Ester Cecere: FRAGILE Maneggiare con cura
Kairòs edizioni. Napoli. 2014. Pp. 92. € 10,00
Frontespizio
NAZARIO PARDINI
PREFAZIONE
A
FRAGILE
MANEGGIARE CON CURA
DI
ESTER CECERE
Amare confessioni, ritorni di memoria che hanno lasciato
segni, “lame di luce nell’animo a frugare”
Poesia agile, scattante,
libera, docile, melodica, suasiva nella sua irruenza contenutistico-verbale.
Nel suo reattivo, immediato e spesso convulso risentimento verso un percorso
esistenziale zeppo di inquietudini, di malinconiche esperienze, di tradimenti
di “orchi reali”. Ma infine di riposi; di approdi ad un redde rationem, carico di una spiritualità che lega il cielo alla
terra. Trisillabi, quaternari, ottonari, novenari o settenari; anche
endecasillabi, che, spezzati in versi di minor quantità, si traducono in
musicalità di piacevole avvicinamento; di simbiotica fusione per dare forma al logòs del canto, dove l’armonia del
verso contrasta, spesso, con lo stridore di una filosofia che denuncia la
ruggine dell’esistere: un dicotomico apparire fra i due volti del “poema”. Ma,
soprattutto, poesia che abbraccia con la sua disposizione architettonica ogni input emotivo; che, con i suoi
accorgimenti metrici, con le sue varianti versificatorie, si dispone, come
ancella, a seguire ogni intendimento emozionale, ogni pensiero sul vivere,
sull’esser/ci. E la poesia è vita, è essere, amare, soffrire, godere,
riflettere, meditare; è ri/vivere e tirare le somme su ogni sprazzo d’esistenza
con cui è inscindibilmente congiunta. Magari gioire di tale esistenza, pur
coscienti della sua precarietà e delle sue sottrazioni che ci assillano e ci
tormentano. E poesia è, anche, atto onirico, liberatorio; è affrancamento dalle
disillusioni del nostro esistere; decantazione di frangenti che si traducono in
stati di fragilità, di malinconia, di chiusura, di intimità, e perché no, di isolamento,
anche; forse, per mantenere nostro quel patrimonio, che pulsa nel cuore; o
forse per salvaguardare quel bagaglio interiore in altri tempi scalfito. Così
ci chiudiamo a riccio, o ci rivestiamo di spine di fronte a un mondo non sempre
capace di capirlo quel nostro patrimonio, di esserne degno. Il poeta è,
infatti, un uomo vivente in tutto il corso del tempo (passato, presente e
futuro). E la Nostra lo abbraccia totalmente il suo tempo con una confessione
che fa della parola il focus e la
sicurezza del ductus poetico. Parola da
artigiano: cercata, lavorata, stondata, smussata, smontata e rimontata per darla
ad una ragnatela di nessi da sintonizzare al cuore. Parola che nasce da un
grido per una ferita non ancora rimarginata. E poesia è verbo, sintagma, misura
su cui si lavora fino al raggiungimento di una quiete estetica, interiore, in
cui spesso il poeta si rifugia per sottrarsi alle carenze di essere terreni o
per abbandonarsi alle dolci illusioni di memoria foscoliana. Quies insomma. Honderlin (1790-1843)
chiede al canto che sia per lui “rifugio amichevole” ove l’animo “abbia dimora/ mentre di fuori
con tutto il suo ondeggiare/ il tempo possente, il tempo mutevole rumoreggia lontano”.
È forse per questo che Ester Cecere d’ali di vento sospinta:
“elegante
e fragile,
nell’aria
danzo.
Iridescenze
mi vestono.
L’arcobaleno
m’adorna.
In
me il mondo si specchia” (Bolla di sapone),
e
gioisce di questa sua libertà, di questo suo abbandono, di questo suo distacco,
perché:
“Oscuro
d’insidie
il
mio cammino” (ibidem).
E
vola, vola, più leggera dell’aria oltre la siepe, azzardando sguardi eterei;
lanciando il cuore oltre l’arcobaleno, che l’adorna con tutto il potere della
sua iridescenza. Lanciandolo oltre l’umano, pur contaminato dello stesso umano e
delle sue aporie. Dacché è cosciente di essere fragile, e sa che la sua
avventura è fatta di sperdimenti, di scottature, anche, in una vita che non sempre
riconosce la sensibilità di un’anima disposta e disponibile ad incontri di pace
e d’amore. Per questo lo teme quel mondo che l’ha illusa e delusa:
“Il
volo d’una farfalla,
la
foglia d’un pino,
temo.
Persino,
il dito d’un bambino”(ibidem).
È tutto qui il senso
etimo-allusivo, la forza conglobante, il prodromico messaggio di un titolo che
fa da antiporta a tutta l’opera e ne costituisce tema di coesione ispirativa: Fragile. Maneggiare con cura; sì,
trattare con delicatezza una storia che sottintende nel suo corpo sostanza e
mistero; amore e focus vitale; ma che
è tanto fragile da infrangersi di fronte al più piccolo urto con la realtà; che sembra intatta, forte, ma, al contrario di quel che
appare, è percorsa da piccolissime, invisibili crepe, che ne fanno trasparire
scottature e tristezze.
C’è
una malinconia diffusa, sotterranea a cucire insieme le perle di questa
raccolta. Fa da filo amalgamante; un filo che infilza queste perle in una collana
preziosa per vis creativa, per
vicissitudine umana, e delicatezza poetica. Ester si abbandona completamente al
foglio, dà tutta se stessa alla pagina, in un impeto evocativo e di realismo
lirico, per spiattellare la sua fragilità e la sua insicurezza senza reticenza
alcuna. Questa è la sua grande virtù. Questo il valore aggiunto della sua
poesia: la schiettezza, l’onestà intellettuale, e quel che più conta, l’onestà
sentimentale. Terriccio fertile di un valido poetare:
“Attenta!
Il
tuo volo modera
coccinella
gioiosa.
I
tuoi slanci frena!
Pulviscolo
sei.
In
un campo di papaveri
da
trattori attraversato” (La coccinella).
A supportare l’effusione di una poetica così
tanto vicina a venature leopardiane, di una così ardua allusione di metafore, e
di una così vasta plurivocità di dicotomiche passioni, c’è una natura viva,
articolata in un simbolismo di polisemica significanza. Una natura che prende per mano l’autrice e
l’accompagna tra i suoi visivi paesaggi tanto vicini al fatto di esistere. Una
natura disposta a declinare il pathos
di Ester in proteiformi espansioni, in abbrivi di tensione orfica, anche, dai
toni epico lirici. Un panismo che in un mélange
di assemblaggi lessicali, accentuazioni aggettivali, intensificazioni verbali
o, all’occorrenza, asciuttezze metriche, volge a rendere attuale e incisivo, immediato
e calzante ogni stadio del vivere: Fragilità, Incomprensione, Disperazione,
Solitudine, Rimpianto, Religiosità, Speranza, Percezione della vita; momenti analitico-psicologici
che si susseguono in un crescendo incalzante. Un climax di grande impatto emotivo. Un diacronico andare coinvolgente
per la sua portata umana trasversale e verticale che da soggettivo si fa oggettivo
e universalmente partecipato.
Il
vento, l’arcobaleno, la farfalla, la coccinella, lo stelo verde e sottile, la
formica, le spine… non sono certo citazioni zoomorfe o naturistiche per
puro gusto di arcadico ozio letterario, ma riferimenti lineari, emblematici,
vòlti a concretizzare sentimenti e ri/sentimenti che, decantati in animo, si agitano
per rendersi vivi. Per moltiplicarsi in un linguaggio di autoptica caratura con
innesti di solida tenuta allegorica. Tante le analogie e tutte di alto spessore
panico-allusivo:
“E’
un fico d’india
il
mio cuore.
Roseo,
succoso,
chiama,
invita, tenta.
Spine,
innumerevoli
e invisibili,
lo
ricoprono.
Le
mani riempirtene potresti …
o
delle altre lasciarvene!” (Fico d’India).
E
tante le malignità e le incomprensioni. Il genere umano se ne alimenta, ne fa
sostanza vitale. E quando ne è sazio, cosa rara, va in cerca di nuove prede per
soddisfare i suoi obliqui bisogni:
“(…)
Visi
una
volta d'amore,
da
oscuri livori trasformati
nel
grembo d’incomprensioni
assurde
figlie del tempo” (Maschere).
“(…)
Ma
streghe consenzienti sono
le
vergini fanciulle
che
al ben noto gioco stanno” (Elogio della
ingenuità).
Sono
così tante queste streghe che è facile cadere in disperazione per un’anima
fragile, sensibile, umanamente incline a dire in poesia i suoi palpiti
esistenziali. Umanamente disorientata, annichilita da così tanto tradimento:
“(…)
Cadendo,
frantumata
s’è la luna.
Frammenti
d’argento
lentamente
nel mare affondando,
bagliori
sempre più fiochi emettevano,
disperati
ultimi rantoli.
Poi
il nulla.
Sempre
più buia la mia notte” (Sempre più buia
la notte).
Sì!,
sembra proprio che il mondo ci crolli addosso, che il cielo frani, e che le
stelle rotolino nei dirupi. Dov’è allora l’amore? quell’amore che il tenero
germoglio come serra assolata ha protetto?
“(…)
Come
acqua di cascata
in
gocciole di nebbia muta,
così
alfine s'è dissolto” (Dov’è).
Conclusioni amare quelle a cui perviene la
poetessa in un’enfasi quasi liberatoria:
“Vetri
infranti e schegge
custodisco,
d'ogni
colore
d'ogni
dimensione
aguzzi
e
come rasoi taglienti.
Di
cocci
è
disseminata la mia strada[…]” (Schegge e
cocci),
sempre
più convinta che è illusione sentirsi smagliante farfalla in verdissimi prati
tra fiori leggiadra:
“(…)
Bruco
eri
Bruco
sei
Bruco
rimarrai.
Per
te,
nessuna
metamorfosi” (Nessuna metamorfosi).
È
tempo, allora, di ritrarsi, di escludersi da tutto ciò che sottrae, che
inganna, che promette e non concede, che preda. Da tutto ciò che rende oscuro
anche il punto luce più brillante. Che rende suono di gong ogni fruscio:
“In
questo silenzio
che
smisura
è
ululato di vento
anche il respiro” (Silenzio),
che
rende assordante il silenzio:
“Il
frastuono ha del gong tibetano.
Sussurri,
bisbigli
Stormire
di fronde
Pianti
e sbadigli
Infrangersi
d’onde
Urla,
frastuono
Sommessi
vagiti
Boati
di tuono
Festosi
garriti […]” (Assordante il silenzio).
La
natura stessa si fa ostica per accompagnare la Nostra nel suo canto di
tristezza e disillusione:
“Come
formica
otto
volte il mio peso
trasporto.
Da
sempre.
Pendii
e tronchi altissimi scalo.
Rocce
e deserti attraverso.
Acqua
e fuoco m'insidiano […]” (Formica solitaria).
Sembra
quasi che la poetessa scivoli in un pessimismo direi cosmico, in un pessimismo
che da personale si trasformi in una visione negativa di tutto l’universo o di ogni rapporto umano,
tante le smagliature del suo memoriale. Tante le pene sofferte per la sua
ingenuità, anche, di voler vedere il bene in ogni dove. E la stessa natura si
piega al volere del canto, facendosi compagna e assidua lettrice degli stati
d’animo che l’hanno ispirato. Forse perché c’è il rimpianto di una gioia
vissuta, c’è il ricordo di un giorno felice; il fatto sta che tutto questo
contribuisce ad acuire il sentimento di precarietà dell’essere e
dell’’esistere. Degli inganni del tempus
fugit e della sfera di cristallo.
Delle sue promesse cocciutamente non mantenute. Forse è proprio questo il motivo
per cui la Nostra affida tutta se stessa alla poesia. È ad essa che si concede.
Ed è in essa che crede. È l’unica che non la può tradire. Ed è nel suo potere
che vede la possibilità di tramandare oltre l’umano una storia in credito di
giustizia e di amore. Anche perché “non ha una casa ove venire con timoni e
carte nautiche”, “Ed è straniera in un presente a cui non appartiene più”:
“Non ho
una lapide a mio padre
ove
portare fiori
in luogo
di cioccolatini
e riunire
con nodi
ora di
lacrime
ora di
sorrisi
i fili
d'un vissuto nostro.
Non ho
una casa
ove
venire
con
timoni e carte nautiche,
testimonianze
d'unica
nostra esclusiva
lontananza.
Sono
straniera in un presente
a cui non
appartengo più.
Ho solo
la tua ombra
oggi
accanto a me.
A lei,
i miei
affettuosi auguri” (Festa del papà).
Amare
confessioni, ritorni di memoria che hanno lasciato segni, “lame di luce
nell’animo a frugare”:
“Quando
il gallo cantò a mia madre
la prima
volta,
drappi
oscuri
velavano
la stanza.
(…)
Al terzo
canto,
via eri
già andata
un'altra
volta.
Lame di
luce,
nell'animo
a frugare...” (Sogno all’alba).
Ma
la poetessa sa reagire a questo senso di negatività, a questo stato di disorientamento
nei confronti di chi l’ha tradita, e di chi ha giocato sulla sua pelle; perché
sa amare, perché la sua vita è zeppa di valori, perché crede nei rapporti
umani, e nelle meraviglie del cielo, del mare e della terra; nella ricchezza
della vera amicizia; nell’elevazione spirituale; e sa che “Inciampa talvolta il
pastore./ La testa chinata,/ lo sguardo sui sassi,/ della cometa perde la
guida.// E’ sempre lì la capanna…// E giuntovi lacero stanco e bagnato,/ i doni
con mani ferite porgendo/ al bimbo radioso che attende,/ la ragione al suo
andare/ trova infine il pastore” (Verso
la capanna); e che “E' ancora lì/ la Stella Polare” (Stella Polare); e che persino nella sua cagnolina è incisa
l’impronta divina: “Stupita/ anche in te
contemplo/ nitida/ l'impronta del Divino” (Anche
in te). Quanta religiosità in questi versi! in queste poesie che dilatano
l’animo di Ester fino ai raggi del Supremo! Una religiosità che trova l’acme in
una preghiera di grande resa lirica; dove la natura ha ancora una parte di
primo piano, e dove l’anima si distende fino a farsi più quieta, toccando pointes di notevole intensità spiritualmente
umana:
“Foglia
passata sono,
ad un
picciolo
ad ogni
vento più debole.
Ha toni
ancora
caldi il
marrone
ma è
ricordo di passate stagioni
il verde
brillante.
Dona
linfa vitale
a
germogli teneri, in boccio
ché le
piccole foglie
a fatica
si schiudono.
Dona loro
l’acqua
a me
destinata.
Lascia
che fertile humus
ora
diventi” (Preghiera).
È
qui che il memoriale si fa “verde brillante”. È qui quello sprazzo di felicità
che ancora vive in seno ad Ester. Ed è a quel giorno, a quel luogo, a quel
ricordo che vuole restare ancorata per continuare a credere alla vita. Una
preghiera quasi francescana, pregna di umiltà, risolta in una metafora che fa
dei germogli e delle foglie un altare su cui immolare l’anima per una speranza:
e c’è alfine questa speranza. È nel vaso di Pandora della poetessa. Ed è quella
di poter volare almeno un giorno trasformandosi in farfalla:
“(…)
Da
crisalide in farfalla
mi
trasformerò
per
volare almeno un giorno” (Per volare almeno
un giorno),
è quella
di abbracciare l’infinito sapore del mare, l’azzurrino del suo respiro; di
viverlo a pieno, perché è lì che trova pace, è lì che può azzardare sguardi
oltre le vicende della storia umana:
“(…)
E il
mare...
come olio
liscio,
increspato
appena,
da marosi
sconvolto,
grigio,
verde, azzurrissimo....
Non è mai
a se stesso uguale
il mare”
(Zavorra).
“Una
folata di vita
ho
respirato.
Me l’ha
portata il maestrale
di
maggio.
D’improvviso,
ne ho
sentito il profumo,
l’alito
fresco sulla pelle spenta.
Forse,
muterò il
lamento in canto”(Il profumo del
maestrale).
Sì!, c’è questa speranza di poter vivere ancora,
godendo di notti senza luna:
“(…)
Ch’io
viva
godendo
di notti
senza luna.
Ch’io
viva
fremendo
allo
schiaffo del maestrale.
Ch’io
viva
apprezzando
il volo
basso dei pipistrelli” (Canto alla vita,
nonostante).
Un
crescendo in cui la Nostra sembra uscire da quella visione negativa
dell’universo umano per vedere spiragli di luce a illuminare una folata di
vita.
Ma cosa è alfine questa misteriosa avventura.
Questo impegnativo compito che a noi è toccato. Cosa è per la poetessa. Col
solito ricorso ad immagini di un panismo ben articolato e poeticamente
rielaborato, l’autrice ci offre uno schizzo fugace ed emblematicamente succoso
di filosofia eraclitea sul suo dipanarsi.
“(…)
Tra ulivi
da spasmi contorti,
macchie
rosa,
sprazzi
d’effimera gioia.
Corvi
neri sui campi
beccano
avanzi d’amore.
Muretti a
secco sull’avara terra,
tracce di
forza e tenacia.
Alla
stazione,
forse,
un
abbraccio di fine corsa”(Dal finestrino
la vita).
Sì!,
è quell’abbraccio che alfine colpisce e chiude il “poema”. Un abbraccio di fine
corsa, ma pur sempre un abbraccio all’esistere, al suo corso, a quello che è
stato nel bene e nel male. Un abbraccio a questo meraviglioso dono che fra
inganni, tormenti, illusioni, delusioni, speranze e piccole gioie, ma pur
sempre gioie, dono resta. Un dono di cui tener conto per la sua sacralità. Un
dono da sfiocchettare con delicatezza e mantenere con noi il più possibile
fuori dalle intemperie, e dal logorio del tempo. Il cui fine un approdo;
positivo; di rinascita. E come direbbe il poeta: “La vita è degna di essere
vissuta anche solo per la memoria della luce di una stella”.
“Così i
giorni della vita,
identici
sfuggono
tra le dita.
Benvenuti
frulli d'ali,
nidi e
pigolii.
Ché i
giorni,
da fitta
nebbia
resi
indistinguibili,
non siano
solo
d'albe e
di tramonti
sequenze
ineludibili”.
31/08/2013 Nazario
Pardini
Grazie ancora, Professore, per questa splendida prefazione!
RispondiEliminaEster
FRAGILE.
RispondiEliminaMANEGGIARE CON CURA
La maschera, ovvero l’ipocrités greco, che lungi dall’alludere all’ipocrisia, etimologicamente sta a indicare l’attitudine ad adattarsi alle numerose stanze della vita, cambiando maschera a seconda dell’interlocutore, della circostanza, nell’accezione di Ester Cecere nella sua ultima Silloge “Fragile. Maneggiare con cura”, diviene volto autentico, ma trasformato dall’assenza d’amore, di comprensione, di tenerezza.
Le parole hanno carattere di ‘pillole di barbiturici’, per anestetizzare i sentimenti e si recita a copione, pirandellianamente, chiedendo al paradosso, il permesso di trovare ‘un perché’, una ragione.
La raccolta di poesie della nostra Autrice è il cammino di una donna attraverso i rovi dell’esistenza, tra gli elementi di una natura divenuta matrigna. I simbolismi adottati da Ester sono simili a incisioni di bisturi. Ella si identifica con esseri indifesi, innocui, come la formica, la coccinella o a figli del cielo, abituati agli stormi, come il passero, il gabbiano, e grida il timore di essere calpestata o di non trovare spiragli di cielo nei quali volare.
L’Autrice non è creatura fragile, o per essere più esatti, non appare tale. Indossa la sua quotidiana corazza e appare determinata, sicura di sé, mentre cammina ‘su vetri infranti e schegge’, ‘su strade disseminate di cocci’.
Il mistero del dolore è affidato a similitudini di struggente fulgore con le bellezze del Creato: i prati, i laghi, i bastioni di ghiaccio, i tronchi cavi, i cristalli. Mistero teso a palpitare nell’ ‘assordante silenzio’, che vibra in ogni cellula dell’universo.
“In questo silenzio
che smisura
è ululato di vento
anche il respiro”
versi tratti da “Silenzio”
Eppure la donna avvolta di silenzio, la donna –‘manichino’, che asserisce ‘lascio che il mondo mi viva’- tratto da “Manichino”, lirica che potrebbe, in linea con Ungaretti, l’Autore prediletto dall’Autrice, essere compiuta, anche se consistesse unicamente di quest’ultimo verso, non cede alla nudità della rassegnazione. Dal bordo del precipizio, prova spesso a spostarsi sull’orlo della speranza e resta in attesa di una spinta…
“Smarrito,
all’infinito di pece
il cuore lo sguardo rivolge.
E’ ancora lì
la Stella Polare”
tratti da “Stella Polare”
“Supita
anche in te contemplo
nitida
l’impronta del Divino”
tratti da “Anche in te”
Il dato di fatto ineluttabile, che la Silloge di Ester mette in rilievo, è che non è possibile realizzare il destino di Poeti, se non scendendo nelle parti più profonde di se stessi, anche a costo di incontrare le fiamme dell’inferno, di quell’inferno senza il quale è impossibile tornare ‘a riveder le stelle’…
Il magnifico prefatore, il Professor Nazario Pardini, analizza da autentico critico letterario l’Opera di Ester Cecere, io mi fermo a leggerla, la vivo mentre si dona in versi, intimisti ,- non intimi - , e universali al tempo stesso, in levare in ogni sua lirica, ispirata nel trovare versi ritmici, di sillabe prevalentemente dispari e quindi idonee alle scelte poetiche classiche, anche se non ancorate alla fissità della metrica pura.
Io mi fermo ad ammirarla, resto ancora e sempre stupita dal suo coraggio di essere donna, biologa, madre, figlia, moglie, in una Raccolta che, come la precedente, “Burrasche e brezze”, si può leggere come un romanzo.
E desidero applaudirla, nel silenzio ovattato della stanza, per il suo testo di rara forza nel quale crepita la luce ampia, esorbitante, misteriosa della femminilità.
Maria Rizzi
Errata Corrige: la Silloge cui mi riferivo era "Come Foglie in autunno" .
RispondiEliminaChiedo scusa a Ester... Maria Rizzi
Pochi giorni fa, ho ricevuto per posta questo libro, ultimo lavoro della mia carissima amica Ester Cecere, poetessa ormai nota negli ambienti letterari di prestigio e meritatamente pluripremiata .
RispondiEliminaSi tratta di una raccolta di poesie straordinarie, di profondo impatto emotivo, come tutta la produzione di Ester, d'altronde, che fa seguito alle altre due sillogi delle quali avevo a suo tempo già assaporato la valenza poetica: "Burrasche e brezze" e "Come foglie in autunno". Ebbene, anche in questo ultimo gioiello letterario, ci si trova immersi in un emozionante percorso interiore dal quale emerge in maniera lampante una miscellanea di sensazioni, di emozioni, di amarezze esistenziali, di forti figure allegoriche e di delicati passaggi malinconici, che catturano immediatamente l'attenzione del lettore, che se ne appropria e li trasmette alla propria anima, come se fossero state da essa stessa partorite. Queste poesie sono, appunto, "viaggi dell'anima" come io amo definirle, viaggi durante i quali il bagaglio interiore si disfa strada facendo, mettendo a nudo ricordi struggenti e amari rimpianti, con maestria difficilmente equiparabile. Ogni rigo appartiene al lettore, come fossero sue creature, come se quei versi li avesse scritti lui, in una simbiosi straordinaria, sorprendente per la sua perfetta sovrapposizione, dove s'incontrano in armonica appartenenza chi scrive e chi legge. Veramente, un'ottima lettura, che consiglio a tutti d'intraprendere oltre che per farsi dono di un magico volo nel paradiso poetico, anche perchè il cuore nobile di Ester da sempre devolve gli incassi dei suoi preziosi lavori in beneficenza. Grazie a tutti per l'attenzione e buona lettura! Patrizia Casella
"E scese il silenzio"
E scese il silenzio,
sipario di pesante broccato
su di un palcoscenico
ove si è andati oltre il copione.
Dove le parole,
acido solforico,
hanno sfigurato il cuore.
Dove le parole,
raffiche di mitra,
hanno dilaniato l'anima.
Dove le parole,
pillole di barbiturici
hanno narcotizzato la mente.
Ma attonito dolente,
da remoto anfratto di ragione
ancora si leva un perchè. (Dalla silloge Fragile. Maneggiare con cura)