Ci sono scrittori con cui ci si sente particolarmente in sintonia, con i
quali si crede di avere delle affinità anche caratteriali, scrittori che
contribuiscono a plasmare la nostra sensibilità e il nostro modo di vedere,
giudicare e comprendere il mondo, che svolgono il ruolo di maestri. Una di
queste guide è stata ed è tuttora per me Italo Calvino (1923-1985),
generosamente prodigo di consigli ogni volta che rileggo un suo libro.
Quando confessa di sé: «sono un saturnino [malinconico e introverso] che sogna di
essere mercuriale [aereo, agile e leggero] e tutto ciò che scrivo risente di
queste due spinte», rimango affascinato dalla precisione e concisione
dell’analisi e ho l’impressione che, involontariamente, stia parlando anche di
me. È un sentimento di rispecchiamento e di identificazione che tutti i lettori
almeno una volta provano, una specie di transfert che consente alla letteratura
di restare viva e attuale anche a distanza di anni, di durare.
Siccome mi ci riconosco pienamente, ho fatto mio questo motto latino adottato
fin dalla giovinezza da Calvino: «Festina lente» («Affrettati lentamente»); un
ossimoro che acutamente accosta due termini apparentemente inconciliabili.
Soltanto due altre massime mi hanno colpito altrettanto positivamente
imprimendosi nella memoria: la prima, «Nec spe nec metu» («Né con speranza né
con timore»), decora lo Studiolo di Isabella d’Este nel Palazzo Ducale di
Mantova; la seconda, «Nec tumultus nec solitudo », campeggia sulla facciata
neoclassica di Villa Levi-Tedeschi a Parma.
Se iniziamo la conoscenza di Italo Calvino leggendo per esempio il Castello
dei destini incrociati (1973) o Palomar (1983) può
nascere in noi l’idea che il loro autore sia soprattutto un occhio che in
disparte guarda, osserva, scruta, indaga, e una mente che con lucido e
distaccato rigore ragiona, riflette, combina, medita, elabora. Se proseguiamo
però nella lettura dei suoi libri ci accorgiamo della varietà dei temi e dei
toni e rimaniamo forse un po’ sorpresi dalla appassionata, calda e ravvicinata
descrizione che Amerigo Ormea (il protagonista del breve romanzo La
giornata di uno scrutatore, ambientato nel 1953 nel seggio
elettorale torinese dell’ospizio del Cottolengo e pubblicato dieci anni dopo
quando Calvino aveva quarant’anni) fa di un’amica: «Amerigo sentiva un bisogno
struggente di bellezza, che si concentrava nel pensiero della sua amica Lia. E
quello che ora ricordava di Lia era la pelle, il colore, e soprattutto un punto
del suo corpo – dove la schiena fa un arco, netto e teso a percorrere con la
mano, e poi subito s’alza dolcissima la curva dei fianchi – un punto in cui ora
gli pareva si concentrasse la bellezza del mondo, lontanissima, perduta».
Quanta sensualità in questo ritratto.
All’inizio del mio percorso di scrittore ho provato a scrivere romanzi e due,
di nemmeno cento pagine, li ho anche pubblicati. Presto però, per una serie di
motivi e giustamente consigliato da un autentico narratore come Antonio
Pennacchi, ho abbandonato la narrativa a favore della poesia: ognuno deve
trovare il linguaggio che gli è più naturale. I meccanismi narrativi non mi
sono tuttavia estranei e sconosciuti, mi sono dovuto inevitabilmente
confrontare e scontrare con loro. Ho sempre avuto l’impressione che quando
scriviamo racconti e soprattutto romanzi diventiamo alcuni o tutti i personaggi
che inventiamo; ci mettiamo nei loro panni, guardiamo le cose dal loro punto di
vista. Il nostro io non scompare e non si annulla, ma si spezzetta; ciascuno di
questi frammenti (che coincidono con parti della nostra personalità e della
nostra esperienza) viene attribuito a un personaggio e costituisce ciò che di
nostro gli portiamo in dote. Poi il personaggio cresce e si rende autonomo,
separandosi da noi come un figlio anche un po’ ribelle. La sua libertà può
entrare in conflitto con la nostra, ma le due indipendenze devono trovare un
accordo se si vuole che il libro raggiunga la propria meta. Fra autore e
personaggio si instaura una relazione dialettica, un fruttuoso scambio
reciproco.
Parti del carattere di Calvino sono ad esempio presenti nell’intellettuale
comunista Amerigo (come Vespucci) Ormea (anagramma di “amore”) che incontra e
scopre una umanità sofferente, malata, infelice; nell’eccentrico e
anticonformista Cosimo Piovasco di Rondò del Barone rampante (1957)
che abbandona la famiglia e si ritira sugli alberi continuando tuttavia da là
in alto a partecipare alla storia e alla vita collettiva («Nella tomba di
famiglia c’è una stele che lo ricorda con scritto “Cosimo Piovasco di Rondò –
Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo”»); sono presenti nel
Marco Polo de Le città invisibili (1972) dove l’ambasciatore
Marco descrive all’imperatore dei Tartari Kublai Kan alcune città dell’Impero
che non esistono se non nei racconti che inventa: «A me sembra», sospetta
scaltro l’imperatore, «che tu non ti sia mai mosso da questo giardino»; nel
signor Palomar (del romanzo omonimo) che «ha deciso di limitarsi a guardare, a
fissare nei minimi dettagli il poco che riesce a vedere, tenendosi alle idee
immediate che suggerisce ciò che vede».
All’esploratore veneziano (viaggiatore per antonomasia assieme a Ulisse) ho
dedicato la mia raccolta di versi Le anime di Marco Polo.
Oltre alla nitidezza dello stile e alla limpidezza della riflessione, i libri
di Calvino affascinano per le massime memorabili, vere e proprie perle di
saggezza che sanno armonizzare bellezza e morale, diletto e utilità, eleganza e
rigore, estetica e conoscenza. Durante la lettura di ogni suo libro, almeno una
frase illuminante e perfetta si fissa nella memoria e ci induce a pensare,
riflettere e meditare.
Ecco una prima frase esemplare contenuta ne La giornata di uno
scrutatore che, precisa l’autore in una nota, è un racconto «più di
riflessioni che di fatti»: «D’altro canto, c’era sempre la morale che bisogna
continuare a fare quanto si può, giorno per giorno; nella politica come in
tutto il resto della vita, per chi non è un balordo, contano quei due principi
lì: non farsi mai troppe illusioni e non smettere di credere che ogni cosa che
fai potrà servire». Non illudersi e non rassegnarsi, non sperare in risultati
eclatanti e non arrendersi al fallimento, alla cupezza, all’immobilità e alla
sconfitta: fare ciò che si può e che va fatto. Evidenti le affinità con
quest’altra dichiarazione compresa in un saggio pubblicato nel 1962 e
intitolato La sfida al labirinto; qui l’autore ribadisce che la
sfida deve prevalere sullo stallo, la ricerca sull’accidia: «Quel che la
letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via
d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un
labirinto all’altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una
letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla
letteratura della resa al labirinto».
Laconica, lapidaria, acuminata, la seguente sentenza dalle pretese
all’apparenza minime, più adatta e comprensibile per un anziano come me
piuttosto che per un giovane: «Tu sai che il meglio che ci si può aspettare è
di evitare il peggio» (Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979).
Invecchiando si diventa sempre più selettivi, si smette di accumulare, dal
marasma dei fatti salviamo poche cose, frasi, libri, pensieri, immagini,
emozioni, pensieri. Ci aggrappiamo a quello che resiste e rimane come fosse una
scialuppa di salvataggio, coscienti che il naufragio sia inevitabile. Quando si
discute di vecchiaia, del tempo inesorabile che scorre, delle rimembranze, dei
rimpianti e dei rimorsi, inevitabilmente occorre citare, per la sua perfetta
esattezza malinconica questo brano contenuto ne Le città invisibili:
«Isidora è dunque la città dei suoi sogni: con una differenza. La città sognata
conteneva lui giovane; a Isidora arriva in tarda età. Nella piazza c’è il
muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con
loro. I desideri sono già ricordi».
Marco pronuncia a fine libro una frase da conservare per sempre nella memoria:
«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è
già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare
l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è
rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper
riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e
dargli spazio». Discernere, distinguere, saper cogliere sfumature e differenze,
affinare sguardo e giudizio, ecco i presupposti per una scelta e per un’analisi
ponderate non costrette e ingabbiate dentro a un unico punto di vista.
Nelle Lezioni americane (1988) Calvino rivela la sua
fondamentale propensione e preferenza verso le forme brevi: «Come per il poeta
in versi così per lo scrittore in prosa, la riuscita sta nella felicità
dell’espressione verbale, che in qualche caso potrà realizzarsi per
folgorazione improvvisa, ma che di regola vuole dire una paziente ricerca del
“mot juste”, della frase in cui ogni parola è insostituibile, dell’accostamento
di suoni e di concetti più efficace e denso di significati. Sono convinto che
scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia; in entrambi i
casi è ricerca di una espressione necessaria, unica, densa, concisa,
memorabile. È difficile mantenere questo tipo di tensione in opere molto
lunghe: e d’altronde il mio temperamento mi porta a realizzarmi meglio in testi
brevi: la mia opera è fatta in gran parte di short stories». Parole che suonano
melodiosamente alle mie orecchie di scrittore di versi e che in una raccolta inedita
intitolata Brevi, brevissime accoglie come epigrafe
esplicativa questo ruvido ma icastico invito di Charles Simic: «Poesia breve:
falla corta e dicci tutto quanto» (Il mostro ama il suo labirinto).
In Scrivere narrativa, Edith Wharton con proficuo buon senso ci
ricorda che «si deve sempre poter dire di un romanzo “Avrebbe potuto essere più
lungo”, e mai, “Non c’era bisogno che fosse così lungo”». Con altrettanta acuta
ragionevolezza Flannery O’ Connor, Nel territorio del diavolo. Sul
mistero dello scrivere, afferma che «Breve non vuol dire inconsistente.
Seppur breve, un racconto deve svilupparsi in profondità e trasmetterci una
pienezza di sentimento».
Nella lezione americana dedicata all’esattezza Calvino confida: «mi sembra che
il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne
provo un fastidio intollerabile… il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare
me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco
scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è
necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma
almeno a eliminare le ragioni d’insoddisfazione di cui posso rendermi conto ».
Ho la sensazione di guardarmi allo specchio: quando parlo in pubblico le parole
giuste non arrivano alle labbra, le cerco senza scovarle, come se ci fosse un
ostacolo, un impedimento. Se vengo interrogato direttamente e a bruciapelo la
mia mente gradualmente viene occupata da una foschia che sbiadisce i pensieri e
vela le parole. Le frasi devono sgorgare con immediatezza e naturalezza
altrimenti si rischia di incespicare in balbettii, di scivolare dentro pause da
cui la voce stenta ad emergere. Solamente mentre scrivo non ho fretta di dire e
se le parole adatte, quelle necessarie per esprimersi al meglio, non compaiono
subito posso aspettare con pazienza che escano senza fretta dall’angolo della
memoria in cui sembrano momentaneamente accantonate.
Quale lettore ideale vorrei leggesse i miei libri e quale lettore vorrei essere
a mia volta per i libri altrui? Tranquillo, indisturbato, concentrato, comodo,
immerso nel silenzio e protetto dai rumori, proprio come quello descritto da
Calvino all’inizio di Se una notte d’inverno un viaggiatore: «Stai
per cominciare a leggere […] Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro
pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto […] Prendi
la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato. La porta è
meglio chiuderla, di là c’è sempre la televisione accesa […] Alza la voce, se
no non ti sentono: “Sto leggendo! Non voglio essere disturbato” […] Prendi la
posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato… In poltrona,
sul divano, sulla sedia a dondolo, sulla sedia a sdraio… Sull’amaca, se hai
un’amaca. Sul letto, naturalmente, o dentro il letto».
Calvino conclude così le Lezioni americane. Sei proposte per il
prossimo millennio: «magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori
del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata di un
io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far
parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero
in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica». Nelle
mie poesie non gradisco raccontare in modo esplicito di me, preferisco parlare
di altre persone, creature e personaggi, animali compresi, stabilire con loro
un contatto, una relazione e uno scambio, riferire storie e vicende che li
riguardano, mimetizzarmi e mettermi nei loro panni, guardare il mondo
attraverso i loro occhi e perfino farli esprimere direttamente. Possono essere
per esempio viaggiatori ed esploratori (come Marco Polo), eroi del mito (come
Ulisse), scienziati (soprattutto Darwin), una serie di pittori (da Masaccio a
Basquiat), uccelli (a cominciare dai merli), singole persone comuni, come
un’anonima signora affacciata alla finestra e alle prese con il rito quotidiano
del caffè. Confesso però che con l’avanzare degli anni è riaffiorata l’urgenza
di dire io, di parlare anche di me, di rivelare ciò che è possibile confidare.
A Cosimo Piovasco di Rondò, il barone rampante, mio alter ego, ho dedicato
queste due poesie:
Il sogno di Cosimo
Salgo sull’albero
più alto del bosco
ad ogni ramo una domanda
di botanica
e la risposta giusta
se voglio proseguire
verso la cima
se aspiro a volare
di ramo in ramo
come un rosso scoiattolo.
Dall’alto guardo il mondo
come gli uccelli che incontro
subito sospettosi.
Sfioro le foglie
le accarezzo sentendo
i loro brividi
sulla mia pelle
che si tinge di verde;
canto insieme a loro
nel coro del vento.
Il barone rampante
Affacciato sul torrente Merdanzo
che lo stato delle cose richiama
da vecchio un’immagine lo incalza
di Viola ardimentosa mentre ama.
Il pittore Gerri Lunatici è l’autore del ritratto di Italo Calvino che
accompagna il testo di Giancarlo Baroni. È contenuto nel volume Ritratti (Youcanprint,
2023).
(A cura di Silvia Pio, pubblicato nella rivista online "Margutte" il 9 giugno 2024 )
GIANCARLO BARONI
Nessun commento:
Posta un commento