Penso che i
contenuti dell’intervista si possano complessivamente condividere. Con qualche
riserva, però. Intanto Czesław Miłosz ha esposto la sua rispettabilissima idea
della poesia che fa capo alla sua esperienza della vita. E dunque è qualcosa di
soggettivo, che può trovare consonanze più o meno vaste, parziali o totali.
Linguaglossa condivide quell’idea, l’accetta in pieno e se ne fa paladino. Io
ho qualche dubbio.
Vediamo. La prima affermazione di Linguaglossa -la vera poesia è quella scritta da un uomo libero per cittadini liberi-, che avevo in un primo momento immediatamente condivisa, mi ha richiamato subito alla mente i casi illustri del “cortigiano”Ariosto, dello sfortunato (e conformista) Tasso e del semiprigioniero Leopardi che sembrano confliggere con l’assunto di Linguaglossa. A meno che questi non alluda a una libertà interiore, che però già sarebbe una mezza libertà. Perché, quanto a poesia, quei tre Signori, con vistose menomazioni della libertà, ne hanno fatta di vera e grande. Anche se non so quanto fossero liberi il pubblico e i lettori dell’epoca. Ma forse Linguaglossa vuole semplicemente riferirsi con la sua affermazione ad una poesia di forte impegno civile. Che però è solo un aspetto della poesia.
Non mi convince neanche l’idea contenuta nell’incipit dell’Ars poetica di Miłosz: “Ho sempre aspirato a una forma più capace, /che non fosse né troppo poesia né troppo prosa” . La teorizzazione della prosa poetica (o “forma ibrida” ch’è lo stesso) come superamento e come futuro della poesia, solo perché la forma di quest’ultima è poco “capace”, mi pare un’autentica assurdità. Soprattutto perché, oltre la già grande varietà di versi e metri, la poesia italiana possiede i versi lunghi ( di dodici, tredici, quattordici, di sedici, di diciannove sillabe!) buoni per tutti gli usi (poetici).
Poi bisogna capirsi. Se vogliamo scrollarci di dosso ogni regola perché ci appare come un dogma, un’inutile costrizione, beh, allora uno può prendere qualsiasi strada. Può anche capitare che l’accapo lo detti la pagina, se non lo sceglie il poeta. E poi l’ampio respiro alla poesia non lo dà “una forma più spaziosa” ma la forza e la qualità del creatore (o, più modestamente, del “faber”).
Certo la prosa poetica non è invenzione recente. E può avere una sua vita. Non però come futuro della poesia: che è ritmo, armonia, musicalità, emozione intensa e profonda, grazia, bellezza, forza e tante altre cose; che reclama il suo linguaggio e la sua misura. Perché la poesia, al di là di tutte le teorizzazioni, le interpretazioni, le etichette e le mode del momento, continuerà ad avere vita SUA. Ha solo bisogno di buoni interpreti.
In ultimo, è mia convinzione che chi scrive, in versi o in prosa, non debba farsi influenzare dal mercato o dal pubblico. Se lo fa, è solo un mentecatto che va in giro con il cappello in mano, in cerca di un obolo pietoso.
D’accordo su tutto il resto.
Pasquale Balestriere
Vediamo. La prima affermazione di Linguaglossa -la vera poesia è quella scritta da un uomo libero per cittadini liberi-, che avevo in un primo momento immediatamente condivisa, mi ha richiamato subito alla mente i casi illustri del “cortigiano”Ariosto, dello sfortunato (e conformista) Tasso e del semiprigioniero Leopardi che sembrano confliggere con l’assunto di Linguaglossa. A meno che questi non alluda a una libertà interiore, che però già sarebbe una mezza libertà. Perché, quanto a poesia, quei tre Signori, con vistose menomazioni della libertà, ne hanno fatta di vera e grande. Anche se non so quanto fossero liberi il pubblico e i lettori dell’epoca. Ma forse Linguaglossa vuole semplicemente riferirsi con la sua affermazione ad una poesia di forte impegno civile. Che però è solo un aspetto della poesia.
Non mi convince neanche l’idea contenuta nell’incipit dell’Ars poetica di Miłosz: “Ho sempre aspirato a una forma più capace, /che non fosse né troppo poesia né troppo prosa” . La teorizzazione della prosa poetica (o “forma ibrida” ch’è lo stesso) come superamento e come futuro della poesia, solo perché la forma di quest’ultima è poco “capace”, mi pare un’autentica assurdità. Soprattutto perché, oltre la già grande varietà di versi e metri, la poesia italiana possiede i versi lunghi ( di dodici, tredici, quattordici, di sedici, di diciannove sillabe!) buoni per tutti gli usi (poetici).
Poi bisogna capirsi. Se vogliamo scrollarci di dosso ogni regola perché ci appare come un dogma, un’inutile costrizione, beh, allora uno può prendere qualsiasi strada. Può anche capitare che l’accapo lo detti la pagina, se non lo sceglie il poeta. E poi l’ampio respiro alla poesia non lo dà “una forma più spaziosa” ma la forza e la qualità del creatore (o, più modestamente, del “faber”).
Certo la prosa poetica non è invenzione recente. E può avere una sua vita. Non però come futuro della poesia: che è ritmo, armonia, musicalità, emozione intensa e profonda, grazia, bellezza, forza e tante altre cose; che reclama il suo linguaggio e la sua misura. Perché la poesia, al di là di tutte le teorizzazioni, le interpretazioni, le etichette e le mode del momento, continuerà ad avere vita SUA. Ha solo bisogno di buoni interpreti.
In ultimo, è mia convinzione che chi scrive, in versi o in prosa, non debba farsi influenzare dal mercato o dal pubblico. Se lo fa, è solo un mentecatto che va in giro con il cappello in mano, in cerca di un obolo pietoso.
D’accordo su tutto il resto.
Pasquale Balestriere