VI PROPONIAMO LA PRIMA DELLE TRE PARTI IN CUI E' DIVISO QUESTO SAGGIO CHE DIMOSTRA LA PERSPICACE CONOSCENZA E L'AUTOPTICA COMPETENZA IN LETTERE GRECO-LATINE DELLO SCRITTORE PASQUALE BALESTRIERE
QUINTO
ORAZIO FLACCO
L’uomo, lo
scrittore
Esistono scrittori
nella storia della letteratura di tutti i tempi del cui riconosciuto
magistero l’umanità mai potrà privarsi senza pericolose involuzioni. Essi hanno
da insegnare qualcosa all’uomo di qualsiasi epoca storica.
Per dirla con S. Battaglia ,“il concetto di scrittore
classico risale alla stessa antichità, in quanto designava l’autore che si
leggeva nella scuola, nella classe corrispondente. E pertanto acquistava valore
distintivo ed esemplare”.[1]
Uno di questi scrittori , certamente tra i maggiori, è
Quinto Orazio Flacco.
Venosa ( 65 a.C.) lo vide nascere, Roma (8 a.C.)
morire. Il padre era un liberto (libertino
patre natum, dichiara più volte
il poeta nei suoi scritti) e amò il figlio fino al punto da farlo studiare
addirittura a Roma, a prezzo di gravi sacrifici. D’altro canto Orazio ricambiò
profondamente l’affetto paterno e non rinnegò mai la sua umile origine. Studiò
Andronico e i lirici greci, che si sforzò di superare; e forse, a suo parere,
attinse lo scopo, fatta eccezione per Pindaro, al quale si dichiara
manifestamente inferiore[2].
Il suo ritratto: corporis
exigui, praecanum, solibus aptum, / irasci celerem, tamen ut placabilis essem[3].
Dunque era “piccolo di statura, canuto prima del tempo, abbronzato, pronto
all’ira ma egualmente pronto a placarsi”; altrove si definisce levior cortice et improbo /
iracundior Hadria[4],
“più instabile del sughero e più irascibile dello sfrenato Adriatico”; ancora, scherzosamente, pinguem et nitidum bene curata cute...
/ ... Epicuri de grege porcum[5],
“grasso e lustro per la pelle ben curata... porco del gregge di Epicuro”.
Basso, bruno, tendente alla pinguedine, instabile,
iracondo: uno studioso di antropologia vedrebbe in lui il classico tipo
mediterraneo; e dell’uomo del sud Orazio ebbe la fantasia, la potenza
evocativa, la volontà di affermarsi in barba alla sua umile origine; sicché,
quando la fama gli arrise, spesso nei suoi componimenti affermò che, pur
essendo nato ed allevato “non certamente nell’abbondanza” (in tenui re[6]),
era riuscito a raggiungere la sua posizione per esclusivi meriti personali:
cosa non facile nella Roma di allora.
La produzione poetica del Venosino si esprime
attraverso quattro momenti che danno la misura del suo modo di vedere la
realtà, della grandiosa e geniale sintesi poetica, delle sue notevolissime
capacità espressive: le Satire e gli Epodi (composti
contemporaneamente), le Odi e le Epistole.
Non intendo, in questa sede, esaminare analiticamente
l’opera oraziana, ma solo enuclearne elementi altamente significativi, attuali
e universali.
Dei Sermones (o Satire) colpisce, a una
prima lettura, il tono familiare, discorsivo, ricco di bonomia ma anche
urbanamente ironico, leggermente graffiante. Altri, prima di lui, si erano
serviti della satira come di un corpo contundente e i loro j’accuse si erano abbattuti sui malcapitati destinatari di tanta
attenzione con la violenza di un colpo di maglio. Invece Orazio castigat ridendo mores, non muove
attacchi ad personam; nessuno camminerà per le strade di Roma demissis auriculis “con le orecchie abbassate”, perché la satira di Orazio non provoca traumi esteriori, ma solo dramma
intimo e, per di più, esclusivamente in uomini tesi ad un arricchimento morale
e spirituale. Satira di costume, arguta, essenziale, nel contenuto e nell’espressione:
già si intravede in essa quel culto tutto oraziano della parola, intesa come verbum
o lògos, strumento divino,
atto a significare tutto ciò che mente umana possa immaginare.
I temi trattati nelle Satire sono attinti dalla vita
d’ogni giorno: riguardano il disprezzo
delle ricchezze (ad Orazio basta una casetta, un piccolo pezzo di terra in cui
scorra una fonte d’acqua perenne, un po’ d’alberi; e, quando Mecenate gli dona
una villa in Sabina, con commossa sincerità, ringrazia: hoc erat in votis: modus agri non ita
magnus, / hortus ubi et tecto vicinus iugis aquae
fons /
et paullum silvae super his foret[7]),
l’incontentabilità degli uomini (tema che ricorre anche in altri componimenti
oraziani), il dovere dell’indulgenza reciproca, ecc. L’Autore, da amico discreto, avverte: est modus in rebus, sunt certi denique
fines /
quos ultra citraque nequit consistere rectum[8]:
“un giusto mezzo esiste, dunque, in ogni cosa; vi sono insomma limiti ben
determinati, oltrepassando o non raggiungendo i quali non può trovarsi il
giusto”. È qui, a mio parere, che Orazio si dimostra poeta
spiccatamente classico: nel senso della misura e, conseguentemente,
nell’armonia tra materia e spirito è da ravvisare il segno di una vera
“humanitas” aliena da estremismi clamorosi ma irrazionali.
L’irruenza giovanile dello Scrittore, l’inquietudine
e, a volte, la sua ira trovano testimonianza negli Epodi o Iambi:
alcuni sono a sfondo politico, altri dedicati a Mecenate, altri ancora sono
contraddistinti da attacchi personali. Sembra quasi impossibile, per
l’accentuata differenza di tono, che Satire ed Epodi siano stati composti
contemporaneamente: insomma, il poeta dei Giambi sembra non essere anche
l’autore delle Satire. E tuttavia il
tono più acceso spesso si acquieta in sapidi commenti, come questo: fortuna non mutat genus[9]
chiosa bonariamente Orazio, riferendosi a un ex schiavo che ora incede per la
Via Sacra, gonfio di insolenza e di boria: “ I beni di fortuna non mutano
l’origine dell’uomo”. E qui ritroviamo l’Orazio saggio e arguto dei Sermones.
La sua lirica raggiunge livelli insuperabili nelle Odi o
Carmina.
Eppure, da tanta perfezione, certamente non solo formale, alcuni critici sono
stati capaci unicamente di trarre l’immagine di un Orazio elegantissimo ma
superficiale, freddo, lucido, quasi senz’anima. A mio parere, mai errore fu più
clamoroso. È ben vero che il Venosino, nel suo verso, crea il
vuoto attorno alla parola, offrendo ad essa terso nitore e possibilità di ampie
e molteplici risonanze, ridonando al verbum
tutto il suo vigore e valore espressivo, oltre al fascino evocativo; sicché la
sua sobrietà stilistica, la preminenza nei suoi versi di sostantivi e verbi,
l’essenzialità dell’aggettivazione, il parco uso di congiunzioni creano
un’armonia inimitabile. La quale poi, a ben guardare, costituisce il segno
della vera arte, a patto che non sia disgiunta dalla sincerità dell’ispirazione
poetica, dal sentimento profondo della vita e della morte. E allora? Orazio
superficiale e freddo? Andiamo a vedere: Eheu
fugaces, Postume, Postume, / labuntur anni nec pietas moram / rugis et instanti
senectae / adferet indomitaeque morti / ... / visendus ater flumine languido / Cocytos errans et Danai genus / infame
damnatusque longi / Sisyphos Aeolides laboris. / Linquenda tellus et domus et
placens / uxor, neque harum quas colis arborum / te praeter invisas cupressos /
ulla brevem dominum sequetur.[10]
“Ahimè, Postumo, Postumo, rapidi scorrono gli anni, né la devozione apporterà
indugio alle rughe della vecchiaia incalzante e neppure alla morte indomabile
... Bisognerà visitare l’oscuro Cocito, che scorre tortuoso con pigra corrente,
e la stirpe infame di Danao, e Sisifo, figlio di Eolo, condannato all’eterna
fatica. Dovremo lasciare la terra, la casa e la bella moglie, e di questi
alberi che tu coltivi non uno seguirà te, signore per breve tempo, tranne
l’odioso cipresso”. Che dire poi del lapidario pulvis et umbra sumus? e della dolente consapevolezza della
precarietà della vita umana dichiarata dall’interrogativa Quis
scit, an adiciant hodiernae crastina summae / tempora di superi?[11]
“Siamo polvere ed ombra. Chi può sapere
se gli dei superni aggiungeranno
ore future alla somma degli anni da noi vissuti fino ad oggi?”
La verità è che il pensiero della morte è dominante
nella mente del poeta, anche se egli si sforza di relegarlo al livello
inconscio della sua psiche. Orazio sa che, a ben esaminare la vita, esistono
motivi per lasciarsi andare a un cupo
pessimismo; ma, intriso com’è di sani precetti epicurei, che indicano come bene
supremo una condizione di aponìa e atarassìa, si crea e delimita un mondo
magari ideale e rarefatto, ma senza dubbio rispondente alle sue aspirazioni di
equilibrio e di armonia; pertanto rifugge dal dolore in tutte le sue
manifestazioni. In questa chiave, mi pare, sono da interpretare la poesia e la
personalità oraziane. Intenderemo, così, rettamente anche i motivi poetici
delle Odi, attribuendo ad essi il giusto valore.
L’amore è uno dei temi ricorrenti dei Carmina. Un
amore pacato, sereno, trattato in superficie: si direbbe che Orazio non abbia
mai amato profondamente. Anche qui scopriamo, perspicua, una traccia del suo
equilibrio, giacché egli sa bene che la passione profonda genera anche dolore; e, dunque, più che amare
una donna, ne apprezza la femminilità, la bellezza estetica, la discrezione,
magari la sensualità e, infine, la previdenza, se gli fa trovare una tavola
imbandita e dell’ottimo vino. Le donne? Lidia, Cinara, Fillide, Cloe, Lice,
Leuconoe... A quest’ultima dedica un carme bellissimo: Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi /
finem di dederunt, Leuconoe, nec Babylonios /
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati! / Seu
pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
/ quae nunc oppositis debilitat
pumicibus mare / Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio
brevi /
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida /
aetas: carpe diem quam minimum credula postero.[12]
“Non indagare - è vietato saperlo!-
quale termine di vita gli dèi abbiano assegnato a me, quale a te, o
Leuconoe, e non mettere alla prova i calcoli babilonesi. Quanto è meglio
adattarsi a qualunque cosa accadrà! Sia che Giove ci abbia assegnato più
inverni sia che ci abbia concesso come ultimo questo che ora sfianca il mare
Tirreno contro gli opposti scogli, sii saggia, mesci il vino e, poiché breve è
lo spazio della vita, taglia via una lunga speranza. Mentre stiamo parlando è
già fuggito il tempo invidioso: godi l’oggi, confidando il meno possibile nel
futuro.”
In quest’ode, piccolo capolavoro di umana saggezza,
sono individuabili vari elementi della poesia oraziana (sapias; carpe diem, ecc.):
a me particolarmente interessa il vina
liques, perché quello del vino è un altro motivo che ricorre costantemente
non solo nei Carmina: il vino, racchiuso magari in una Graeca testa [13]
(anfora greca) che è pia[14],
cioè benefica, assume per il nostro autore notevole importanza in quanto
apportatore di ebrietas, ebbrezza che
presumibilmente è l’unica forma di salvezza dalle cupe meditazioni e
dall’amarezza della vita: quid non
ebrietas dissignat? Operta
recludit, / spes iubet esse ratas, ad proelia trudit inertem, /
sollicitis animis onus eximit, addocet artis.[15] “Che cosa non dissuggella l’ebbrezza? Rivela ciò che è
nascosto, realizza le speranze, spinge il poltrone alla battaglia, sgrava gli
animi dalle preoccupazioni, perfeziona nelle arti.”
Orazio dovette avere buona conoscenza di vini oltre al
vile Sabinum, sono degni di essere
ricordati i vini pregiati o “nobili”: il Cecubo, il Caleno, il Massico, il
Lesbio, l’egiziano Mareotico, il Formiano, il Falerno ( un buon bianco secco
-quest’ultimo- che si produce anche oggi, ma non ne conosco il grado di
parentela con l’antico).
Il poeta, parco nella scelta degli amici, nutrì
particolare affetto per Mecenate, Virgilio, Vario, Tibullo. Pertanto importanza
notevole ha nei suoi carmi il tema dell’amicizia che è sostanziata di
sincerità, di serenità e umanità. Appunto
ad un amico, Pompeo Varo, è dedicata un’ode molto nota in cui Orazio
rievoca la battaglia di Filippi, la fuga e il poco dignitoso abbandono dello
scudo: per quest’ultimo particolare, autentico tòpos, si ricordi Archiloco: ᾿Ασπίδι μὲν Σαίων τις ἀγάλλεται ἣν παρὰ θάμνῳ | ἔντος ἀμώμητον κάλλιπον οὐκ ἐθέλων.| ... ἀσπὶς ἐκείνη | ἐρρέτω· ἐξαῦτις κτήσομαι οὐ κακίω [16] “Qualcuno
dei Sai va orgoglioso del mio scudo, arma irreprensibile che io abbandonai,
contro la mia volontà, presso un cespuglio... Ma quello scudo vada alla malora!
Me ne procurerò, in seguito, uno non peggiore”; e Alceo: Ἀλκαῖος σόος ... |
ἐς Γλαυκώπιον ἱερὸν ὀνεκρέμασσαν Ἄττικοι [17] “Salvo è Alceo.../ ma gli Ateniesi hanno appeso le sue armi nel tempio della Glaucopide”; e, ancora, Anacreonte: ἀσπίδα ῥιψας
ποταμοῦ καλλιρόου παρ’ὄχθας [18] “avendo gettato lo scudo nell’onde d’un fiume dalla bella corrente”. Anche il
figlio del liberto, meditabondo, dichiara: Tecum
Philippos et celerem fugam / sensi relicta non bene parmula[19]
“Con te io provai Filippi e la rapida fuga abbandonato non dignitosamente lo
scudo”; nella litote “non bene” si può ravvisare un pizzico (non di più!) di
ironia e di amarezza.
Dalla consapevolezza di aver lasciato ai posteri una
grande opera di poesia erompe il carme 3, 30: Exegi monumentum aere perennius; e poi: Non omnis moriar multaque pars mei
/ vitabit Libitinam. “Ho innalzato un monumento più duraturo del
bronzo... Non morrò interamente ma gran parte di me eviterà Libitina”, ossia la
morte.
È tempo di passare alle epistole, anche se la penna
vorrebbe ancora indugiare sugli argomenti delle Odi.
Le Epistole rappresentano la fase più
matura della’arte oraziana: componimenti pensosi e profondi, non privi di un
sottile umorismo, si riallacciano alle Satire per il tono garbato e discorsivo,
per il linguaggio familiare e per la consueta pacatezza; inoltre un lirismo
diffuso, una perfezione formale evidente e la saggezza di sempre indicano le
Epistole come indiscutibile capolavoro. Da esse trarrò un solo insegnamento o,
se si vuole, suggerimento: Inter spem
curamque, timores inter et iras / omnem crede diem tibi diluxisse
supremum: / grata superveniet, quae non sperabitur hora.[20]
“Tra speranza ed affanno, fra timori ed ire, fa conto che ogni giorno sia
spuntato per te come ultimo: gradita ti giungerà l’ora che tu non avrai
sperato.”
Se, a questo punto, qualcuno mi chiedesse che cosa
questo scrittore, vissuto oltre duemila anni fa, può “dire” all’uomo del
ventunesimo secolo, risponderei che l’insegnamento oraziano ci inonda di quella
che il Flora definisce “classicità morale e verbale”: alla nostra epoca,
paurosamente ricca di vacua verbosità e di scarsissime realizzazioni, Orazio dà
una lezione di stile con il suo dettato linguistico essenziale, scarsamente
aggettivato, proprio, sicuro; a noi che, nevrotici ed incerti, ci affanniamo
per conseguire misere conquiste personali e benessere materiale, a noi schiavi
di un tenore di vita standardizzato e banale, suggerisce di costruirci una dimensione più vera, più ricca, più armonica,
più umana. E questa nostra realtà così frenetica egli ci esorta a guardare con
tolleranza, arguzia e, magari, con
ironia; e se una tavola imbandita e un buon bicchiere di vino possono servire a
sgravarci dalle pene quotidiane, siano i benvenuti.
Per concludere, alcuni versi di Voltaire (Épître à Horace), che ben rivelano la fervida ammirazione
dell’illuminista francese per il poeta latino: J’ai vécu plus que toi, mes vers dureront moins, / Mais
au bord du tombeau je mettrai tous mes soins
/ A suivre les leçons de ta
philosophie, / A mépriser la mort en savourant la vie / ...
/ Avec toi l’on apprend à
souffrir l’indigence, / A jouir sagement d’une honnête opulence,
/ A vivre avec soi même , à servir ses amis, / A se
moquer un peu de ses sors ennemis / A
sortir d’une vie ou triste ou fortunée,
/ En rendant grâce aux dieux de nous l’avoir donnée[21].
[7]
id., Sat., 2, 6, 1-3 (“Era questo il mio desiderio:un pezzo di terreno non troppo
grande, dove ci
fosse l’orto e, vicino alla casa, una fonte d’acqua perenne e, oltre a
questo, un po’ di selva”)
[13] id., Carm., 1, 20, 2
[14] id., Carm., 3, 21, 4
[15] id., Epl., 1, 5, 16-18
[16] Archil., fr. 6 Diehl
[17] Strab., XIII, 1, 38
[18] Anac., fr. 381b PMG
[19]
Hor., Carm., 2, 7, 9-10
[21] Epistola a Orazio: “Io ho vissuto più di te, i miei versi dureranno
meno /
ma ai bordi della tomba io metterò tutta la mia cura
/ nel seguire le lezioni della tua
filosofia / nel disprezzare la morte assaporando la vita /... /
Con te si apprende a sopportare l’indigenza, / a
gioire saggiamente di un’onesta ricchezza, / a
vivere con se stessi, a servire i propri amici
/ a ridersi un po’ dei propri
casi avversi
/ a uscire da una vita o triste,
o fortunata / rendendo grazie agli dèi di avercela
data”.
Una vera lectio magistralis di grande tenuta culturale. Mi ha fatto grande piacere leggere questo saggio. Ha rinnovato in me il desiderio di rivedere certi passi del liceo, e dell'università poi. Ma devo riconoscere mai trattati con tanta specificità e tanta competenza filologica.
RispondiEliminaGrazie
Maria Luisa
Bella pagina in un blog che continua a sorprendere per i suoi interventi di alto profilo letterario.
RispondiEliminaGrazie
E. Partigiani
Quanto attuale la lettera di Voltaire sul problematico dono della vita! E quanto la filosofia di Orazio!
RispondiEliminaGiachino
L'autore non esita a delineare la propria collocazione in fondo all'antichissima e luminosa storia delle letterature antiche, dominata dalla poesia di Orazio.
RispondiEliminaOttimo lavoro. Miriam Binda
Ars Poetica dunque! Complimenti e buona continuazione per le restanti parti del saggio.
RispondiEliminaAll’Università di Padova si è svolto un ottimo lavoro di ricerca e di équipe, sulla raccolta completa della lirica oraziana in cui si affacciano anche le istanze civili del poeta.
RispondiEliminaLa lettura alla luce dei principali modelli letterari, è stata assegnata recentemente a Tiziana Briolli dal responsabile del dipartimento per una durata triennale (2011-2013) sarà prossimamente resa nota anche una pubblicazione e saranno adoperate tavole rotonde a tema, per la divulgazione in collaborazione con personale esterno preparato sull'argomento. Grata per l'approfondimento, distinti saluti.
Tiziana
Carissimo Pasquale,
RispondiEliminaquale onore per me ospitare sul mio blog tanta assennatezza, ma soprattutto tanta materia originale; di franca e sana voce per i tempi in cui viviamo. Orazio. Il grande poeta interprete di quella cultura classica di cui tutti hanno dovuto dobbiamo e dovremo tenere di conto. Non solo per i contenuti zeppi di saggezza, di equilibrio, e di umanissima riflessione sul mondo, sul senso, e sulla precarietà della vita, ma per il culto del verbum, del lògos, come tu dici; di quell'elemento indispensabile a fasciare gli abbrivi interiori; quegli impulsi emotivo-intellettivi che senza corpo possono rimanere soltanto incompiuti dentro di noi. Ed è cosa buona farlo conoscere, ottima direi, ai tanti, ai più, che pensano di essere scrittori pervenuti e di poter fare letteratura senza avere alle spalle un tirocinio di classica memoria. A coloro, soprattutto, che pensano di far poesia ritrattando la realtà, in maniera asettica, con un bagaglio di parole povero e inadeguato, che sventolano come vero, come bandiera a garrire, proprio perché non hanno quella formazione di base che permetta loro giuste corrispondenze verbali. E magari pretenderebbero di far passare per antiquato e sorpassato un tipo di scrittura: quello sodo, robusto, sano, ben strutturato per formazione; quello che si può permettere di spaziare fino agli slanci più arditi del nostro vivere, senza tempo, esistenziali, e universali; sempre attuali che ritroviamo nei canto di Orazio, di Catullo, di Virgilio, di Dante, Petrarca, Parini, Foscolo, Leopardi, Pascoli, D’Annunzio…, perché in loro trovano forma. Quelli dell’uomo in quanto tale; quelli di noi tutti che ci siamo trovati, qui ed ora, a vivere una vicenda di cui vogliamo renderci conto. Di voci che non verranno mai dimenticate, come la Letteratura dimostra. Soprattutto, perché, ognuno di questi ha avuto alle spalle quell’Orazio che l’ipertrofia soffocante di nuove proposte modernistiche vorrebbe cancellare. E io credo che l’optimum sia proprio nella Forma; in quella desanctisiana, per intenderci; quella piena capace di tenere il tutto: quella classica attualizzata; quella che sa rispettare certe regole con spontaneità perché decantate in una storia pregna di umanistico sapore.
Grazie
Nazario
Ricevo e pubblico
EliminaUn salutare bagno nella classicità, questo saggio ristoratore e luminoso di Pasquale Balestriere, il quale ci conduce con mano sicura nella (ri)scoperta, sì, di un Orazio ironico e leggero, suadente e disincantato; ma che fa anche emergere a tutto tondo uno spirito meditativo e speculativo, consapevole indagatore del mistero del vivere. Dimensione di Orazio, quest’ultima, che Pasquale Balestriere rivaluta e che autorevolmente, per così dire, “sdogana”, quando esamina la sostanza e la valenza delle Odi. Infatti dei quattro momenti fondanti della poesia di Orazio, Satire ed Epodi, Epistole e Odi, queste ultime rappresentano certamente il momento più alto di quella poesia, capace di attingere le più alte vette espressive nel momento in cui riesce a coniugare realtà e desiderio, macerazione esistenziale e rifugio nell’abbandono, consapevolezza del mistero ontologico e fuga nella dimensione gioiosa e serena di una vita che nell’aurea mediocritas fissa il suo principale e indispensabile punto di riferimento. E’ questo, del saggio di Pasquale Balestriere, il passaggio che più mi intriga e mi coinvolge. Proprio da qui, dai Carmina, muove Balestriere per operare, per così dire, un restyling estetico-letterario dell’opera di Orazio. Nella rivisitazione, infatti, di alcuni giudizi critici sull’arte del poeta, Pasquale Balestriere contesta decisamente l’assunto di alcuni critici secondo i quali il poeta sarebbe “elegantissimo ma superficiale, freddo, lucido, quasi senz’anima”, “lettura” che Balestriere respinge decisamente come non condivisibile, per non dire irricevibile. Ma per questo riguardo, a ben vedere, a me sembra che Pasquale Balestriere, più che “bacchettare” quei critici e fare giustizia dei loro (pre)giudizi, abbia in realtà voluto compiere un’assai convincente e riuscita operazione-verità: quella, cioè, di “raddrizzare” la prospettiva con cui guardare all’arte del poeta; arte che, sottoposta ad uno screening rigoroso e approfondito, ci restituisce non solo l’autore raffinatissimo ed inarrivabile del “non omnis moriar”, del “carpe diem”, del “dum loquimur, fugerit invida aetas”; ma ci consegna anche (direi: soprattutto) il poeta sfinito dall’inquietudine del vivere, il cantore consapevole (e dolente) della precarietà della vicenda umana: “visendus ater flumine languido / Cocytos errans / … / Linquenda tellus et domus”; e ancora “pulvis et umbra sumus”. Di modo che il “sapias, vina liques” e il “carpe diem” altro non sono che la salvifica risposta allo struggimento del dubbio esistenziale, una reazione istintiva, quasi di legittima difesa, di fronte al “Quis scit, an adiciant hodiernae crastina / summae / tempora di superi?”; terapeutica e salvifica fuga nella dimensione di una vita serena e misuratamente intensa e gioiosa.
E’ da individuare qui, a mio parere, la chiave di lettura dello specifico passaggio nella trattazione di Pasquale Balestriere, un’operazione condotta magistralmente dallo scrittore di Barano nello straordinario paradiso lirico del poeta del “carpe diem” (nobilissimo progenitore del più ruspante “Chi vuol essere lieto, sia!”), insuperato Maestro dal cui testamento morale e poetico anche l’uomo del terzo millennio può attingere quelle indicazioni e quei praecepta di temperanza, misura, condivisione, che ancora oggi costituiscono un preziosissimo patrimonio pedagogico, laicamente religioso, di altissima valenza civile ed etica.
Umberto Vicaretti
Complimenti vivissimi al poeta Balestriere per la sua profonda dissertazione sul mondo classico visto con gli occhi della modernità. E complimenti anche agli interventi successivi che hanno arricchito ulteriormente il cuoe del dibattito.
RispondiEliminaFulvio
Ringrazio di cuore tutti voi che avete avuto attenzione (e pazienza) di leggere, ma anche volontà di commentare e di gratificarmi. Un particolare grazie a Nazario Pardini e a Umberto Vicaretti, autori di piccoli gioielli critici.
RispondiEliminaSarò lieto se leggerete gli altri due momenti di questo breve saggio che saranno pubblicati, distanziati tra loro, fra non molto. Sempre su questo accogliente blog.
Un cordiale saluto a tutti
Pasquale Balestriere
Caro Pasquale,
RispondiEliminadopo aver letto i commenti alla prima delle tre parti in cui è diviso il tuo magnifico saggio sul poeta del "carpe diem!" QUINTO ORAZIO FLACCO ed anche le preziose valutazioni dei nostri carissimi amici Nazario Pardini e Umberto Vicaretti, non posso che sentirmi onorata di questa bella amicizia. I vostri scritti mi colmano il cuore di gioia per le competenze letterarie e l'indiscussa abilità di ciascuno nel saperle dimostrare, ma al tempo stesso mi svuotano la mente di parole.
"L'uomo o impazzisce o scrive versi". Così diceva Orazio (e forse sarà proprio per la carenza di ospedali psichiatrici, che abbondano i poeti), ma se il credito di un autore vissuto ben duemila anni or sono fu talmente grande nei secoli passati da essere rivisitato ed apprezzato dal Parini, dal Manzoni, dal Leopardi e perfino dal Carducci, come pensare che anche un poeta quale tu oggi sei, con un'autentica capacità d'avvertire i palpiti interiori, con l'essenzialità del lessico e la prontezza a nuove suggestioni, non senta il fascino insolito di una personalità così pensosa ed inquieta?
"Siamo polvere ed ombra". E' vero. Tuttavia qualcuno dovrà pur lasciare l'impronta del proprio peso sulla nostra amata Terra.
So che presto tornerai a navigare la seconda parte dell'arguto mare oraziano e, anche se la brevità della vita ci vieta di concepire speranze, io spero di poterti leggere ancora, per poter trascorrere momenti altrettanto felici come quelli che ho dedicato alla prima parte di questo saggio straordinario.
Maria Ebe Argenti
Merita sicuramente una laurea honirem swizzerland (gratuita!). Genius
RispondiEliminaChi ama il mondo della cultura non conosce limiti di tempo e di spazio né limiti di indagine e di riflessione. Chi ama la cultura ama la poesia e i poeti, anche quelli che non ci sono più. E, per amore di poesia, scrive libri nei libri, penetrando nei più nascosti segreti dell’animo umano, per dare luce alle parole e ai significati dell’anima. Con la semplicità e la profondità che fanno alto il proprio dire. E’ anche il caso di questa lettura della poesia di Orazio, poeta che io amo particolarmente. E Pasquale Balestriere scava nella vita nell’opera e nell’anima del poeta di Venosa per donarci un prezioso affresco, da par suo, di una poesia che, dopo il suo dettato critico, è diventata più decifrabile e gradita. Bravo Balestriere, e ti auguro buon lavoro per le altre due parti che ci hai promesso e che certamente gradiremo, perché so che ci darai un’altra prova del tuo coinvolgente e validissimo umanesimo.
RispondiEliminaUmberto Cerio
Ringrazio di vero cuore Maria Ebe Argenti e Umberto Cerio, che hanno impreziosito questa pagina con commenti acuti e arguti, sapidi di interiore sensibilità e ricchezza. Ed anche, per me, rivelatori del loro affetto e della loro stima.
RispondiEliminaE ringrazio, per l'incomodo della nota, anche l'ironico "Genius" (nomen omen?), che bene farebbe però a prestare un po' d'attenzione in più all'ortografia.
Pasquale Balestriere
Carissimo Pasquale, nel leggere questa prima parte, mi rendo conto di quanta sete di cultura classica ci possa essere in chi, come me, ha una formazione in Lettere moderne. Il tuo saggio mi conforta per chiarezza di dettato e particolari. Vado subito e di corsa a leggere le seguenti parti.
RispondiEliminaPatrizia Stefanelli