"L'oceano ingordo dei pensieri", di
Francesco Paolo Tanzj
(Libreria Rinascita - Roma - 9 febbraio 2014)
La voce di Francesco
Paolo Tanzj è particolarmente squillante nel coro della poesia italiana di
questi tempi. Possiede un timbro personalissimo, di natura visionaria ed esplosiva,
con un verso libero, ipermetrico, galoppante, in linea con lo spirito ribelle
da cui è animata. Per certi aspetti le ascendenze potrebbero sembrare
campaniane (mi riferisco alla rêverie,
alla visione fantasmagorica che la
contraddistingue), ma occorre avvertire che qui gli orizzonti non sono
propriamente orfici, intendendo con l'aggettivo una poetica squisitamente contemplativa
e onirica. Questo canto fa piuttosto pensare al vitalismo dirompente delle
avanguardie storiche (futurismo in prima fila), depurato tuttavia di ogni
elogio o esaltazione del mondo tecnologico; reo, secondo l'autore (ma siamo in
molti a pensarlo), di avere esautorato il dominio della natura e della vita.
Il dinamismo da cui
questa poesia è animata, allora, non fa che evocare la diacronia del creato, l'élan vital, il flusso incessante dell'energia
universale. Un dinamismo cosmico che non fa riferimento agli artifici
tecnologici, bensì alla motilità misteriosa dell'Essere. Una poesia pertanto immersa
nel mistero. Da qui l'aspetto semioracolare del verso, scritto di getto e senza
eccessive preoccupazioni formali. O meglio, con l'unica preoccupazione formale
di assecondare l'impulso creativo. Una naïveté,
un candore che non esclude la raffinatezza culturale, ovviamente. Si deve sottolineare
infatti che l'autore, noto anche come saggista e narratore, nonché come docente
di materie umanistiche e di filosofia, è in possesso di una solida cultura, che
tuttavia nelle sue pagine poetiche non pesa, è posta fra parentesi, dimenticata,
preferendo egli affidarsi all'istinto creativo.
La versificazione è
libera, non costruita secondo regole precostituite, ma questo non vuol dire che
sia priva di regole, perché ha una regola propria, una sua musica, un timbro
personalissimo e ben riconoscibile. La scrittura è immediata e senza
ripensamenti, ma ciò non vuol dire che sia sciatta. Al contrario, risulta dotata
di sapiente compostezza formale, pur essendo refrattaria ad ogni tecnicismo. Voglio
dire che la tecnica c'è, ma non è quella canonica, bensì quella generata
direttamente dall'illuminazione interna. Per Tanzj la tecnica non è un a priori, una gabbia, ma è quella che si
fa nell'esecuzione stessa dell'opera, nell'azione creativa. In pratica è quella
che la cosiddetta Musa impone nel momento in cui si appropria delle proprie
corde vocali, quelle con cui il poeta canta o scrive. L'artista puro crea in
stato di trance, è un veggente, a
prescindere dalla sua formazione culturale. E' così dalla notte dei tempi, a
parer mio. So che questo discorso meriterebbe
degli approfondimenti, ma in questa sede non è possibile farlo, perché ci
porterebbe fuori dal seminato.
E' un verso indubbiamente
bizzarro, quello che Francesco Paolo Tanzj espone. Un verso che alcuni
potrebbero definire sperimentalistico, ma non è così, se con il termine si
allude ad una ricerca formale fine a se stessa. E' lo stesso poeta a dirlo.
Ascoltiamolo nell'incipit della poesia
intitolata Polemos: "Mi fanno
ridere i poeti del secondo novecento / un po' introversi timidi e civili /
padroni di sé / consapevoli d'ardua riflessione / chini su pagine sapientissime
/ di ricerca verbale". Ripeto quello che ho detto: Tanzj preferisce la
scrittura automatica alla scrittura costruita a tavolino. Non per questo la sua
poesia è riconducibile alle atmosfere del Surrealismo, cui, come sappiamo, quella
modalità artistica risulta assai cara. Quello di Tanzj è piuttosto un Espressionismo
che propone una navigazione a trecentosessanta gradi, vuoi nei mari dell'anima,
vuoi principalmente in quelli della vita.
Per certi aspetti si potrebbe
anche parlare di poesia civile, ma a
me sembra riduttivo, se non improprio, dati i presupposti misterici di questa weltanschauung, di questa visione della
vita. A mio parere, siamo in presenza di un mito cosmogonico vero e proprio. Di
un mito nuovo, cui non è estranea la lezione dell'amore francescano; di
quell'amore che, secondo Dante, move il
sole e l'altre stelle. Un mito di forza dirompente. Un desiderio di rompere
gli schemi, le barriere, per poter finalmente abbracciare il mondo e l'universo
intero. Poesia di aggregazione, pertanto. Di contaminazione. Poesia della
complessità dell'esistente. Poesia metropolitana, anche, intrisa di suggestioni
multimediali, come in una grande orchestra jazz
(è questo il titolo di una famosa raccolta di Tanzj). Il jazz: un genere musicale dove l'improvvisazione, guarda caso, la fa
da padrona, pur essendo implicita la raffinata preparazione artistica dei
singoli orchestranti.
E in questo contesto non
può non apparire il plurilinguismo. Eccone un esempio: "Abbracciamoci
amore / "scurdammoce ò passato" / i just love you / mon amour /
besame mucho". Ed ho un'ultima annotazione da fare, a proposito della
pagina poetica, del suo aspetto grafico-visivo inconfondibile. I versi, nel
loro insieme, formano un'immagine, danno l'idea di segni mobili, come di dune
fuggenti, o di onde che s'inseguono, di cavalli al galoppo, di nubi trascinate
dal vento... Sperimentalismo? E' probabile, ma io preferisco vederci una
metafora del Divenire, del mutare precipitoso dell'Essere, del tragico e
festoso rincorrersi ed abbracciarsi delle cose. Il che non esclude la presenza di
quel mito cosmopolita, internazionalista e girovago che fu proprio della beat-generation, di cui ci parla
l'autore, ma questo è soltanto il puntello di una costruzione più ampia.
Viva è indubbiamente la
memoria di quell'epoca, di quegli eventi, al tempo stesso grandiosi ed
amarissimi, che hanno coinvolto il poeta in prima persona. Vivo il lampo della
fallita utopia sociale che abbagliò la generazione del Sessantotto. Vivo il
guizzo dell'ideale di giustizia e libertà, il sogno dell'immaginazione al potere che accese il cuore dei giovani di tutto il
mondo, per carbonizzarlo poi nel braciere del cinico materialismo. Ma tutto
questo a mio parere allude a significati più alti, perché il canto di Tanzj balza
sulle rovine aride e fumiganti del villaggio globale e senz'anima dei nostri
tempi, per seminare, più che un ideale politico contingente, il sogno
intramontabile di una fraternità senza confini fra tutti gli esseri viventi.
E' una preghiera sorgiva
ed inedita. Una rinnovata, luminosa accensione della simbologia edenica. Il
ritorno di una memoria incancellabile, legata a un Paradiso della Terra irrimediabilmente
perduto, ma pur sempre ambito e sognato, e pertanto vivo e presente nel cuore
degli umani. Scrive Tanzj: "Quante volte ti ho detto / che i sogni sono
pure realtà? / Sono sempre esistite quelle sottilissime voci / che si perdono
nello spazio dei pensieri / ... / Oh, povere le nostre menti / disperse tra le
scacchiere dei concetti / povero il nostro cuore /così solo e impaurito. /
Riuscirà a scorgere il paradiso che ci aspetta?". E' il racconto del grande
mistero d'amore che non riusciamo a comprendere e che in continuazione purtroppo
tradiamo.
Così tutto precipita
nel vuoto inesorabilmente, nonostante la vita sia e continui ad essere
incomparabilmente bella. E allora bisognerebbe imparare a non sciuparla l'esistenza,
con quell'egoismo che ci fa schiavi, con quella presunzione che ci ingabbia.
Bisognerebbe soltanto sapersi affidare al mistero, seguirne le rotte senza
tentare di aggredirlo in qualunque maniera, come da sempre facciamo. La
felicità, l'amore, la pienezza sono comunque e sempre presenti, a dispetto
delle nostre negazioni. La fede di Tanzj non barcolla, e questo è straordinario.
Ovviamente parliamo di una fede non confessionale, di una certezza nella realtà
dell'invisibile, che fa sentire vivo lo spirito, come fosse carne, materia. "La
mancanza di qualcosa non è mai vuoto assoluto", scrive Francesco.
Questa poesia ci
trasmette il senso di una navigazione nel mistero. Sprofondato nella voragine
dell'universo, l'uomo è colto da un brivido che lo fa sussultare, da una
corrente che lo trascina, facendolo sentire al tempo stesso fragile ed
invincibile, pronto ad affrontare eroicamente qualunque sacrificio. Può cadere
sul campo, ma risorge, "così... come se mai / perdita alcuna fosse
avvenuta". E' il racconto dell'umanità di sempre, presa nel conflitto tra
il suo statuto archetipo e la sua realtà esistenziale. Un contrasto che
appartiene all'uomo di tutti i tempi, preso tra le sue aspirazioni all'assoluto
e le sue meschinità, i suoi tradimenti nel relativo. "Bye bye Allen" è una formidabile preghiera dove si parla
della morte dell'utopia, di quell'"oblio così colpevole / che ci ha fatto
scordare d'esser fatti di terra e di mare / e di esser tutti di passaggio in
questa vita sempre tutta / da scoprire". Poi però, nel poemetto intitolato
"Per dove non sono mai stato", il poeta grida che la vera rivoluzione
è interiore: "un accompagnamento tutto mentale / perché - sappiatelo - /
la fantasia è più forte di qualunque cosa / e vola senza freni / per gli
impervi sentieri del cuore".
Dunque un percorso
altalenante. Dove, se è vero che "è la legge del mercato quella che conta
/ che impera libera e sovrana / ora che son caduti i muri e le illusioni",
è altresì vero che "mai come adesso - forse - / abbiamo tutti bisogno
d'amore / e ci osserviamo - timidi - in attesa di parole / di gesti contatti
sensazioni". Per cui "non vergognamoci / di questa voglia maledetta
di volare / nonostante l'anonima folla / dei giocatori di borsa on-line e dei
rampanti scalatori / di un Grande bluff globale". Mi permetto di
concludere così: la lotta tra le due opposte visioni (poesia o utopia, da un
lato, e cinismo dall'altro) c'è sempre stata e sempre ci sarà. Non accadrà mai che
uno scontro possa essere l'ultimo e il definitivo, forse perché noi abbiamo
bisogno di entrambi i contendenti: di incanti e disincanti in equa misura. Se
ci si sbilancia da un lato, ci si deve riequilibrare dall'altro, e viceversa. I
due avversari sono entrambi necessari alla vita. Nessuno soccombe. L'importante
è che ciascuno svolga il proprio ruolo.
Franco Campegiani
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