducioso al cielo: mi intrigano le loro danze, il loro muoversi in libertà senza condizionamenti, ignorando confini che lassù non offuscano la vera libertà, quella che il povero umano richiede per una dignità perduta.

Il termine confini è la chiave di lettura del romanzo, giacché, violati i confini dal satrapo di turno, nuovamente l’Europa assiste ad orrori, che macchiano le coscienze. E il passo dal Vangelo secondo Luca, letto dal Rettore della basilica, … si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno …., rimanda per analogia alla situazione che vive il popolo ucraino, quale solo ultima delle violenze subìte. Il Rettore parla, ai profughi prima della partenza, di satrapi odierni, che hanno un retroterra antico, un elenco interminabile di violenze per impossessarsi della terra altrui. Hanno creato le Nazioni…mentre l’intenzione del buon Dio nell’atto della creazione era quello di dar vita ad un popolo che potesse vivere in armonia, senza confini e steccati, quasi degli apolidi.

I termini globalizzazione, libero mercato, inclusione, accoglienza, rispetto delle diversità e multiculturalismo ci avevano abituato a pensare a una terra comune, a voli liberi tra meridiani e paralleli solo fittizi e invece Nikolaj, novello Foscolo, teme di lasciare le sue spoglie in una terra non straniera, ma che non è la sua, è attanagliato da quel nòstos, quella nostalgia, ovvero quel dolore del ritorno, mai sopito in quanti sono stati e sono ancora vittime del dittatore di turno.

Nel capitolo Inizia il viaggio i racconti dei compagni diseredati sul treno diretto in Baviera, vengono lasciati sullo sfondo: immagini di palazzi sventrati, fosse comuni, fughe notturne, l’ansia nei rifugi sotterranei, le sirene, perché sono solo occasione per ricordare la fuga del protagonista dal monastero benedettino di Mariupol, prima che arrivassero le truppe di Mosca, che hanno portato via ogni bene, compresi gli oggetti sacri per celebrare l’Eucarestia. Addormentatosi, la surrealtà si impossessa dell’anziano, una figura diafana di nome Mikajl lo condurrà nei luoghi del dolore, dove sono stati commessi i delitti più atroci, per comprendere il nuovo disastro. Ed ecco l’udito sollecitato dai salmi che provengono da chiese e cattedrali della Polonia, a ricordo di chi ha subito l’invasione dell’esercito tedesco prima e sovietico poi: da un lato lo sterminio nei campi di concentramento, dall’altra “la campagna di liberazione”. Nikolaj è condotto di fronte alla cattedrale di San Giovanni Battista dove riposa il cardinale Wyszyziski e qui come a Danzica, Cracovia c’è gente che invoca e

prega tra un mare di lacrime: è il dolore di un popolo che non vuole e non può cancellare la memoria. E poi di fronte a un altro inferno in terra: il carcere centrale di Budapest in Ungheria, lì fu portato nel ’58 Imre Nagy e vi fu giustiziato, era stato nominato primo ministro dal partito dei lavoratori a seguito di una rivolta contro la dittatura di Ràkosi; e poi Praga per far rivivere per pochi attimi la fatidica “Primavera”, e poi il muro di Berlino con il suo crollo festoso, mentre nuovi venti di guerra dilaniano il popolo iugoslavo.

L’autore, seppure dovizioso di particolari, in una dosata sinteticità, ripercorre le tragedie che hanno costellato di fili spinati, morti cruente, strani incidenti la storia più recente, risvegliando e rendendo compartecipe delle ansie della storia il lettore, che scopre gradualmente, ma inesorabilmente che esistono purtroppo servi e satrapi, che il potere di pochi “folli” annichilisce i più, ma è pur vero che sempre qualcuno prende il vessillo caduto della libertà e osa sfidare il terrore di turno e innalzarlo, perché altri lo seguano e di qui il risorgere anche dalle polveri chiese, abbazie, come quella che ospiterà Nikolaj, Plankestetten, distrutta nella Guerra dei Trent’anni e riedificata dai fedeli.

Nel capitolo Alla volta di Norimberga la visita al tribunale dà l’occasione di ripercorrere altre tappe significative. La sala 600 vide condannati i rappresentanti di quella classe dirigenziale nazista nei settori diplomatico, economico, politico e militare al termine di una guerra che aveva procurato 55 milioni di morti, 35 milioni di feriti. Chi, si chiede Nikolaj, giudicherà i vincitori del conflitto? Sia Roosevelt che Churchill sapevano chi fosse Stalin, che era al tavolo sia della Conferenza di Teheran, che di Yalta, chi giudicherà Truman per quel fungo atomico, mentre l’imperatore nipponico stava trattando?

L’autore attraverso un fitto scambio di vedute tra l’anziano e Don Beda, opera una disamina di quanto accaduto dopo la creazione delle due zone di influenza: si rammenta Breznev per una strategia permanente di prudenza in politica estera, per l’interruzione della ricerca di dialogo con l’occidente; Gorbaciov , quale fautore, invece, di una politica di avvicinamento, che negoziò la fine della guerra fredda, la caduta del muro di Berlino, il disarmo nucleare e il ritiro dall’Afganistan; il crollo dell’URSS nel ’91; Eltsin che affida il potere a Putin, che se fosse stato uno statista avrebbe dovuto far sua l’idea di Gorbaciov di portare la Russia in Europa. Nikolaj rammenta l’uccisione di Allende da parte di Pinochet, i 35 mila oppositori di Vileda spariti nel nulla, le madri di Plaza de Mayo; il regime teocratico dell’Iran degli Ayatollah. La rassegnazione si fa largo nel cuore di Nikolaj: non è possibile cambiare un mondo che da sempre ha prodotto nefandezze andate poi nel dimenticatoio, per mantener saldo il gioco del potere nelle mani dei satrapi, ai danni dell’umanità ridotta al rango di servi. Ma prenderne atto non significa arrendersi… è un dovere per chi si batte per i diritti negati contribuire allo sforzo di rendere meno pesante il fardello di un mondo squilibrato.

Ritornare è perentorio, dopo che si fugge da una vita per decisione altrui, con la speranza nel cuore che la volta celeste non sia ancora arrossata e trovare pace nella terra degli avi.

Si prende atto che l’esilio è una condizione dell’umanità, ma anche necessario non trascurare le radici dell’esistenzialità che dovrebbe unire i popoli piuttosto che armarli l’uno contro l’altro.

Il diafano riporterà Nikolaj tra i suoi conoscenti, parenti, ma il sogno cede il passo alla cruda verità: il suo paese è un sepolcreto, le persone incontrate sono morte: marciano in processione con il rosario tra le mani invocandola misericordia divina.

Nell’ultimo capitolo Il ritorno a Kiev si assiste ad un prodigio divino, sia l’anziano Nikolaj Smirnov che Don Beda incontrano il diafano che viene riconosciuto come l’arcangelo Michele, che issa la spada per combattere il maligno e ricacciarlo nelle viscere della terra, e ha la bilancia nell’altra mano per soppesare gli uomini e decidere se consegnarli alla misericordia divina o destinarli all’eterna dannazione.

La speranza è che gli uomini acquisiscano consapevolezza che prioritario è salvare il pianeta, che il male si può sconfiggere educando alla salvaguardia dell’umanità, al consorzio di affinità elettive, alla rispetto dell’Amore che risplende al di sopra di ogni confuso libero arbitrio.

La speranza e la preghiera offrono spunto di riflessione: il bene non ha prezzo, basti pensare al sacrificio di Cristo per la salvezza dell’umanità, al riscatto dalle tenebre.

Non vorremmo che le pagine del giorno fossero macchiate da altro sangue fraterno, che la conta diventi freddo report statistico, grafico di alti e bassi passaggi di alterne decisioni, prese al tavolo di turno, che i giornali riportino foto di nuovi satrapi, che il male diventi pane quotidiano. Non vorremmo che solo la descrizione particolareggiata su pagine ingiallite ci dia la descrizione di luoghi architettonicamente spettacolari, vittime anch’essi della furia sgretolatrice del nulla che si siede:

Non diventi

polveroso frammento

quanto edificato.

Luisa Martiniello